Ambiente
Merlata Bloom, perché?
Sono stato a visitare Merlata Bloom, il nuovo mega centro commerciale aperto alla periferia ovest di Milano, alle propaggini dell’area Expo.
Ci sono andato appena ho avuto disponibile un’auto, che non posseggo, perché a Milano nel 2023 questo gigantesco hangar un po’ tondeggiante non è praticamente raggiungibile se non con l’auto, distando la fermata della Metro di Molino Dorino 2,1 km ed essendoci al massimo disponibile un autobus, il 35, un po’ poco per un mostro che spara numeri enormi (più di 210 negozi, 43 ristoranti, 10,00 mq di intrattenimento e cultura, 11,000 mq
dedicati al mondo sport, 5,000 mq di aree verdi e un esclusivo Sky Garden, che nel grigio di una giornata invernale milanese sembra un po’ una terrazza sulla Ruhr).
Mentre peregrinavo in un pigro lunedì pomeriggio, scattando foto finché una gentilissima guardia giurata mi ha chiesto cosa stessi fotografando, mi sono fatto spessissimo una domanda: perchè?
Perché a Milano, non in aperta campagna dove obiettivamente i servizi e i negozi possono essere pochi, sparsi o inesistenti, ma a Milano dove c’è tutto si pensa ancora nel 2023 di inaugurare un centro commerciale di dimensioni mostruose, che peraltro ha fatto chiudere altri centri simili vicino e rappresenterà in futuro un altro problema di riutilizzo come i suoi predecessori?
Perché un posto chiaramente destinato al consumismo più sfrenato, irraggiungibile se non in auto (e impossibile da lasciare visto che almeno una delle due uscite è uno stretto budello e i 3.700 posti auto fanno pensare a un traffico importante), ciancia impunemente di green?
Perché si pensa ancora, nel 2023, che la rigenerazione urbana passi in qualunque modo per la ricreazione in vitro dello spazio pubblico, uno svuotamento della normale fisiologia europea dei centri commerciali naturali e dell’altrettanto naturale socialità che vi si crea, a favore di piazze finte, negozi finti, ristoranti finti?
Perché nel 2023, dopo tutte le tirate sulla sostenibilità, da Merlata Bloom al volgarissimo albero di scatoloni di Gucci in Galleria è tornata a funzionare un’idea dei consumi posizionali di tutto (dai logoni sugli abiti alle montagne di cibo agli enormi distributori di creme pistacchiose) orribilmente tamarra, ostentata, di cattivo gusto, povera nel senso della tribù dei Bodi in Etiopia, nella quale più gli uomini hanno la pancia più sono desiderabili?
Perché siamo sommersi da retoriche (la sostenibilità, l’inclusività, la circolarità) che non vanno mai oltre le bolle di chi è già stra-convinto e sono sempre negate dalla pratica di posti terribilmente anni ’90 come questo?
Perché, a proposito di retorica, Milano non è in grado di produrre di meglio di questa triste tamarrata da periferia di Dubai?
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