Ambiente
I boschi, ecosistemi meravigliosi. Parla Giorgio Vacchiano
Nelle settimane di lockdown prima, in quelle di distanziamento sociale poi, in molti hanno sognato di abbandonare le città assediate dal Covid-19, e trovare rifugio in remoti borghi alpestri, nei paesini costieri, in boschi e foreste. E in effetti poche cose nella vita sono più rigeneranti di una passeggiata tra i carpini e i castagni, riempiendosi i polmoni dell’aria corroborante del bosco che respira e cresce: i giapponesi hanno persino coniato un termine, shinrin-yoku.
Ma se le fantasticherie da Thoreau post-moderni sono alla portata di pochissimi, perché a oggi è nelle grandi e piccole città che il paese produce merci e servizi, il tema della difesa e valorizzazione dei boschi italiani resta attualissimo, anche in un momento drammatico come questo, in cui l’attenzione di tutti è (comprensibilmente) concentrata sulla lotta alla pandemia.
Giorgio Vacchiano di sistemi forestali se ne intende. Torinese, 40 anni, ricercatore alla Statale di Milano, è considerato uno dei massimi esperti al mondo nella gestione di foreste: nel 2018 è stato persino indicato dalla prestigiosa rivista americana Nature come uno degli undici scienziati che “con i loro studi stanno lasciando il segno” a livello globale. È anche autore di un recente saggio, “La resilienza del bosco” (Mondadori), dove racconta i boschi e foreste, e le sue esplorazioni in questi polmoni verdi in giro per il mondo: dalla Val Sessera nel natio Piemonte alla maestosità del parco di Yellowstone. Ecco alcuni stralci della lunga intervista.
Partiamo da una domanda banale, Giorgio. A che servono i boschi? Quali sono le loro funzioni?
Noi scienziati parliamo di servizi ecosistemici, proprio per ricordare che svolgono delle funzioni che sono utili agli esseri umani. I più noti sono i servizi cosiddetti di produzione: i boschi producono cioè legno, ma anche sughero, cibo (ad esempio bacche e piccoli frutti). Producono anche acqua. Come è noto oltre un miliardo e mezzo di persone nel mondo dipendono dalle foreste per bere acqua potabile, perché la foresta intercetta la pioggia, pulisce chimicamente l’acqua facendola scorrere nel suolo in mezzo all’humus e la restituisce piano piano ai fiumi, assicurando una fornitura idrica importante. Lì dove non c’è la foresta, le comunità sono molto più esposte a siccità e inondazioni.
Certamente. Del resto il 40% delle precipitazioni ha origine dalla traspirazione delle piante… Ma non è tutto, immagino.
No. Dobbiamo poi considerare i servizi detti di regolazione. Non è ciò che la foresta produce, come il legno o le bacche, ma ciò che fa: ad esempio evita che i pendii franino quando c’è troppa pioggia perché le radici trattengono il suolo e lo stabilizzano. In alta montagna le foreste d’alta quota, i lariceti, evitano che si stacchino valanghe. E nelle città, com’è noto, regolano la temperatura, rinfrescano noi cittadini con l’ombra ma anche con la traspirazione.
Questa classificazione dei servizi ecosistemici è stata fatta nel 2005 dall’ONU, è corretto?
Sì. Però la cosa non si conclude qui.
Le foreste, i boschi fanno anche altro?
Esatto. Non dimentichiamo i cosiddetti servizi culturali, ad esempio nell’ambito del turismo. Ci sono milioni di persone che amano passeggiare tra gli alberi, fare birdwatching, campeggio… E poi in molte parti del mondo le foreste hanno un ruolo spirituale; persino in Europa iniziano ad apparire aziende che consentono di disperdere le ceneri di un defunto in foreste adibite specificatamente a tale uso.
La fine della vita, ma anche l’inizio: in Scandinavia, per esempio, i bambini vengono regolarmente condotti dalle maestre nei boschi, e ci dormono pure.
Per fortuna gli asili nel bosco iniziano a diffondersi anche qui in Italia. Detto questo, nei paesi del Nord Europa il rapporto con le foreste è molto più quotidiano, e in realtà non si è mai interrotto. Del resto i boschi sono incredibili riserve di biodiversità utili per gli esseri umani: pensiamo solo alle piante medicinali, che non vengono utilizzate unicamente dalle popolazioni che praticano la medicina tradizionale, ma anche da noi occidentali. I principi attivi di importanti farmaci sono ricavati da estratti vegetali.
