Ambiente

I registi di Marmolada. Madre roccia: “L’alpinismo è un mondo che ci auguriamo”

1 Maggio 2024

Al festival del cinema di montagna di Trento è stato presentato ieri, in anteprima internazionale, il documentario Sky Marmolada. Madre roccia di Matteo Maggi e Cristiana Pecci. Il documentario segue l’impresa dei quattro alpinisti che hanno aperto la parete sud della “Regina delle Dolomiti”. Maurizio Giordani, Matteo della Bordella, Massimo Faletti e Iris Bielli: quattro generazioni hanno lavorato insieme per “liberare” la parete più difficile della Marmolada, 900 metri di scalata. Nessuno l’ha ancora percorsa tutta d’un fiato: manca quella che in gergo si chiama “libera integrale” e questo ne fa una storia con un finale aperto, libero. Marmolada. Madre roccia racconta questa nuova via come un’invenzione che ha bisogno di intuizioni, idee, soluzioni che appaiono come un’ispirazione, successi che arrivano grazie alla dedizione, alla fatica, alla tecnica e alla passione. L’alpinismo assomiglia qui all’arte e all’artigianato di uno scultore, fatto di libertà, tecnica e passione. Ne abbiamo parlato con i registi, ospiti per la prima volta al Trento film Festival e vincitori, proprio ieri, del Premio Città di Imola.

La prima cosa che vi chiedo è se siete anche voi appassionati di alpinismo.
Matteo: No! Non siamo dell’ambiente… Però siamo appassionati di filmmaking di sport estremi, lavoriamo in questo ambiente da quindici anni. Quindi l’alpinismo per noi era un campo nuovo, ma la tipologia e la modalità di lavoro le conosciamo bene.

E come avete iniziato?
M.: Noi siamo compagni di superiori, poi abbiamo seguito due strade diverse. Io mi sono trasferito in Finlandia a fare snowboard e poi a filmare gli snowboarder. E lei intanto studiava documentario in Spagna. Poi ci siamo riuniti per un lavoro e di lì ci siamo specializzati, diciamo, in documentari di sport estremi. L’ultimo film che abbiamo girato, The fifth sun, in realtà racconta un viaggio. Ma lo cataloghiamo comunque come sport estremo: abbiamo attraversato l’Asia in furgone!

E Marmolada. Madre roccia com’è nato?
M.: Stavamo cercando delle storie per conto di Sky e poco prima del crollo del luglio 2022 eravamo al rifugio a fare un sopralluogo. Avevamo conosciuto Matteo della Bordella che è un personaggio molto carismatico, con storie molto particolari, ha visto la tragedia in prima persona. Abbiamo deciso di farlo, Sky l’ha approvato e abbiamo iniziato a girare due mesi dopo il crollo, a settembre 2022.

Oggi se si pensa alla Marmolada viene subito in mente la tragedia. In questo documentario sembra ci sia il desiderio di raccontare che c’è il crollo del ghiacciaio ma c’è anche altro. La tragedia, il ghiacciaio che si ritira, la bellezza della valle, l’avventura di aprire una nuova via : sta tutto insieme.
Cristina: Sì: la sensazione che abbiamo avuto è che il mondo dell’alpinismo volesse andare avanti, mantenendo il rispetto per la tragedia, ma che non volesse fermarsi. Raccontare una storia in Marmolada era un’occasione per dare un po’ di respiro, aprendo comunque una piccola finestra sulla tragedia. All’inizio ci siamo chiesti se fosse il caso di raccontare una storia che andasse da tutt’altra parte. Temevamo che fosse irrispettoso. Ma poi parlando con Matteo e Massimo abbiamo capito che quella è comunque la loro vita. Vivono tantissime tragedie e nel rispetto della tragedia continuano a essere legati alla montagna e a viverla.

Perché l’avete chiamata Madre Roccia?
C.: È il nome che ha proposto Iris per la via e l’abbiamo voluto anche per il film. Tutti quanti condividono questa sensazione di essere abbracciati da questa parete sud, come fosse una grande madre. È considerata la regina delle Dolomiti, ha un fascino particolare sia per gli alpinisti che per gli scalatori. Sia per queste vie molto difficili, sia per questa valle che ti abbraccia da tutti i lati.

 

Com’è stato lavorare con loro? Li avete seguiti in tutti i sette giorni che ci sono voluti per aprire la via?
C.: Sì, sul posto siamo sempre stati con loro mentre aprivano la via. Che poi sono stati sette giorni sparsi fra il settembre 2022 e il settembre 2023. Ma ci siamo anche presi del tempo con ognuno di loro per vederli e raccontarli un pochino anche nella loro vita: siamo andati a casa loro, abbiamo conosciuto le mogli, le famiglie, le loro attività.

