Ambiente

Le mille e un’apocalisse raccontate da Sheherazade

20 Aprile 2019

Difficile avere oggi un’esatta idea di come la Natura che ci circondi sia complessa e articolata. La narrazione che, generalmente, della Natura si vuol fare è troppo spesso semplicistica e rapida e, proprio per questa sua rapidità, figlia dell’epoca che popoliamo, capita di frequente di non riuscire a penetrarla fino in fondo. Io della Natura sono un curioso ma modestissimo osservatore e cerco di capirla il più possibile, anche coltivando le piante fin da quando ero bambino, ottenendo discreti risultati sui balconi e nei giardini delle case in cui ho abitato, a volte riuscendo a far sopravvivere specie esotiche, in luoghi dove meno che mai quelle specie avrebbero dovuto trovarsi, e ibridandole, in una sorta di chirurgia vegetale al limite della tortura.

La Plumeria, fiore simbolo di Palermo

Ad esempio, non so per quale fortunata combinazione, una Plumeria che mi ero portato da Palermo (luogo in Italia dove esiste la maggior diffusione del genere) a Milano, sul mio ballatoio di una casa di ringhiera, fiorì e fruttificò, impollinata da un invisibile insetto curioso e goloso che, probabilmente attratto dall’inebriante fragranza, riuscì a infilarsi nella strettissima corolla e così favorire l’impollinazione del profondo gineceo. Tanto è facile fecondare gli oleandri, stretti cugini delle plumerie, tanto è raro ricavare frutti da queste ultime, alle nostre latitudini. Da quei frutti vennero fuori tanti semi alati che amorosamente piantai e che altrettanto amorosamente mi ricambiarono. Una delle mie attuali plumerie sul balcone di Firenze proviene proprio da quei semi. Un albero in vaso da ventotto anni, che fiorisce abbondantemente ogni anno ma che non riesce a fruttificare. Anche a Palermo è rarissimo vederne i frutti. Un fecondatore insetto milanese sperduto, forse…

Comunque… non solo le plumerie sono le piante che cerco di forzare in ambienti alieni. È pur vero che d’inverno le proteggo all’interno, nell’ampia e luminosa scala fiorentina che funge da vera e propria serra fredda perché, nonostante il “riscaldamento globale” in atto, il clima invernale di Firenze è pur sempre troppo freddo per le delicate plumerie termofile. Di certo, ad ogni buon conto, questo bel calduccio che ci stiamo godendo negli ultimi anni favorisce lo sviluppo di specie più meridionali a latitudini più alte e le fluttuazioni degli areali delle piante nelle varie ere geologiche è un dato di fatto. Che siano state trasportate dal vento, dagli oceani, dagli animali importa poco.

La Sicilia, per esempio, è un’allargata biocenosi importante perché è l’anello di congiunzione tra Africa ed Europa: vi vivono delle specie relitte di quando il mondo era assai più freddo, piante che altrove sono assai comuni, sebbene in forma diversa e più grande. Una è la betulla nana dell’Etna, che insieme alla betulla di Creta raggiunge il limite europeo meridionale del genere, e l’altra è una pianta che vive solo sulle Madonie. Si tratta dell’Abies nebrodensis, l’abete dei Nebrodi, nome che un tempo era esteso a tutta la catena montuosa della Sicilia settentrionale. Questo bellissimo abete, elegante, verdissimo, fitto, piramidale e ricco di strobili, è una pianta relitta. Anche abbastanza derelitta, se vogliamo, perché solo pochissimi esemplari vivono in natura, relegati in un pietroso e protetto vallone in alta quota, dal nome paradisiaco: Vallone Madonna degli Angeli.

Abies nebrodensis nel suo ambiente, il Vallone Madonna degli Angeli nelle Madonie (PA)

Perché relitta? Perché un tempo, quando il clima era assai più freddo e i ghiacci invadevano l’Europa fino a latitudini abbastanza basse, la Sicilia doveva avere una flora e una fauna piuttosto alpine. Difatti l’abete bianco, a cui l’abete dei Nebrodi è strettamente imparentato, è una pianta da climi freddi. L’abete bianco fu molto sfruttato nei secoli passati come pianta da legname e pure impiantato artificialmente, a quello scopo, dai monaci di Vallombrosa, tant’è che ancora oggi la foresta attorno all’abbazia ne conta migliaia di esemplari. Inadatti al suolo, come ha dimostrato la fortissima tempesta di vento che li ha decimati qualche anno fa.