Nei boschi, anche in quelli urbani e periurbani, trovano rifugio molte specie animali. Ma pure gli animali sono utili ai boschi. Ultimamente si è detto, per esempio, che gli elefanti aiutano le foreste a prosperare, perché eliminano arbusti che potrebbero entrare in competizione con gli alberi nella corsa alle risorse. E in Nord Europa il rewilding è considerato uno strumento di grande interesse per consolidare la salute dei boschi.
Ti faccio un esempio nostrano, Gabriele: il ritorno del lupo. Che fa molto bene alle foreste italiane, perché da quando questi predatori sono scomparsi, gli ungulati selvatici come cervi, caprioli e cinghiali si sono davvero moltiplicati a dismisura. Gli ungulati mangiano, e non solo erba, specie in inverno quando l’erba non c’è o è nascosta dalla neve, e allora l’unica cosa che possono mangiare sono i germogli delle conifere, o persino la corteccia delle giovani piante, che contiene un po’ di sostanze nutritive. Insomma, c’è stato un incredibile aumento dei danni da brucamento provocati da questi animali.
Non si tratta di una cosa da poco, sai? In alcuni parchi sono state recitate addirittura delle aree per impedire l’accesso a questi erbivori, e la differenza tra aree è notevole. Dove gli ungulati possono arrivare ci sono piantine un po’ smangiate, rade, che impiegano mezzo secolo per crescere di un metro d’altezza perché vengono costantemente danneggiate a livello di gemma apicale; al contrario le aree che non sono accessibili sono un trionfo di latifoglie (specie molto apprezzate da cervi e caprioli) e in generale le piante sono tutte molto più alte perché le gemme apicali non vengono mai danneggiate.
Insomma, i lupi fanno bene alla foresta.
Non abbiamo ancora dati sull’Italia, ma nel parco di Yellowstone, negli Stati Uniti, ci sono evidenze a supporto. In generale si ritiene che una maggiore pressione predatoria su questi ungulati li possa riportare a un rapporto di maggior equilibrio con la foresta. Non è solo la predazione in sé, cioè la diminuzione di unità di cervi, caprioli e così via, ma la presenza stessa dei predatori a incidere sul comportamento degli erbivori, con un effetto deterrente.
È davvero indispensabile, poi, il contributo dei boschi, delle foreste, al clima.
Certo. Per esempio, ultimamente si sono fatte numerose ricerche sul ruolo dei grandi bacini boscati, come il Congo o l’Amazzonia, nel regolare il clima globale, non solo in modo indiretto attraverso l’assorbimento del carbonio, ma perché producendo molta umidità grazie alla già citata traspirazione delle foglie, si formano dei fiumi di vapore acqueo che partono da questi grandi bacini boscati e, per esempio, dall’Amazzonia vanno a generare piogge nei campi di mais del Midwest americano. Quindi c’è questa connessione che ultimamente si è riusciti a evidenziare tra l’Amazzonia e la fertilità dei campi nordamericani.
Pazzesco. Una foglia traspira in Amazzonia, e piove in Ohio, concedimi la battuta! Però potresti spiegare, per chi non lo sapesse, come fanno gli alberi ad assorbire carbonio?
È la fotosintesi clorofilliana. I vegetali sono infatti in grado di ricavare il proprio nutrimento da qualcosa di inorganico, l’aria. Le piante trasformano, letteralmente, l’aria in qualcosa di vivo, quasi un’alchimia. Gli alchimisti cercarono per secoli il modo di trasformare il piombo in oro… le piante non trasformano un elemento in un altro, però trasformano un composto in un altro, quindi l’anidride carbonica diventa glucosio. Cioè zucchero, la benzina universale di tutti gli esseri viventi: tutte le cellule del mondo, da 4 miliardi di anni a questa parte, da che esiste la vita unicellulare, vivono grazie al glucosio, e grazie ad esso riescono a svolgere tutte le loro attività.
La grande sfida, per tutte le cellule, è dove fare rifornimento di questa benzina, cioè dove prendere il glucosio. Ebbene, le cellule vegetali lo prendono dal carbonio dell’aria. Noi esseri umani non siamo capaci di fare questo, quindi dobbiamo prendere il glucosio da qualcuno che l’ha già fatto per noi. Quindi gli erbivori mangiano il glucosio che le piante hanno gentilmente creato a partire dall’anidride carbonica, e i carnivori mangiano gli erbivori, quindi questo glucosio continua a passare. I primi e gli unici che lo creano non proprio dal nulla, ma dall’aria, sono le piante.
