
Ambiente
Soprintendenze, gli ultimi Vietcong
Cambiano i governi, passano i ministri, ma loro restano. Impercettibili, silenziose, armate di faldoni e pareri vincolanti. Non si candidano, non fanno conferenze stampa, non promettono nulla. Eppure, decidono tutto. Bloccano pale eoliche, agrivoltaico, bonifiche. Trasformano ogni progetto in un campo minato. Nel frattempo, il mondo cambia. L’Europa corre. E noi restiamo fermi, in attesa di un parere che non arriva. O arriva contrario. O arriva in ritardo. Ora, per la prima volta, anche il Parlamento prova a sollevare il velo. Ma non è la proposta di legge il punto. È che, finalmente, qualcuno ha il coraggio di dire che c’è un problema. Combattono alla cieca, resistono a tutto, anche alla realtà.
Non importa chi vinca le elezioni, chi salga al Colle, chi firmi il prossimo decreto. Loro restano. Immobili, invisibili. Armati di faldoni e pareri non richiesti. Sono le Soprintendenze, gli ultimi Vietcong rimasti.
Difendono fortini vuoti con la ferocia di chi non deve rispondere a nessuno. Hanno costruito la loro giungla nei meandri del Ministero e lì si muovono a colpi di vincoli e notifiche, respingendo ogni modernizzazione come fosse un’invasione americana.
Non è questione di destra o sinistra, è questione di permanenza. “Il paesaggio va tutelato”, dicono. Ma nel frattempo bloccano pale eoliche, pannelli solari, bonifiche, rigenerazioni. Trasformano ogni progetto in un campo minato.
Proteggono la vista dalla curva di una statale, la linea dell’orizzonte sopra un vecchio capannone, l’ombra obliqua di un muretto a secco del Settecento. E mentre l’Europa chiede coraggio, semplificazione, velocità, noi restiamo fermi. In attesa di un parere. Che non arriva, o arriva contrario, o arriva in ritardo. E comunque cambia poco. Perché nel frattempo il tempo è passato, il bando è scaduto, i soldi sono tornati indietro.
La sensazione, ormai condivisa da molti amministratori locali e investitori, è che le Soprintendenze esercitino un potere senza responsabilità, senza obbligo di rendere conto degli effetti economici, ambientali, culturali.
In questo contesto, la Lega ha presentato una proposta di legge per ridimensionarne i poteri. È il disegno di legge n. 1372, attualmente all’esame delle Commissioni del Senato, che prevede una delega al Governo per rivedere il Codice dei beni culturali e del paesaggio, semplificare le procedure, rendere meno vincolanti i pareri.
Non è il primo tentativo. A gennaio un emendamento leghista, che puntava a far prevalere il parere dei Comuni, è stato ritirato dopo l’opposizione del Ministero della Cultura. Anche questa proposta, con ogni probabilità, non cambierà davvero gli equilibri. Ma segnala una svolta. Se ne parla. Non più come sacralità, ma come problema.
Il paradosso è tutto qui. Mentre l’Italia si autoconvince di difendere il “bello”, il resto dell’Europa innova, trasforma, corre.
E noi restiamo a discutere se un impianto fotovoltaico possa disturbare la vista su un rudere industriale dimenticato da decenni.
Le Soprintendenze non governano. Semplicemente, restano. Come i Vietcong.
E vincono per sfinimento.
Totale disaccordo. L’ autonomia delle soprintendenza serve (come quella dei magistrati) a tutelare le bellezze italiane dalle smanie arraffone di una classe politica di ignoranti (nel migliore dei casi). Faccio l’ architetto (per privati) e non ho mai avuto problemi a ricevere autorizzazioni dalle soprintendenze, dove ci sono funzionari esperti e ragionevoli. Non così negli assessorati o negli uffici degli operatori immobiliari, che se potessero raderebbero al suolo il Duomo di Milano per farne un supermercato. Grazie a Dio esistono le sovrintendenze (e non capisco cosa c’entrino i vietcong -nomignolo dispregiativo inventato dagli americani, loro non si chiamavano così. E mica restavano e basta, mai sentito parlare del Tet? Santa ignoranza…)