Comunque, torniamo all’abete dei Nebrodi, che ci racconta molte cose sul clima e sui suoi “capricci”. Ci racconta, per esempio, che molte piante si sono estinte anche per cause climatiche non necessariamente legate alle crisi antropogeniche o, meglio, non unicamente per queste ultime. Quando il clima cambia, inevitabilmente cambiano le condizioni di vita per le specie viventi. Gli animali si spostano più facilmente delle piante ma pure queste ultime lo fanno attraverso i semi diffusi dal vento o anche dagli stessi animali migranti, attaccati alle loro piume o al pelo. E attecchiscono laddove le condizioni siano più propizie. Quelle che ce la fanno, naturalmente. Molti semi saranno caduti sulle rocce, e quindi non saranno germinati, oppure su terreni più fertili ma dove le piantine più tenere saranno state brucate da erbivori più o meno voraci e inconsapevoli del tentativo di sopravvivenza di quelle piante in fuga come loro.

Fatto sta che per le ragioni più varie e in parte conosciute, quando non totalmente sconosciute, molte specie si sono estinte. Anche prima dell’avvento dell’uomo e della famigerata Rivoluzione Industriale. Un’altra ragione del fatto che di questi meravigliosi abeti ne siano sopravvissuti così pochi è anche dovuta al taglio per legname da costruzione nei secoli passati, come travi, porte e mobili di antiche chiese e palazzi delle cittadine montane dei dintorni testimoniano. Ma nessuno, nei secoli passati avrebbe potuto immaginare che l’abete dei Nebrodi fosse vicino all’estinzione e, soprattutto, che fosse una pianta relitta, non esisteva una coscienza ecologica. Per fortuna le piante rimaste non dovevano essere appetibili come legname e sopravvissero ai tagli.

Gli allarmismi che vengono dalla sconsiderata liquefazione dei ghiacciai, cosa, peraltro, avvenuta ampiamente e ripetutamente in passato, ci fanno perdere la dimensione del fenomeno. Le piante hanno spesso cicli vitali più lunghi di quelli umani, esistono alberi plurisecolari e addirittura millenari, così come esistono, appunto, in anfratti con microclimi particolari, le ormai supercitate piante relitte, mute testimoni di tempi più caldi o più freddi. Piante che a volte si sono modificate e adattate al nuovo clima, ispessendosi o assottigliandosi, creando mutazioni all’interno del loro patrimonio genetico per riuscire a sopravvivere in un ambiente meno favorevole del precedente. Le più forti, certo, perché le altre non hanno resistito alla scomparsa.

Stessa cosa avviene per gli animali. Chi non ce la fa si estingue. Chi ce la fa si trasforma, magari diminuisce la taglia, per disperdere meno energie e consumare di meno, come è accaduto alla mini betulla etnea.

L’allarmismo per il cambiamento climatico, fenomeno assolutamente inevitabile e perfettamente naturale ma presentato come una calamità dall’uomo stesso causata, ci narra di catastrofi prossime venture, sull’onda dei millenarismi alla moda, sempre intorno alla fine e all’inizio di un nuovo millennio, con fini del mondo, allineamenti planetari, piogge di meteoriti, inabissamenti atlantidei, sconvolgimenti polari, diluvi universali, papi neri, cavalieri dell’apocalisse, punizioni divine per aver osato sfidare il creato… In genere si usa la carta della colpevolizzazione, perché ha molto successo. Il peccato ha sempre una forte attrattiva sia per commetterlo (almeno un po’ di piacere nel commetterlo bisogna provarlo, accidenti!) sia per colpevolizzarsi sia per, in seguito, pentirsi e frignare. Faust, alla fine, si pente di aver consegnato l’anima a Mefistofele; però, quand’era vecchio decrepito, pur saggia persona, non aveva esitato un solo istante a scambiarla per la giovinezza e il vigore. I disastri sono sempre esistiti, le inondazioni pure. Le stampe antiche ci narrano di questi cambiamenti climatici, non solo i carotaggi del ghiaccio.

Il peccato contro natura, alla fine, non è quello di cui hanno paura gli inossidabili difensori della famiglia “naturale”, il cui senno è andato a depositarsi in ampolle sulla Luna. Il peccato contro natura è, oggi più che mai, il cambio climatico. Ma lo è soprattutto perché antropogenico o, almeno, presunto tale. E, in quanto alle ampolle lunari, bisogna dire che il loro numero si è accresciuto esponenzialmente in questi ultimi tempi di ambientalismo superficiale ed emotivo, soprattutto quello gretesco attualmente in voga.

