Ambiente
In Italia ci sono 20 siti che trattano rifiuti radioattivi. Ma fino a quando?
Mentre si attende la scelta del luogo di deposito su scala nazionale, vengono utilizzate ex centrali, università e centri di ricerca o di raccolta per un obiettivo che sembra sempre più confuso da realizzare. Anche se i rifiuti radioattivi pare siano in calo, solo il Lazio, attualmente, ne detiene il 30% del totale. E ad essere maggiormente sotto pressione sarebbero i complessi di medicina nucleare, specialmente quelli ospedalieri
In Italia, le mezze verità continuano a rappresentare sempre un rodato clichè. Se poi si tratta di un argomento fin troppo scottante come quello dei rifiuti radioattivi, superare la confusione e la linea sottile del detto e non detto, risulta una impresa per certi versi logorante. A tal proposito, infatti, si attende che venga indicato il luogo di deposito su scala nazionale dei rifiuti in questione, considerato che attualmente sono 20 i siti dovo si producono o conservano questa tipologia di scorie altamente tossiche.
Un numero importante, se si pensa che queste strutture sono, per la maggior parte, centri di medicina nucleare soprattutto ospedalieri, dove gli stessi rifiuti radioattivi vengono trattati e stoccati e dove vengono trattenuti fino alla loro fase di decadimento per poi essere smaltiti come rifiuti convenzionali. Ciò che ne rimane, successivamente, viene affidato agli operatori di raccolta e gestione dei rifiuti radioattivi del comparto sanitario ed industriale, che li traducono nelle proprie aree di deposito, in attesa che venga conferita loro una dislocazione definitiva.
Dove si trovano i siti di deposito temporaneo dei rifiuti radioattivi in Italia? Solo il Lazio ne detiene il 30% del totale
Il deposito temporaneo di rifiuti radioattivi oggi, in Italia, annovera 20 strutture ospitanti. Tra le più importanti per capienza troviamo: quattro centrali nucleari in esercizio per tutta la decade degli anni ’80, ora in fase di smantellamento, sotto la gestione di Sogin a Trino, in provincia di Vercelli ancora, Caorso (Piacenza), Latina e Garigliano (Caserta), Eurex di Saluggia (Vercelli), Itrec di Rotondella (Matera), Ipu e Opec a Casaccia (Roma) e Fn di Bosco Marengo (Alessandria); il reattore di ricerca a Ispra (Varese); sette centri di ricerca nucleare Enea a Casaccia, Ccr di Ispra, Avogadro a Saluggia, LivaNova a Saluggia, il Centro energia e studi nucleari Enrico Fermi a Milano, l’Università di Pavia e l’Università di Palermo. E, per concludere, i centri del servizio integrato di gestione dei rifiuti ancora in attività: Nucleco a Casaccia, Campoverde a Milano, Protex a Forlì e quello non più attivo di Taranto, il Cemerad.
Nel report dati pubblicato lo scorso dicembre a cura dell‘Ispettorato nazionale per la sicurezza nucleare e la radioprotezione (Isin), si apprende che nel 2022, nel nostro Paese, c’erano 31.159 metri cubi di scorie radioattive. Una diminuzione di 653 metri cubi rispetto al 2021.
“Un calo dovuto non alla minore produzione di rifiuti “civili”– medici e industriali – bensì alle attività di trattamento e condizionamento dei rifiuti radioattivi che hanno comportato una riduzione del volume”, secondo quanto si legge in un comunicato ufficiale diffuso dall’ Isin. Con la Regione Lazio che detiene il 30% del totale, seguita dalla Lombardia, Piemonte, Basilicata, Campania, Emilia Romagna , Toscana e Puglia.
Non c’è molto da dire, se non che la situazione del deposito nazionale di rifiuti radioattivi rimane avvolta da una grande ed impenetrabile confusione che non promette variazioni significative a breve termine, purtroppo.
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