Ambiente
In 25 anni migliora l’acqua delle nostre coste ma ancora troppe feci e plastica
Ogni estate il popolo dei vacanzieri italiani si pone domande ben più annose di quelle che attanagliano filosofi e pensatori da millenni: come sono le spiagge del litorale laziale? e quelle della Sicilia? ci sono spiagge libere nella località scelta per le ferie? Ovviamente fra i mille quesiti ci si interroga anche sulla salubrità delle acque dove si farà il bagno.
Non è una domanda da poco. Perché secondo gli esperti sentiti da Gli Stati Generali, troppo spesso il mare del nostro litorale è inquinato. E il modo migliore per non avere brutte sorprese è optare per i lidi e le spiagge attrezzate. Lo spiega bene l’ultimo rapporto di Goletta Verde di Legambiente, dove si legge che il 48% dei punti analizzati è risultato inquinato o fortemente inquinato.
Ma inquinato da cosa, esattamente? «Da batteri di origine fecale, nello specifico escherichia coli ed enterococchi intestinali – spiega a Gli Stati Generali Andrea Minutolo, coordinatore dell’ufficio scientifico di Legambiente –. L’ingerimento o il contatto con acque contaminate da questi batteri può causare febbre alta, vomito, diarrea». Una grande opera pubblica di cui c’è grande bisogno in Italia? Secondo Legambiente è il completamento della rete fognaria e di depurazione delle acque reflue.
I campioni sono stati prelevati soprattutto nei cosiddetti punti critici, continua Minutolo, «ossia nelle zone in cui c’è un apporto di acqua dolce che dall’entroterra arriva al mare, vuoi attraverso una foce o un canale, vuoi per un fiume o un rigagnolo, ma abbiamo anche scoperto che in molti casi, questi apporti d’acqua dolce si immettono in acque definite balneabili». Il 43% dei punti campionati quest’estate da Goletta Verde, infatti, sono proprio spiagge.
Rispetto a venticinque fa l’acqua di mare in cui facciamo il bagno, in Italia, è migliorata. Secondo il rapporto annuale del Ministero della Salute sulle acque di balneazione 2009, ad esempio, la costa dove la balneazione era vietata per inquinamento era pari al 10,9% di quella “adeguatamente controllata” nel 1993. Un valore sceso all’8,4% nel 2009. In quell’anno, dei 5.175 chilometri di costa controllati, rispetto ai 7.375 chilometri di costa italiana, ne erano risultati balneabili 4.969, il 96% del totale.
Guardando ai dati regionali del 2009, il rapporto evidenziava criticità per i dati raccolti in provincia di Roma (dov’era balneabile l’86% della costa controllata), Napoli (80%), Caserta (dov’era balneabile solo il 34% della costa controllata), Cosenza (89%) e Rovigo (75%). Anche questi dati sono migliorati nella stagione 2018. In provincia di Caserta, ad esempio, l’Agenzia regionale per la protezione ambientale (ARPA) della Campania ha classificato non balneabili 4 spiagge su 42 – un netto miglioramento rispetto al 2009 – mentre in provincia di Napoli le spiagge non balneabili erano 12 su 149. Anche in provincia di Rovigo la situazione è nettamente migliorata, con nessun punto ritenuto non idoneo alla balneazione dall’Arpa Veneto per quest’anno. In provincia di Cosenza la percentuale di acque scarse (ossia non balneabili) è scesa all’1,27% quest’anno contro l’1,51% dell’anno scorso.
Di sicuro il modo migliore per essere certi di andare a fare il bagno in acque pulite è optare per le spiagge certificate Bandiera blu dalla FEE (Foundation for Environmental Education). Un riconoscimento per il quale è necessario soddisfare una lunga serie di requisiti. Primo fra tutti un’acqua classificata di qualità eccellente negli ultimi 4 anni. «Quest’anno sono state classificate Bandiera blu 368 spiagge in 175 comuni – spiega Claudio Mazza, presidente di FEE Italia, a Gli Stati Generali –. La tendenza è senz’altro positiva, in aumento. C’è una presa di coscienza sempre maggiore, non solo degli amministratori locali ma anche degli operatori: il turismo richiede sostenibilità».