M: Con The fifth sun ci siamo resi conto che il nostro modo di fare documentari sta proprio nel filmare tutto. Basta spegnere la telecamera un secondo e potresti esserti perso qualcosa di fondamentale, una scena che ti porta alla prossima scena. Più andavamo avanti più, invece di essere stanchi, ci veniva voglia di filmare di più, di filmare tutto. Quando ci siamo messi a lavorare su Marmolada ci siamo resi conto che con l’audio potevamo fare la stessa cosa. Quindi li abbiamo microfonati tutto il tempo in parete. È stato il modo, in questo caso, di non spegnere mai la telecamera.

Erano aperti all’idea di raccontarsi?
C&M: Sì, sono stati bravissimi, è stato bello lavorare con loro. L’alpinismo è sempre stato molto disposto a raccontarsi e molto bravo a farlo. La tecnologia, in particolare droni, telefoni o go pro, esistono solo da 15 anni, prima si sono sempre dovuti raccontare soprattutto con la parola e lo sanno fare molto bene.

E cosa avete trovato in questo mondo? Cosa vi è rimasto?
C&M: La cosa bella che abbiamo notato è che non ci sono generazioni come non ci sono differenze di genere. È un mondo che ci auguriamo. Non esiste nessun preconcetto. Forse perché è un’attività che richiede tecnica, abilità ed esperienza, non i muscoli. E quindi non conta più troppo nemmeno l’età. È una cosa molto mentale. Richiede di saper stare in un posto concentrati. Iris riesce incredibilmente a entrare in una bolla di concentrazione, come la chiama lei, e infatti non viene trattata diversamente da Maurizio che è di varie generazioni più grande di lei.
L’alpinismo ha tantissime caratteristiche e ognuno trova il suo posto. Iris è un gatto, riesce ad arrampicarsi facendo delle cose incredibili. Maurizio ha un’esperienza senza cui, in una parete così difficile, non si va avanti. La conosce perfettamente, ne distingue i colori, sa dove la roccia si potrebbe staccare, dove è più scoscesa.
Il metro di giudizio è esperienza e professionalità. E tecnica. Non entrano in gioco altri metri di giudizio. Forse anche perché rischi davvero la vita e quindi lo spazio per i preconcetti non esiste.

Quali sono per voi le storie che siete riusciti a raccontare con questo documentario?

C&M: C’è l’apertura della via ma anche questo sovrapporsi di generazioni, questo passaggio di testimone fra Maurizio e Iris. Speriamo che passi questo messaggio di uguaglianza, generazionale e di genere, di cui parlavamo prima. E poi c’è, tanto, il rapporto con la natura che è molto particolare, l’alpinismo ha rapporto con l’ambiente molto speciale, con un’etica profonda. Aprire una via è l’ultimo modo per vivere un’avventura. È passare dove nessuno è mai passato. È bello vedere che ancora oggi ci sono persone, anche fra le nuove generazioni, che hanno voglia di avventura in un senso così profondo. Mentre ripetere una via è fare del turismo: pericoloso, ma sempre turismo.

Parlavate prima dell’attenzione all’ambiente. Immagino che nell’alpinismo ci sia sempre stato, che non sia una novità.
C&M: In realtà c’è stata una finestra storica in cui contava solo arrivare in vetta, con qualsiasi mezzo. Questo significava usare più materiale possibile pur di arrivare, spirito che non è per niente in linea con l’etica di oggi. Oggi si cerca di usare meno materiale possibile in modo da lasciare meno tracce possibili del proprio passaggio. Anche nell’ambito dell’alpinismo quindi c’è stato un cambiamento. La sensibilità di non piantare infiniti chiodi e di non dover arrivare per forza in cima non c’è sempre stata. Nel documentario si vede che quella con l’etica più ferrea è Iris, mentre per Maurizio alcune cose, alcuni principi sono nuovi. Però arrivano, certo. E molto potentemente.
Sono i primi a toccare con mano il problema. Matteo dice che non farà mai gli 8000 proprio perché l’Everest ormai è una discarica, piena di turisti, rifiuti organici che non hanno nemmeno il tempo di scomparire. Molti di loro, Matteo soprattutto, diventano sempre più voci del cambiamento climatico. Anche perché, mentre per esempio gli sciatori sono più legati alla struttura, il legame degli alpinisti è solo con la montagna.
Uno sciatore rischia di sacrificare la propria carriera per il clima, loro per il clima hanno perso degli amici.

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