Se solo si riflettesse un momento e si conoscesse un minimo di storia climatica del pianeta non ci si dovrebbe sorprendere poi così tanto dello scioglimento dei ghiacciai. In fondo quando i Vichinghi arrivarono in Groenlandia vi si stabilirono e coltivarono la terra che c’era, prima che fosse ricoperta nuovamente dai ghiacci della Piccola Era Glaciale che ne determinarono l’estinzione. E nelle isole britanniche si coltivava la vite, cosa che fu posteriormente annientata dalla suddetta e imprevista piccola glaciazione. Sulle Alpi, quelle stesse Alpi dei cui ghiacciai in pericolo si urla a più non posso, nel Basso Medioevo i ghiacciai stessi si erano ritirati assai più di oggi, tant’è che in molte valli alpine vi si erano costruiti dei villaggi, delle chiese, alpeggi, che furono annientati dalla successiva ri-espansione dei ghiacciai. Ne parlano abbondantemente cronache e registri di chiese e archivi storici, stampe che mostrano i disastri degli avanzamenti glaciali in Svizzera o in Austria o in Francia. Spesso i ghiacciai che si sciolgono oggigiorno a causa di questo riscaldamento sciagurato rilasciano i resti di antichi insediamenti umani, che vuol dire che c’è stato anche un periodo, assai prima della perfidissima Rivoluzione Industriale, in cui i ghiacciai stessi erano ben più arretrati di quanto non lo siano nell’epoca attuale.

La città di Piuro, un tempo territorio dei Grigioni, oggi italiana. Fu devastata da una frana il 4 settembre del 1618, dopo venti giorni di piogge torrenziali.

Lo spaventarsi per l’odierno arretramento glaciale, profetizzando innalzamenti marini e siccità per le pianure e per i laghi, è indice di quel terrore mediatico di stampo millenaristico che ha caratterizzato gli ultimi cinquant’anni e che non accenna a diminuire. Anzi, si cercano testimonial. Una volta esauriti gli afflati ambientalisti di papi e di presidenti e vicepresidenti americani, esaurito l’effetto delle fantasiose e dettagliate opere di registi e di sceneggiatori hollywoodiani, tutti adulti, si gioca la carta dell’adolescente incontaminata per stimolare un ritorno alla purezza primigenia.

E si pensa che lo scioglimento dei ghiacciai sia una cosa anomala e causata unicamente dall’uomo. Perché lo dice Greta, forse, la nuova evangelista dell’ultima religione alla moda. Novella Messia (o se preferiamo Sheherazade, vista la propensione di entrambi alla narrazione di favole), Greta non viene crocifissa (almeno non ancora e speriamo che materialmente non lo sia, povera figlioluccia), ma invitata nei migliori salotti, quasi quasi, visto che ha un notevole seguito fra i suoi coetanei (prezioso serbatoio di voti futuri) e non solo, questi ultimi (i non solo) per cercare un po’ di riabilitarsi dopo molte figuracce, un po’ per far dimenticare tutta una serie di gaffe e di maldestrezza politiche: “un po’ per celia, un po’ per non morire” direbbe Cio Cio San. Io suggerirei di incominciare a prendere le distanze da Greta e da chi scaltramente la sfrutta facendo leva sull’adolescenza e sulla valenza di futuro che l’adolescenza si porta inevitabilmente dietro, senso di colpa delle generazioni più anziane incluso nel pacchetto.

Tutti, ma proprio tutti i simboli che Greta esibisce, dal famoso treno, che consuma meno di un aereo e quindi è più sostenibile, a mille altre cose che cadono inevitabilmente in contraddizione proprio per il marketing sommario e rapido che ci sta dietro, non reggono a un’analisi attenta. Ma quest’analisi va fatta altrimenti ci si ritrova vittime dei dogmi che, in quanto tali, non si devono e non si possono discutere, pena la scomunica.

Il famoso treno… Ecco un altro punto su cui riflettere. Apparentemente il treno, ma anche il trasporto su rotaia, sia esso anche la tramvia o la metropolitana, sono spacciati come i mezzi pubblici in assoluto meno inquinanti. Lontani i tempi del treno a vapore o, peggio, a carbone, che faceva arrivare i viaggiatori anneriti come se avessero viaggiato dentro il sacco di carbone di Babbo Natale, i treni elettrici, regionali o ultraveloci, sono il mezzo su cui dovrebbe muoversi l’intera umanità, anziché utilizzare gli aerei. Questo suggerisce Greta che, per arrivare a Roma, ha preso il treno e lo ha ostentato o, meglio, lo hanno ostentato coloro che ne curano l’immagine.