I requisiti per la certificazione comprendono anche la sicurezza (ad esempio la presenza di personale adibito al salvataggio), la raccolta differenziata, l’accessibilità per persone diversamente abili. «Ma comprendono anche indicatori ambientali – dice Mazza – come la nidificazione del fratino (una specie di uccello che nidifica sulle spiagge) o della Caretta caretta».
Il numero di Bandiere blu sarà pure in costante aumento, ma resta ancora molto (anzi, moltissimo) da fare. Anche contro i rifiuti che si accumulano sulle coste. Sulle 78 spiagge monitorate da Legambiente quest’estate è stata trovata una media di 620 rifiuti ogni 100 metri. Di questi, l’80% era plastica, e uno su tre era un prodotto usa e getta. Numeri gravissimi, specie se si pensa che il Mediterraneo è un mare semi-chiuso e già pesantemente inquinato dalla plastica. Ma, soprattutto, sono gravissimi perché basterebbe davvero poco per ridurli.
«Il wc non è un cassonetto – nota Minutolo –. Gettarci dentro i bastoncini per le orecchie o altri oggetti significa immetterli in condutture non adibite a trattare simili materiali, e farli arrivare sino al mare. Che diventa un ricettacolo di rifiuti… Rifiuti che, specialmente in inverno, con le mareggiate, vengono spiaggiati lungo le coste. E poi c’è l’abbandono della spazzatura sulle spiagge. Ecco, sarebbe il caso di contrastare queste pratiche. È una questione di civiltà».
Ci vuole più consapevolezza, insomma. Paradossalmente, a volte si considera inquinamento ciò che non lo è affatto. Accade con le foglie di posidonia, spiega Filippo D’Ascola, ingegnere dell’Istituto Superiore per la Protezione e la Ricerca Ambientale (ISPRA). «Quando cadono, le foglie di questa pianta, che sott’acqua forma delle autentiche praterie, finiscono sulle spiagge e macerano».
Si tratta delle “alghe” scure che spesso si trovano sulla riva. E che purtroppo, essendo considerate antiestetiche o scambiate per sporcizia, vengono raccolte ed eliminate. Peccato che così si perda un elemento naturale utilissimo per le spiagge. «Mischiandosi alla sabbia, le foglie di posidonia non solo creano un ambiente molto ricco a livello di biodiversità, ma rendono anche la spiaggia più elastica e resistente alle mareggiate, e quindi all’erosione» nota D’Ascola.
È proprio l’erosione un altro grande problema per le spiagge e le coste italiane. «Quando nelle nostre misurazioni valutiamo che la costa si è spostata di oltre 5 metri nell’arco di 6 anni (nel senso di avanzamento o di erosione), allora dichiariamo che c’è stato uno spostamento – spiega D’Ascola –. Ora, la costa naturale italiana, ossia quella dove non ci sono porti, lidi, massicciate o altre strutture, è di circa 7.500 chilometri. Di questi, più o meno 1700 sono costa che si sposta».
Un fenomeno naturale amplificato dagli effetti delle azioni umane. «La costa è un ambiente dinamico, in costante cambiamento – sottolinea D’Ascola –. Solo che alcuni meccanismi che garantivano una certa stabilità sono saltati, e questo è un problema». In primo luogo è venuto meno l’equilibrio tra la sabbia portata al mare dai fiumi e quella che viene spostata o portata via dalle mareggiate. Tanto che, tendenzialmente, l’andamento della costa è di progressiva erosione.