Un motivo in più per tutelare e gestire al meglio i nostri boschi. A proposito, qual è lo stato di salute dei boschi italiani? Sono ben gestiti, ben valorizzati, o patiscono?
Capiamoci bene. I boschi italiani hanno molte potenzialità, ma è fondamentale comprendere quali benefici ci possono regalare. E questo è davvero il punto di partenza per una gestione sostenibile di tutte le risorse naturali. Per esempio, se l’obiettivo è che i boschi sequestrino carbonio, direi che i boschi del nostro paese sono perfetti, perché sono boschi molto giovani: la loro età media si aggira intorno ai settanta, ottant’anni secondo l’ultimo inventario forestale nazionale; questa è un’età in cui le piante hanno ancora un ritmo di crescita alquanto sostenuto, e riescono quindi a trasformare molto carbonio atmosferico in tessuto legnoso.
Bene. E sequestro di carbonio a parte?
Ecco, tutt’altra cosa è se si vuole gestire i boschi in modo da ricavare legno (naturalmente sempre in un’ottica di sostenibilità e contrasto al cambiamento climatico), magari per andare a sostituire prodotti molto più inquinanti come la plastica, il cemento, il petrolio… Da questo punto di vista non tutti i boschi italiani sono adatti, perché molti di essi crescono in zone relativamente poco fertili, magari un po’ rocciose, e difettano spesso di quelle caratteristiche necessarie se si vuole produrre, ad esempio, un mobile di pregio. E questa è solo una delle ragioni per cui l’eccellente industria italiana del mobile non si rifornisce di legno italiano… l’altra è che negli ultimi trent’anni si sono fatti pochi investimenti nel settore.
Esistono boschi che potrebbero esprimere un legno di qualità sufficientemente alta, ma che spesso non sono raggiungibili. E poi il settore della prima lavorazione, le segherie per intendersi, è ancora carente, se si escludono le regioni a statuto speciale. Pertanto non è solo difficile approvvigionarsi di legno, mancano anche un sistema di formazione e un apparato tecno-industriale adeguato. Bisogna sfatare un mito: i boscaioli oggi non sono quelli dei tempi andati, con la camicia di flanella a quadri e l’accetta, ma professionisti che necessitano di mezzi tecnologici adeguati. Così come esiste, infatti, l’agricoltura di precisione, esiste anche la silvicoltura di precisione, ma gran parte delle aziende del nostro paese sono rimaste tecnologicamente indietro rispetto a quelle di altri paesi europei. Purtroppo si continua spesso a impiegare manodopera a basso costo, poco formata; mancano anche le segherie, e infatti chi deve comprare segati si rivolge all’estero.
E il legislatore non fa niente?
La nuova legge forestale del 2018 ha tentato di affrontare le varie problematiche in due modi diversi. In primo luogo, dando nuovo impulso alla pianificazione forestale, perché una pianificazione valida consente di avere un flusso di materia prima più costante e regolato, e di conciliare la produzione con la regolazione del clima, la protezione dal dissesto e la conservazione della biodiversità; in secondo luogo, puntando sulla formazione dei lavoratori forestali attraverso un sistema che sia valido in tutta Italia. Perché è bene ricorda che la nostra Costituzione affida la materia forestale alla competenza esclusiva delle regioni, e quindi abbiamo grandi differenze tra regione e regione.
Qual è una regione italiana relativamente virtuosa, che funziona?
Il Piemonte. L’anno scorso per esempio con il piano di sviluppo rurale il Piemonte ha finanziato la formazione completamente gratuita di 1.300 nuove figure professionali nel settore forestale, erogando corsi di vari tipi sia per occupati che per disoccupati: dall’operaio semplice all’addetto alla teleferica, sino al direttore di cantiere. Un altro esempio riguarda il rilancio della filiera sostenibile del legno di castagno, un altro ancora verte sulla formazione per il corretto uso del legno finalizzato a produrre energia senza peggiorare la qualità dell’aria.
Quindi bisogna dedicare più attenzione alla pianificazione e alla formazione.
Esatto. C’è poi un terzo pilastro, che è la certificazione. Pensiamo solo ai due schemi di certificazione principali, il PEFC e il FSC, che mettono il bollino sul legno che poi il consumatore acquista come legno certificato. Poiché c’è una crescente inclinazione a comprare legno certificato, la certificazione assicura non solo che il legno sia estratto in modo, diciamo, compatibile con l’ambiente e con il clima, ma anche il rispetto dei diritti dei lavoratori e la legalità dell’estrazione. I boschi certificati in Italia stanno aumentando, ma purtroppo sono ancora appena il 9%.