Ma andando a indagare un po’ si scopre che la realtà è un’altra. Per stabilire cosa è inquinante di più o di meno bisogna andare a calcolare non solo cosa e quanto consuma ma l’intero ciclo vitale di un mezzo di trasporto, quante persone serve e quante ore di servizio ha quel mezzo. Non solo. I mezzi hanno bisogno di infrastrutture attrezzate che significano carburanti, strade, semafori, rotaie, stazioni, aeroporti, parcheggi, snodi, e tutto ciò che funge da corollario. Per fare funzionare un treno ci vogliono quindi delle stazioni, dei binari, dei vagoni, degli interscambi e, soprattutto, l’elettricità. Vuol dire anche che sono necessari degli stabilimenti per produrre tutti questi oggetti, fondere i metalli (a che temperature e con quali combustibili?), eccetera. Inoltre, nei treni ci sono tanti accessori di materiali plastici che, a loro volta, devono essere prodotti da qualcuno e in qualche parte del mondo, magari anche dove non sono in voga le misure di sicurezza dei lavoratori e di igiene ambientale. I parcheggi sono anche quelli necessari per far arrivare le persone che si spostano da lontano per prendere il treno e sia la costruzione sia la manutenzione sia l’aerazione sia l’alimentazione di un parcheggio, soprattutto quelli a più piani, sotterranei o sopraelevati, hanno i loro costi energetici. L’elettricità viene prodotta in larga parte e inevitabilmente dalla combustione di combustibili fossili, punto e accapo. A volte c’è una produzione elettrica nucleare (non in Italia), che comporta però altri rischi e smaltimenti di materiali radioattivi, più dannosi e pericolosi della famigerata anidride carbonica.

Ma la produzione di polveri sottili che produce un treno (anche un tram o una metro) per l’usura di gomme, ruote e binari, polveri di metalli che poi vengono disperse nell’aria se all’aperto, ma che ristagnano nell’ambiente sotterraneo se in metropolitana e sollevati dalle forti correnti d’aria presenti nei tunnel, non sono proprio il toccasana per l’ambiente né tanto meno per i nostri beati polmoni, illusi di stare respirando aria pulita. Naturalmente non ci si ferma qui. Per mantenere in efficienza una stazione ci vuole una quantità di energia inimmaginabile, e più è grande una stazione più il fenomeno s’ingigantisce. Immaginiamo una grande stazione come Roma Termini o Milano Centrale, come la Gare de Lyon a Parigi o la Stazione di Sanz a Barcellona. Luce, acqua, personale, pulizie, scale mobili, ascensori, manutenzione…

Ma non solo.

Tra i tanti aspetti trascurati nelle “analisi” ce n’è uno su cui nessuno si sofferma ma che di tanto in tanto viene fuori per segnalazioni di utenti che protestano per la precaria igiene. Spesso, infatti, chi mai lo direbbe, le stazioni sono anche fonte d’inquinamento biologico.

Un’incredibile quantità di uccelli (anche di roditori) vi vive dentro, uccelli che si nutrono di rifiuti e che producono escrementi che spesso inzaccherano tetti, muri, cavità, grondaie, scatole elettriche, crepe, non solo della stazione ma anche di edifici vicini, che, seccandosi, si polverizzano e, ahimè, vengono respirati dalle centinaia di migliaia di viaggiatori e di passanti. La salmonella può anche venire da lì, giusto per fare un minimo esempio di disagio. Uccelli i quali, in assenza di predatori, nidificano e si moltiplicano senza antagonisti, trovandovi un ambiente protetto, caldo e propizio, incrementando gradualmente l’inquinamento biologico. Solo in alcune stazioni hanno messo di recente dei dissuasori acustici ma non sempre hanno avuto successo perché certi uccelli hanno attitudini abitudinarie.

Una stazione, alla fine, è una piccola città nella città che, in ogni caso, produce parecchie scorie al giorno, all’ora, al minuto, a livello micro e macroscopico. Qual è il traffico di una grande stazione? Enorme. Qual è la quantità di polveri sottili e respirabili in una stazione? Enorme. Quante sono le stazioni nel mondo? Qual è il ciclo vitale di una stazione di bus o di treni e quello di un aeroporto? Chi vince alla fine? Il treno, che sembrava il più innocuo di tutti, finisce coll’essere il più inquinante. Non lo dico io, che sono solo un disinformato e snob, come di certo molti pensano, e che suppone che la via più ecologica è la portantina con numerosi schiavi portatori e una carovana di cammelli per i bagagli. Lo dice l’Università di Berkeley, i cui due ricercatori Mikhail Chester e Arpad Horvath, undici anni fa, hanno compiuto uno studio specifico leggibile al seguente link: https://escholarship.org/uc/item/5670921q.

