Ambiente

L’energia senza slogan

Non basta produrre energia. Bisogna saperla custodire.
Questo è un racconto sulla responsabilità, sul paesaggio, sul tempo che resta.

16 Aprile 2025

Non esistono più luoghi neutri. Nemmeno nel paesaggio. Ogni collina è una domanda. Ogni campo, una scelta. E ogni decisione su come generare energia è un atto che racconta un’idea precisa di futuro. C’è chi costruisce per produrre. E chi costruisce per durare. La differenza non è solo tecnica. È narrativa. Perché solo ciò che ha una narrazione regge il tempo, regge il dissenso, regge il vento.

Non si tratta solo di fotovoltaico, di megawatt, di ritorni. Si tratta di imparare a non separare più l’energia dalla cultura, la tecnologia dalla bellezza, il bilancio dalla relazione. Questa è la vera transizione: non energetica, ma esistenziale. Non si può più parlare di impianti senza parlare di ciò che ci muove. Di ciò che ci tiene. Di ciò che ci resta.

Perché ogni impianto, se è solo un impianto, non resta. Ma se diventa paesaggio, parola, ascolto, allora diventa segno. Non solo sulla terra, ma nella memoria. Abbiamo bisogno di una nuova ecologia. Ma non quella che si proclama. Quella che non dice mai la parola ambiente, eppure lo custodisce. Quella che sa che ogni impresa è anche una pedagogia, che ogni decisione tecnica è anche un messaggio politico. Che ogni forma è anche una forma di pensiero.

Ciò che stiamo imparando, nei luoghi che attraversiamo, è che la sostenibilità più difficile non è quella ambientale. È quella umana. La capacità di stare nei processi senza perdere la misura, senza perdere il tempo, senza perdere l’altro.

Un’azienda può raggiungere i suoi obiettivi. Può produrre, crescere, espandersi. Ma se non sa custodire le relazioni che l’hanno resa possibile, non ha costruito nulla. Se non sa riconoscere, ringraziare, affidare, includere, allora ha solo accumulato.

Chi guida un’impresa sa che le decisioni più serie non si prendono nei Consigli di amministrazione. Si prendono in silenzio. In quella zona franca in cui il gesto precede il contratto. Dove si apre uno spazio, si offre una fiducia, si dona un pezzo del proprio disegno senza aspettarsi nulla. È lì che si misura la statura di una leadership.

E poi c’è il tempo. Quel tempo che l’impresa rischia sempre di sacrificare. Il tempo che non produce. Che non si misura. Che non rientra nei piani industriali. Ma è lì che accadono le cose che contano. La parola che unisce. Il perdono. L’idea buona. Il seme.

Senza quel tempo, tutto si riduce a operazione. E anche l’energia smette di illuminare. Solo chi distingue tra il tempo che corre e il tempo che resta può costruire qualcosa che valga la pena di essere ricordato.

Questa è l’unica energia che non conosce calo di produzione: quella che nasce da una visione. Quella che sa dove vuole andare. Quella che non ha bisogno di urlare per esistere.
Non si tratta di essere i primi. Ma di essere quelli che non si fermano alla soglia. Che non si accontentano del funzionamento. Che vogliono un senso.

C’è un’altra parola che in impresa si dice troppo poco. È la parola grazie. Non quella di cortesia. Ma quella che riconosce. Che tiene. Che costruisce.

Chi la sa pronunciare, non ha bisogno di slogan. Ha già detto tutto.

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