C’è dunque un buon margine per razionalizzare il tutto, e accrescere i prelievi, ovviamente sempre in un quadro di assoluta sostenibilità. In Italia preleviamo – è una stima, perché abbiamo un grave problema di raccolta e standardizzazione dei dati su scala nazionale – circa il 30%-40% del nuovo legno che cresce ogni anno nei nostri boschi, in Europa la media è intorno al 60%. E ovviamente arrivare anche noi a quella quota non pregiudica la sostenibilità dei boschi, perché sotto al 100% gli ecosistemi continuano ad accumulare biomassa.
Il legno apparentemente è un materiale del passato, utilizzato dagli esseri umani sin dalla notte dei tempi. In realtà è anche un materiale del futuro…
Sì, esatto. Oggi esistono nuove tecnologie di lavorazione che consentono di fare con il legno cose che prima si ritenevano impensabili. Il legno è sempre più utilizzato dal settore edile, per esempio, e non solo in Nord America, ma anche in Europa. Penso soprattutto all’edilizia pubblica. Grazie al cross-laminated timber (CLT) è possibile utilizzare anche il legno di tronchi di qualità non eccezionali, cioè non di alberi altissimi e drittissimi, che peraltro qui in Italia scarseggiano. Il CLT ti permette infatti di incollare tra loro anche pezzi relativamente piccoli, magari di cinque o persino quattro centimetri, sovrapponendoli in molti strati. E grazie a questa tecnologia è possibile fare elementi strutturali anche molto lunghi, cioè anche più lunghi di quanto potrebbe essere un tronco d’albero.
Con macchine ad hoc è possibile mettere sotto tensione questi elementi multistrato di legno incollato, è corretto?
Sì. Ogni strato ha un orientamento diverso dal precedente e questo aumenta la resistenza meccanica dell’elemento nel suo complesso. Sono anche venti o trenta lamelle che vengono sovrapposte l’una all’altra. Il risultato è molto buono anche dal punto di vista estetico, si possono produrre travi davvero lunghe, molto belle perché sembrano fatte di legno massiccio anche se non è così. Edilizia a parte, il legno ha mille altri possibili impieghi. Ad esempio l’uso della cellulosa per le fibre tessili: ci sono già camicie e scarpe fatte di cellulosa, con grandi risparmi di acqua (il cotone è la coltura più idrovora del pianeta) e un’occupazione di miglior qualità, con più diritti. Ma il legno ha un grande futuro anche in ambito chimico: per esempio hanno trovato il modo di realizzare dei pannelli di legno monostrato trasparenti con un processo chimico neanche troppo complicato che praticamente rende trasparenti i canali di cui è fatto il legno.
I boschi sono sia ecosistemi cruciali, sia fonti di occupazione e business verdi. All’estero lo sanno bene. In Portogallo, ad esempio, le magnifiche sugherete forniscono un materiale assai duttile, poliedrico, come il sughero, e sono al contempo una barriera ecologica formidabile contro la desertificazione. In Italia si è compreso che i boschi sono essere attori ecologici di primissimo piano e hanno anche funzioni economiche importanti?
No, non l’abbiamo ancora capito. Siamo troppo invischiati in un dibattito tra conservazionisti da un lato, e propugnatori di uno sfruttamento solo economico dall’altro. E così non si va da nessuna parte. I boschi, le foreste sono tante cose: sono la dimora di piante e animali, svolgono un ruolo cruciale a livello climatico, ma offrono anche tante opportunità di lavoro e crescita economica sostenibile. Tutti questi aspetti non sempre sono in netto conflitto tra loro.
Conta la pianificazione.
Certo. È uno strumento per cogliere le opportunità, in modo intelligente. Perché la foresta non è un campo di mais, non è che uno possa decidere di anno in anno cosa farci. La foresta ha tempi lunghi, un albero a ottant’anni è ancora giovane, e una tua scelta oggi avrà effetti per venti, cinquanta o anche cento anni. Questo rende imperativa una pianificazione seria e curata. E in Italia le foreste oggetto di qualche tipo di pianificazione sono ancora poche. Laddove non si pianifica si verificano interventi forestali scriteriati, che fanno gridare – giustamente – allo scempio ambientale. Bisogna pianificare e ragionare insieme, mettendo intorno a un tavolo biologi, naturalisti, economisti, attori del territorio, imprese, ambientalisti, in modo da capire cos’è meglio per tutti.