Le spiagge sono formate non solo dalla sabbia, ma anche dalle dune costiere. «Normalmente, con le mareggiate il mare sale fino alla duna e comincia a eroderla. In realtà però, quella sabbia viene spalmata sulla spiaggia, quindi resta lì – continua D’Ascola –. Col tempo la duna erosa viene riformata e il ciclo continua. Il fatto è che per anni, fino alla legge Galli e alle successive, si è costruito anche sulle dune costiere, eliminando la riserva di sabbia che difendeva naturalmente la spiaggia dall’erosione».
Fortunatamente la presa di coscienza su questo problema è sempre maggiore, nota D’Ascola, e negli anni si è compreso che «la visione locale non funziona. E i comuni che hanno le stesse problematiche di erosione delle spiagge cominciano a consorziarsi per affrontare il problema insieme, anziché farsi la guerra della sabbia». In effetti, proprio la settimana scorsa si è tenuto il primo G20 delle spiagge italiane a Bibione, a cui hanno preso parte sindaci, assessori regionali, operatori turistici ed esperti. E uno dei temi principali sul tavolo era proprio l’erosione delle spiagge.
Del resto le conseguenze delle attività umane non si limitano a influire sulla costa o sul mare che bagna le spiagge. Uno studio dell’Istituto di Scienze Marine del CNR pubblicato due anni fa sulla celebre rivista scientifica Nature, ad esempio, definiva il Mediterraneo una “zuppa di plastica”. La concentrazione di micro frammenti di plastica nel Mediterraneo occidentale, secondo questo studio, è fra le più alte del mondo. Ancora, secondo i dati diffusi dallo stesso istituto in aprile, nelle acque marine superficiali italiane si riscontra una presenza di microplastiche comparabile ai livelli presenti nei vortici di plastica del nord Pacifico.
Un inquinamento che negli anni, sommato a quello provocato da altre attività umane (tra cui la ricerca e l’estrazione di idrocarburi, o la circolazione delle navi da crociera) ha inflitto duri colpi alla biodiversità del Mar Mediterraneo. Fortunatamente però, anche in questo senso cominciano a esserci delle buone notizie. E sono sempre più numerose le iniziative di protezione dell’ecosistema, e di sensibilizzazione della cittadinanza e delle pubbliche amministrazioni.
«Gli sforzi congiunti dal punto di vista legislativo e di controllo, insieme all’aumento delle aree marine protette, stanno dando i loro frutti – spiega la biologa Laura Castellano, curatrice del settore Mediterraneo, acque fredde, rettili e anfibi dell’Acquario di Genova –. Pochi giorni fa, ad esempio, c’è stata la schiusa di uova di Caretta caretta in alcuni luoghi della Toscana. Specie a bassa resilienza come il diavolo di mare, la Mobula mobular, sono in leggera ripresa grazie alla messa al bando delle reti pelagiche derivanti e all’istituzione del santuario Pelagos».
Anche la Pinna nobilis (o nacchera di mare) è tornata ben visibile dopo il divieto di pesca. «Certo, molte specie hanno subito un forte stress nell’ultimo secolo – continua Castellano –. Basti pensare alla Patella ferruginea, che in certe zone era del tutto scomparsa a causa della raccolta indiscriminata, ma ora è oggetto di specifici progetti di reintroduzione. O alla foca monaca, che finalmente vede un barlume di ripresa grazie agli sforzi congiunti per la protezione dei suoi habitat, e che è stata avvistata nelle isole Egadi».
Buone notizie, certo. Soprattutto in un mondo sempre più inquinato, dove centinaia di specie animali e vegetali sono a rischio di estinzione, e i cambiamenti climatici hanno effetti devastanti sulla biodiversità. Ma che devono spronarci a fare sempre meglio, a cominciare dal comportamento quotidiano di ognuno di noi. In fondo basterebbe smettere di gettare oggetti nel wc o di abbandonare la spazzatura in spiaggia per ridurre drasticamente la quantità di plastica e altri rifiuti nel mare. E non è certo un grande sforzo da fare. Soprattutto per spiagge così belle come le nostre.
Foto in copertina: Pixabay
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