Ambiente

L’indiscreto fascino della catastrofe. Come scegliere la propria à la carte – 1

1 Maggio 2019

Perché oggi tutti o quasi, comunque molti, sono spaventati dal cambiamento climatico, fenomeno che viene quasi personificato come l’uomo nero che arriva per mangiarti e annientarti? E perché si è così diffusa, in men che non si dica, una corrente ambientalista, o pseudo tale, che strombazza minacciando la fine del pianeta a meno che non si corra immediatamente ai ripari, ossia a una drastica riduzione dei cosiddetti gas serra antropogenici – supposta causa del cambiamento in atto – ma soprattutto di uno tra tutti considerato il più infame e pericoloso, il diossido di carbonio?

Le ragioni di questa preoccupazione sono sicuramente parecchie ma le origini si possono arguire da profonde influenze culturali molto più ancestrali di quanto si immagini. La cultura c’entra sempre, girala come vuoi sempre cultura è. Noi siamo il prodotto di millenni di riti, lingue, letterature, religioni, filosofie, usanze, consuetudini che si sono incrociate e sostituite nel tempo grazie ai movimenti migratori, e che si sono poi sviluppate ulteriormente sia singolarmente sia collettivamente sia intersecandosi e, spesso, fondendosi. E andremo ancora avanti così, perché le interazioni e le integrazioni non finiscono mai, alla faccia di chi vorrebbe erigere muri, muraglie e fili spinati.

L’odierna paura delle catastrofi affonda le radici nei culti apocalittici, arcaiche manifestazioni del pensiero religioso che si sono moltiplicate e diversificate nel corso dei secoli secondo le necessità di una setta o di un’altra. A volte quelle credenze s’innestano su culti messianici (il Messia, per i cristiani; il Mashiach per gli ebrei; il Mahdi per gli islamici, il Saoshyant per gli zoroastriani), che prevedono un salvatore che condurrebbe il mondo verso una nuova era di luce e di rinnovamento, viste le brutture metaforiche e concrete che imperversavano e imperversano a causa dell’uomo. Il rinnovamento avverrebbe colla fine dei tempi e col superamento del mondo terreno, distrutto con fuoco e fiamme al suono delle assordanti trombe angeliche. Una guida, un duce, un Führer, un condottiero insomma che possa in qualche modo rimediare allo smarrimento in cui l’uomo si trova di continuo, perché, nonostante tutto, l’uomo resta cocciutamente un bambino irresponsabile con un’abilità innata a combinar pasticci.

I quattro cavalieri dell’Apocalisse nell’Arazzo di Angers

 

Il successo dei culti messianici e apocalittici, dove per vari motivi la fine o l’inizio di un millennio sono spesso investiti simbolicamente come date dell’avvento del Messia e del cambiamento, esiste da molto tempo, l’apocalisse esercita un certo fascino, perché milioni di individui sembrano irresistibilmente attratti e diventano seguaci e proseliti di quei culti.

La Storia ne è costellata, le eresie cristiane alla fine del primo millennio non si contavano e anche quelle successive non furono poche: penitenziagite! Dolcino… Ma perché così tanta gente è così magnetizzata da una visione apocalittica?

Innanzi tutto credo che alla base ci sia la condivisione. La condivisione di una dottrina, sia essa religiosa, filosofica, politica, sportiva o altro è il non sentirsi isolati per le proprie paure, le proprie credenze, le proprie incertezze, non essere considerati singolarmente dei pazzi: se si è in diversi a credere in una certa cosa vuol dire che non si è soli e, si sa, l’unione fa la forza. La forza di religioni come il giudaismo e il successivo cristianesimo si basa sulla condivisione e di un’identità all’interno della condivisione stessa.

Il giudaismo si basa su un popolo eletto, scelto da Dio dopo tutte le tragiche vicende diluviane che annientarono l’umanità (un dio davvero gentile colle sue creature, non c’è che dire), che un giorno farà trionfare Israele. Siamo ancora lì a vedere che stragi di povera gente, non facente parte del popolo eletto, l’odierna Israele, costruita pretestuosamente sul modello biblico della Terra Promessa ad Abramo e ai suoi discendenti, compia ogni giorno in nome di quest’elezione.

Il cristianesimo si basa sulla condivisione dello stato di appartenenza ai vinti, ai poveri, ai derelitti, ossia la maggior parte dell’umanità, che si trovava in condizioni d’indigenza e di disagio rispetto alle potenti e ricche oligarchie che dominavano l’Impero Romano, e prometteva una vita ultraterrena migliore non essendo in grado di assicurare una miglioria in quella presente.

L’islam prevede due Mahdi, a seconda della corrente sciita e sunnita, ma la condivisione della fede, assai più egualitaria del cristianesimo, volendo, fa identificare i fedeli in una moltitudine pronta a qualsiasi guerra santa contro gli infedeli, ossia tutti gli altri. Botte da orbi, stile opera dei pupi.