Un esempio concreto?
Ciò che è successo dopo i grandi incendi che hanno colpito il Piemonte nell’ottobre 2017. Per decidere cosa bisognava fare nelle aree colpite la regione, sotto la spinta dell’università di Torino, ha convocato un tavolo straordinario alla quale si sono seduti tutti gli stake-holders: i ricercatori forestali, i gestori delle aree protette, gli attivisti per la biodiversità, i rappresentanti dei cittadini (che magari erano solo interessati alla bellezza dei boschi, o a tutelare il territorio dal dissesto idrogeologico), i portatori di interessi turistici ed economici e così via. Un tavolo davvero importante, dove impostare la foresta per i prossimi cento anni: perché seminando una specie piuttosto che un’altra, è possibile incidere sull’ecosistema nel lungo, lunghissimo periodo.
E l’esito di tutto questo?
L’esito è stato un piano straordinario per il ripristino, finanziato in modo importante dalla regione. Un piano che ha consentito il dialogo tra i vari attori, e portato avanti in trasparenza… Dei colleghi ricercatori dell’Università di Torino, per esempio, hanno organizzato almeno una dozzina di incontri nei comuni colpiti dagli incendi, ascoltando le domande e le preoccupazioni dei cittadini, e tutto è stato reso pubblico sul web. Secondo me si è trattato di un grande successo.
È fondamentale, in sintesi, riconoscere il potenziale anche economico e produttivo dei boschi. Che al contempo sono fondamentali a livello climatico e ambientale. Ma al di là del sequestro dell’anidride carbonica dall’atmosfera, Giorgio, quali altre funzioni possono avere i boschi per proteggere territori e comunità che dovranno far fronte al cambiamento climatico?
Se pensi che in Italia uno dei problemi ricorrenti più gravi è l’aumento degli eventi metereologici estremi… Almeno nei confronti delle precipitazioni intense che possono causare alluvioni a valle, gli alberi possono fare moltissimo. Se confronti una zona con molti alberi a una con pochi, pochissimi alberi, nella seconda quando il suolo tende a essere trascinato giù a valle, l’acqua scende tutta in una volta, e quindi se piove in modo molto intenso non fa in tempo a penetrare nel terreno ma si comporta come ho detto poco fa. Magari causa un picco di piena che finisce nel fiume, e questo provoca gravi disastri più a valle. Invece gli alberi hanno la capacità di diluire nel tempo l’evento pioggia, dato che ne assorbono un po’ nelle foglie, poi nel terreno… Le potrei paragonare, per così dire, a delle spugne. Ovviamente l’acqua finisce comunque a valle, ma lo fa più gradualmente e più tardi, dando anche il tempo di prendere provvedimenti.
I boschi come possibile protezione dal dissesto idrogeologo, dunque. Mentre in città ci aiutano a combattere meglio l’afa estiva…
Torniamo al discorso della traspirazione. Quando sono colpite dai raggi del sole le foglie usano questa energia per far evaporare una parte dell’acqua che contengono. Ciò significa, quindi, che una parte dell’energia contenuta nei raggi solari viene consumata in quest’operazione e non può più raggiungere il suolo, una casa o il tetto dell’auto che si “cuoce” nel parcheggio. Questo è il meccanismo grazie al quale gli alberi possono abbassare la temperatura delle città; non solo dove sono piantanti, ma con un raggio più ampio. Ecco perché conservare i boschi cittadini, creare foreste o grandi parchi intorno alle città generano delle isole di fresco preziose, specie in estate.
Un’ultima domanda: tu hai pubblicato di recente un saggio molto bello e molto personale, “La resilienza del bosco”. Perché scriverlo?
Perché la foresta ha moltissime storie da raccontare. Storie che mi hanno affascinato fin da bambino quando ci camminavo dentro, e hanno continuato a farlo da grande, studiando il funzionamento degli ecosistemi all’università. Il bosco non è solo lo “sfondo” delle favole, è un mondo dove succedono cose incredibili… morti e rinascite, un diverso senso del tempo e dello spazio, alleanze con uccelli e funghi, foreste che migrano, alberi che si ricordano di eventi passati… e quando c’è una bella storia, a me piace raccontarla, perché anche altri come me possano meravigliarsi.
La cover (di Jeff Klugiewicz), la foto dell’ungulato e quella delle conifere nella nebbia sono tratte da Pixabay.
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