Ambiente

Lasciate che i fiumi siano fiumi, almeno un po’

12 Ottobre 2018

Come ogni autunno, anche quest’anno alle prime piogge abbiamo riscoperto la vulnerabilità del nostro territorio. Le immagini di Catania, di Lamezia Terme e di Capoterra sommerse di acqua ci hanno ricordato, qualora ce ne fosse bisogno, a quali rischi sono sottoposte le nostre città.
Proprio a questo tema era dedicato il terzo incontro promosso da MM ospitato presso la Centrale dell’acqua di Milano.

Renzo Rosso, professore di infrastrutture idrauliche al Politecnico di Milano, ha descritto la storia del nostro paese come storia dei disastri. Dall’alluvione del 1870, la peggiore della storia di Roma che Pio IX imputava alla caduta dello stato pontificio, fino a quelle del Polesine del 1951 e di Firenze del 1966. Le storie, i documenti e gli aneddoti di 150 anni di alluvioni sono peraltro illustrati nel suo volume “Bombe d’acqua” (Marsilio, 2017).
Echeggiando quanto detto qualche settimana prima da Enrico Giovannini (“Se non pensiamo il futuro il futuro ci coglierà impreparati”: quando non si è preparati al futuro “bisogna diventare molto bravi a gestire le emergenze: un primato che tutto il mondo riconosce al nostro paese”) Rosso ha ricordato che la protezione civile italiana è stata presa a modello da diversi paesi europei.

Nonostante quanto si tende generalmente a pensare, le cose sono migliorate nel tempo, anche grazie a interventi di ingegneria idraulica. Ma a volte questi interventi si sono rivelati controproducenti. Andrea Goltara, direttore del CIRF – Centro Italiano per la Riqualificazione Fluviale,  ha infatti ricordato come la tendenza a ingabbiare i corsi d’acqua in percorsi rettilinei circondati da argini in elevazione, se da una parte ha ridotto la frequenza delle alluvioni, dall’altra ha indotto un falso senso di sicurezza. Spesso infatti i terreni di diretta competenza fluviale, quelli che il fiume per secoli ha occupato durante le normali piene, sono stati considerati “in sicurezza” grazie alla presenza degli argini. Si è pertanto negli anni proceduto a costruire abitazioni, industrie e centri commerciali senza tenere conto del fatto che le piene seppure meno frequenti, sono inevitabili. In altri termini, considerando il rischio come il risultato di diversi fattori (la frequenza dell’evento, il danno potenziale e il numero di soggetti esposti al rischio stesso) si è lavorato per ridurre la frequenza ottenendo come effetto indesiderato quello di aumentare l’esposizione e di fatto incrementando i danni causati.
Nuovi approcci si stanno testando in diversi paesi europei, attraverso stombinature, demolizioni di argini rigidi e opere di rinaturalizzazione che restituiscono al fiume aree di sua competenza. Attraverso quindi una intensa opera antropica si tende non tanto a ricostituire un equilibrio naturale idilliaco che non esiste ormai più da secoli, ma piuttosto a lasciare che la dinamica dei corsi d’acqua si possa esprimere con maggiore libertà. Questo consente anche una nuova fruizione delle aree riparie, attraverso spazi verdi e piste ciclabili, eventualmente inondabili senza che ciò comporti danni economici o vittime.

Ma, come ha ricordato Rosso, non esiste una ricetta valida per tutti i casi e le infrastrutture idrauliche come scolmatori, briglie e argini possono giocare un ruolo importante nella protezione idraulica del territorio. Su tutto questo aleggerebbe un fattore di rischio ulteriore: gli effetti dei cambiamenti climatici che tendono ad aumentare la frequenza degli eventi meteo estremi. Ma non sembra essere questo il pericolo principale, quanto piuttosto (come già ricordato) la diffusa mancata consapevolezza sul fatto che i nostri fiumi non sono canali che possono rimanere ingabbiati ma sono dei corsi d’acqua vivi, con una loro dinamica che inevitabilmente cambia al cambiare delle condizioni meteo. Ed è proprio nel recupero di questa attenzione che possono giocare un ruolo importante le comunità locali. Singoli cittadini, associazioni e gruppi possono ad esempio sfruttare lo strumento dei contratti di fiume per spingere le amministrazioni pubbliche a destinare le aree riparie alla fruizione collettiva.

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nell’immagine la ricostruzione del percorso storico del fiume Adige presso Trento.
Fonte http://bit.ly/2NAtHEN

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