Di certo le tre principali religioni monoteiste si sono rivelate guerrafondaie fino al midollo, dando origine a sanguinose guerre di religione anche tra gruppi della stessa fede, cristiani contro cristiani (oggi si riaprono i conflitti religiosi nell’Irlanda del Nord, grazie alla Brexit), islamici contro islamici, e in tutte le varie combinazioni possibili; anche in altri culti asiatici, quanto mai distanti dal cristianesimo e dall’islamismo, c’è il momento di sangue e arena.

La visione e la promessa di un mondo celeste migliore dopo l’apocalisse è il motore che spinge il credente a infervorarsi, a credere senza se e senza ma, uniformandosi alla massa e a ciò che urlano sacerdoti e predicatori, relegando la ragione a orpello inutile perché la ragione e la fede sono incompatibili. Ma non è l’unico motore che spinge a questo fascino verso la fine dei tempi. C’è anche la paura. La paura di restare esclusi da quella seconda opportunità di una vita trascendente fra i giusti. La psicostasia deciderà chi è degno di entrare nel Paradiso, altrimenti fiamme eterne e duolo. E per conquistarsi un posto lassù bisogna fare di tutto, anche affettare l’infedele di turno, ostacolo alla vera religione.

La paura di essere esclusi e quindi di avere a che fare eternamente con quei mostri raffigurati in tutte le rappresentazioni dell’Apocalisse giovannea era anche un altro aspetto di quel fascino perverso per il finale catastrofico. Perché esiste anche il piacere di avere paura, per poi sentirsi consolati in qualche modo da entità sovrannaturali, ma soprattutto la paura è quella del cambiamento: cambiare è più spaventoso che morire. Jung ne ha discettato per interi saggi e apocalisse – da apò e kalypto, cioè svelamento, scoperta – è l’archetipo che sottintende tutte le paure legate all’ignoto, a ciò che è nascosto.

L’apocalisse si mostra pertanto come unica soluzione possibile per il rinnovamento, e spesso, in alcune dottrine totalizzanti, come quelle di certe sette cristiane anglosassoni radicali o di alcune islamiche radicalissime, ad esempio quella che anima l’ISIS, appare anche lecito accelerare l’avvento della fine di tutto, con qualsiasi mezzo, anche sprecando migliaia di vite umane, per meglio preparare il rinnovamento finale. Per i meno temerari resta sempre la paura di veder dissolvere la realtà sensibile a cui si è bene o male affezionati.

Oggi il mondo occidentale, per fortuna, grazie anche alla Rivoluzione Francese del 1789 e al secolo successivo, col darwinismo e il procedere delle scienze, ha decapitato Dio e in qualche modo ha introdotto la modernità spesso umiliata dai sacerdoti che, in quanto sacerdoti di una religione dogmatica, non potevano far altro che rinchiudersi nei loro invalicabili e inossidabili dogmi. Requiem aeternam, si sarebbe potuto dire. Ma c’erano in agguato la Restaurazione postnapoleonica e il Romanticismo…

Vetrata dell’Apocalisse nella Cattedrale di Bourges (XIII sec.)

 

Il fascino per l’apocalisse ha continuato ad esistere per molto tempo e, naturalmente, si è espresso soprattutto nei luoghi dove l’ignoranza si tagliava e si taglia tuttora a fette, e dove la medesima è stata pure incrementata da regimi che si basano sulle radici cristiane e sulla paura: gli Stati Uniti d’America e le ex colonie spagnole e portoghesi. Ovviamente gli Stati Uniti, dove ancora oggi il presidente giura sui libri sacri e dove i presidenti di destra tentano sempre di reintrodurre il creazionismo come ipotesi dell’origine del mondo (teoria bollata come tesi religiosa e non scientifica dalla Corte Suprema solo nel 1987, ma sempre in auge), hanno fatto la parte del gigante perché lì le religioni erano il cardine delle identità dei vari popoli che ne componevano la popolazione, cattolici gli italiani, gli irlandesi e gli ispanici in generale, protestanti gli inglesi e i nordeuropei, ortodossi i balcanici, eccetera. I culti apocalittici cristiani hanno avuto un enorme successo nelle comunità nere, sia nel tempo della schiavitù che in quello immediatamente successivo, anche perché i vari cristianesimi ben si adattavano alla percezione delle condizioni di schiavitù e le facevano sentire parte di una comunità più vasta che in qualche modo non si disperdeva e dava loro la speranza, nonostante l’orribile sorte a loro destinata da altri cristiani e dagli odiati arabi islamici che li rapivano dai villaggi africani per poi venderli ai negrieri olandesi, inglesi, francesi, portoghesi e spagnoli. E il canto, così importante per i prigionieri, si espresse nella musica nera: il più celebre, che annuncia l’Apocalisse di Giovanni e il giorno del giudizio, When the Saints Go Marching In.