Sono tutti dettagli che vengono ignorati o, quando c’è la malafede, sottaciuti. Qualcheduno ricorda per caso un ambientalista che analizzi pubblicamente tutti codesti dettagli? Avete mai sentito parlare Greta, Al Gore, Obama, Di Caprio, il papa, di codeste cose? Naturalmente è assai più comodo parlare genericamente di grandi catastrofi prossime venture, senza conoscere minimamente ciò di cui si parla e, soprattutto, senza sapere realmente alcunché delle mille sfaccettature della realtà e della Natura. E della Storia. È più facile fare la predica, spaventare coll’apocalisse. Soprattutto si permette a Greta Thunberg di sermoneggiare in aule di senati e parlamenti di cose che non conosce minimamente e che con ostinazione, dovuta anche alla sindrome di Asperger, spalma sulle scatole dell’uditorio, che si gonfieranno notevolmente ascoltandola solo per pietà. La bimba ha creato così, non so quanto consapevolmente, la nuova forma letterario-rappresentativa del gretesco, assai affine al grottesco ma portatrice di un valore inquietante, tetramente nordico, molto grimmiano. Chi vuol crederci è padronissimo di farlo, per carità. Io, modestamente, ho forti dubbi sui tempi e sui modi dell’apocalisse prossima ventura.

Il ribollente Lago dei Palici presso Mineo (CT) in un’antica rappresentazione

La cosa più molesta è vedere come certi politici, che si propongono addirittura come i salvatori del pianeta, quasi meglio di Bruce Willis, fanno loro il messaggio gretesco e compilano esilaranti e grotteschi cartelloni con promesse di emissioni zero di composti chimici come due atomi di cobalto (Co2 intendendo CO2, la stessa cosa…). Inoltre, anche qualora si fosse corretto l’errore marchiano, non si potrebbero mai e poi mai azzerare le emissioni di CO2 perché gli organismi viventi e la Natura ne producono comunque attraverso la respirazione, attraverso gli incendi,  le eruzioni vulcaniche, o le mofete, come il Lago Naftia o mofeta dei Palici presso Mineo (CT). Cosa si fa, si mette il tappo alla mofeta? Ma soprattutto coloro non si rendono conto che la CO2 è necessaria per la vita, che le piante si nutrono di CO2. Azzerando le emissioni si farebbero morire le piante… Ma nella loro smania di cavalcare la TiGreta o Gretigre per raggranellare voti, i politici non si rendono conto che invece dovrebbero tornare alla prima elementare, esattamente come Greta e molti suoi sostenitori che si fanno abbindolare dal messaggio magico e romantico dell’adolescenza pura, di tutti quelli che sono fermamente convinti che le ragazzine di quindici anni salveranno il pianeta. Ci libereremo mai di questo postpostpostromanticismo deleterio, di questo infantilismo prolungato a oltranza? Francamente suggerirei a coloro che è l’ora di tornare sulla Terra, appunto, e di studiare.

Per dirla con Wolfgang Behringer, autorevole storico (anche del clima): “Il clima cambia. Il clima è sempre cambiato. Come vi reagiamo è una questione di cultura. In ciò conoscere la storia ci può aiutare. I mutamenti climatici sono stati spesso percepiti come delle minacce. I falsi profeti e gli imprenditori morali hanno tentato sempre di trarne dei vantaggi. Non lasciamo l’interpretazione dei mutamenti climatici nelle mani di chi non sa nulla della storia della civiltà. Gli uomini non sono come gli animali, che devono subire passivamente ogni trasformazione del loro mondo e nella storia recente il mutamento climatico ha avuto anche conseguenze positive. Se quello attuale dovesse rivelarsi di lunga durata – e così sembra al momento – non c’è che una cosa da fare: stare calmi. Il mondo non andrà a fondo. Se farà più caldo, ci prepareremo. Un classico adagio latino dice: Tempora mutantur, et nos mutamur in illis. I tempi cambiano, e noi con loro”.

Amen.

© Massimo Crispi 2019

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