I culti evangelici attualmente sono quelli più numerosi e danarosi negli Stati Uniti, almeno un americano si quattro lo è e gli evangelici sono, se possibile, più fanatici dei cattolici. E si è visto anche in Brasile quanto gli evangelici abbiano contato per l’elezione di Bolsonaro, considerato il Messia. Si salvi chi può.

Comunque, al di là dell’analisi frettolosa e incompleta, anche perché cercare di concentrare in poche righe gli universi religiosi non solo statunitensi è veramente impossibile, questo atteggiamento millenaristico sembra essere alla base di ciò che ci interessa: un fascino insopprimibile per la fine del mondo, la catastrofe finale.

Catastrofe. A differenza di apocalisse, che contiene comunque un movimento dall’alto, il disvelamento, la catastrofe – da katastrophḗ, capovolgimento – presuppone un movimento dal basso. L’unione delle due è uno stravolgimento totale, da tutte le direzioni. Paurosissimo, non c’è difesa.

Ora, non tutti sono religiosi a questo mondo. Anzi, nella moderna Europa, assai più moderna di quello stato oscurantista al di là dell’oceano, speriamo resista ancora per molto, i non credenti aumentano. Ma, nonostante le rivoluzioni francesi e il darwinismo, i non credenti devono comunque scendere a compromessi coi credenti, proprio per il concetto stesso di democrazia che attualmente vigerebbe in Europa e in tutti gli stati di stampo democratico europeo. Di fatto questa mentalità superstiziosa ha intriso profondamente la cultura europea per secoli ed è difficile da estirpare. A volte anche le leggi sono modellate su punti di riferimento cristiani, volenti o nolenti. E il maledetto politicamente corretto non consente di classificare come discriminazioni quelle che i religiosi fanno nei confronti dei non religiosi ma esattamente il contrario, condannando i razionalisti di accusare i religiosi di fanatismo, sia esso cristiano o islamico, e quindi di discriminarli in base alla religione. Si marca come scorretto Charlie Hebdo, ma si condannano solo gli islamici terroristi; in fondo i vignettisti satirici se la sono andati a cercare, dando quasi ragione all’islam in generale per le “esagerazioni” della rivista, e poi, in terra europea, si fanno pure i convegni sulla famiglia “naturale” invitando cani e porci tra i culti più oscurantisti del pianeta. E sono il peccato, l’ateismo, il libertinaggio, l’allontanamento dai libri sacri, le colpe dell’uomo che causeranno l’apocalisse.

Ad ogni modo, l’apocalisse, anche se non si è credenti, è pur sempre un concetto assimilato e metamorfosato nelle culture moderne. Attualmente è sempre più vivo.

Locandina del film “Il giorno dei trifidi” dal romanzo di J. Wyndham

 

La letteratura di fantascienza apocalittica, quasi tutta d’impronta anglosassone, forse per il gusto gotico che ha caratterizzato quella società dal preromanticismo in poi, che parte da Mary Shelley – The last man (L’ultimo uomo), 1826 – , continua più avanti con Herbert George Wells ma che si sviluppa soprattutto nella seconda parte del XX secolo, abbonda di apocalissi naturali, tecnologiche ed epiche e il successo di romanzi come Greener Than You Think (Più verde del previsto), 1947, di Ward Moore o The Day of Triffids (Il giorno dei trifidi),1951, di John Wyndham o The Death of Grass (Morte dell’erba), 1956, di John Christopher, e moltissimi altri, testimonia il bisogno del pubblico di identificarsi nei sopravvissuti. Nella maggior parte dei casi, le insidie provengono dalla stessa Natura. La paura, sentimento molto nordico, che popola di demoni e divinità oscure le mitologie di quei luoghi, è anch’essa il risultato di diverse componenti. Certamente la Natura, a quelle latitudini, è in grado di incutere veramente paura, e lo dovette fare spesso, durante i lunghi inverni gelidi della Piccola Era Glaciale, dove la vita era veramente ridotta e messa in perenne pericolo. Ma è anche la Natura oscura, l’invisibile, che produce il brivido. I fittissimi boschi scandinavi, o dell’Europa centrale, fatti di piante altissime, dove la luce non riesce a penetrare, sono terribilmente bui e con rumori sinistri. Il luogo adatto per i demoni più terribili che l’immaginazione possa partorire. E le saghe nordiche sono costellate di creature orrende e feroci, abitatrici dell’oscurità delle foreste. La paura delle tenebre si aggiunge a tutte le altre paure.

Esautorata, comunque, oggi la religione dalle sue eccessive ingerenze e dai suoi compiti, almeno in Occidente, con Nietzsche che seppellisce Dio una volta per tutte, nella Gaia Scienza (1882), non si può dire che non sia rimasto un vuoto. Un vuoto ideologico, fondamentalmente, che può fare smarrire chi non riesca a trovare il senso della vita che, senza un luminoso aldilà, può sfuggire e mandare nei pazzi. Un vuoto da riempire con un modello.

Fotogramma dal film “Altri tempi” (1952) – Ballo Excelsior

Ecco allora che si fa strada la dottrina politica per colmare quel vuoto. Un mondo nuovo viene promesso alla fine del XIX secolo e nei primi decenni del XX, all’inizio dalla Belle Époque, in cui la scienza vince sulle tenebre, come nel famoso Ballo Excelsior (1881) di Luigi Manzotti e Romualdo Marenco, dove la Fata Luce vince sul Mago Oscurantismo, ottimismo che viene subito messo in soffitta a causa della Grande Guerra (1914-1918), che azzera tutto. Dopo la guerra, il mondo nuovo è lo specchietto per le allodole di duci e condottieri, il fascismo è la novità che avanza, promette un posto al sole, una società moderna, e funge da modello per diversi paesi europei, in crisi esistenziale anche loro, dissanguati, depressi e prostrati dai disastri materiali e umani del conflitto, con delle monarchie obsolete e da operetta, e pronti a “credere” nelle promesse di quel mondo a venire. Si è visto come sia andata a finire, anche se qualche attuale nostalgico, soprattutto giovanissimo, non si rassegna e blatera, senza aver studiato, che il fascismo ha fatto anche cose buone. Seh, vabbè…

Di certo fu uno scossone che produsse una corsa verso la tecnologia, a scopo principalmente bellico, da tutte le parti, con le distorsioni ben note dell’eugenetica nazista, le armi atomiche americane, eccetera.

Il vuoto, dicevamo. Siccome l’occasione fa l’uomo ladro, e la politica si avvale spesso del furto, la politica spesso delude l’elettore probo. Il vuoto appena riemerso dalla catastrofe bellica viene colmato da una seconda politica che si annuncia migliore dei fascismi, anche perché li deve sostituire, ma che dopo infinite corruzioni e guasti attraverso i decenni, in tutta Europa, ha lasciato ancora una volta scoperto quel vuoto.

Corsa, perciò, per riempirlo con altre cose. Ancora politiche, di certo, mentre gli elettori delusi si avviano verso altre forze nate (alcune anche morte poco dopo) proprio per recuperare i delusi, con terre promesse e mondi nuovi anche qui, certamente assai difficili da realizzare quando non impossibili a causa dei rapidissimi mutamenti globali, non climatici ma politici.

Il vuoto sta sempre lì, in agguato, presenza fisica ingombrante.

Ed ecco che, nella seconda parte del XX secolo, accanto alle religioni tradizionali che, nonostante tutto, si rafforzano dopo la rovina della seconda guerra mondiale, si affianca una nuova religione che va prendendo sempre più piede, mescolandosi alla politica. Questa religione non ha divinità, è un culto laico che unisce tutti in tutto il mondo, non si pone in contrasto colle altre religioni e proviene dai vincitori della guerra, gli Stati Uniti. È il consumismo, che viene identificato col benessere, il nuovo benessere dopo il disastro e le privazioni. Consumare è ormai diventato inevitabile, siamo necessariamente tutti dei consumatori, anche e soprattutto di cose inutili, e la corsa al consumo diventa una patologia inarrestabile. Ne parla a proposito già nel 1964 Umberto Eco, nel sempreverde saggio Apocalittici e integrati, dove rivolta come un calzino la cultura di massa e i suoi mezzi di comunicazione rivelando ciò che sono, apocalitticamente, nel senso etimologico del termine.

Col diffondersi dei mezzi di comunicazione di massa ormai in Giappone come in Argentina, in Egitto come in Canada, in Germania come in Cina, tutti devono avere le stesse cose, gli stessi simboli della modernità, senza i quali non si è moderni. E il consumismo fa inventare nuovi lavori di gente che deve produrre tutte quelle cose inutili ma necessarie per lo status symbol, quindi viene visto come sviluppo e, pertanto, qualcosa di irrinunciabile soprattutto per quei paesi che producono per soddisfare le voglie insaziabili dell’Occidente, rimanendo poi coinvolti nelle medesime voglie, vittime avviluppate nella ragnatela del consumismo stesso. Se si rinunciasse al consumismo il progresso derivante da quell’immensa mole di lavoro in Asia o in Africa o in Sudamerica si vanificherebbe, lasciando sul lastrico miliardi di persone, ed ecco perché i paesi in via di sviluppo sono più restii ad adottare misure di limitazione alla produzione. Ma, alla fine, non è sufficiente più neanche il consumismo a colmare quel vuoto…

(1- continua)

 

© Massimo Crispi 2019

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