Ambiente

Geografie delle città italiane, tra abbandono e austerità

18 Marzo 2019

È almeno dall’agosto 2018, dal crollo del Ponte Morandi, che in Italia si è riaperto il dibattito sul rapporto tra pubblico e privato nella gestione e regolazione dei servizi e delle infrastrutture. Con le secche – se non brutali – affermazioni del ministro Toninelli e del suo partito contro Autostrade per l’Italia e a favore della nazionalizzazione della gestione delle autostrade, lo “stato regolatore” è stato messo radicalmente in discussione. Era dal 2011, dal referendum sull’acqua e sui servizi pubblici locali, che non si parlava così apertamente del volto politico delle concessioni e degli appalti, delle conseguenze del decentramento istituzionale, del progressivo ritiro della politica e – con essa – delle politiche dall’ambizione di disegnare il futuro.

E da qualche settimana questo dibattito si può ancorare a saldi riscontri empirici e a ricche riflessioni scientifiche, grazie all’uscita nelle librerie di due importanti volumi: il “Quarto rapporto sulle città. Il governo debole delle economie urbane”, curato da Ernesto d’Albergo, Daniela De Leo, Gianfranco Viesti e dall’associazione Urban@it; e “Local Public Services in Times of Austerity across Mediterranean Europe”, curato da Andrea Lippi e Theodore Tsekos e pubblicato da Palgrave.

Gli autori del “Quarto rapporto sulle città” usano un’espressione che colpisce per la sua semplicità e per le domande che pone: definiscono come oggetto della loro ricerca la ricostruzione delle “geografie del laissez faire”. Quale Italia ha disegnato la mano invisibile, mentre il discorso e l’azione politica, in nome di una presunta capacità di mercati e terzo settore di comprendere ed esprimere i bisogni e le inclinazioni dei territori, promuovevano la sussidiarietà e il ritiro dello stato a mere funzioni di regolazione?

Trent’anni fa un folto gruppo di politologi si era posto domande simili in due volumi collettanei, di cui basta ricordare i titoli per intenderne il senso: “Amministrazioni e gruppi di interesse nella trasformazione urbana” (di Massimo Morisi e Stefano Passigli) e “Metropoli per progetti” (di Dente, Bobbio, Fareri e Morisi). Ci si chiedeva allora quale potesse essere la portata dell’indebolimento delle politiche urbane tradizionali, della rinuncia alla preminenza – almeno presunta – di una volontà pubblica in certo modo razionale.

Il volume di Urban@it dà oggi una risposta a quella domanda, e non è confortante se non per il fatto stesso di riaprire un dibattito necessario e urgente. Si parte dai dati: sono online ad accesso libero i background papers da cui prende le mosse l’analisi, e contengono ricostruzioni precise e aggiornate sul tessuto sociale delle città, sulla mobilità, sul rapporto tra rendita immobiliare e sviluppo industriale, sui luoghi di elaborazione delle strategie urbane, sugli spazi per la libera emancipazione di individui e collettività autoctone e migranti. E nei quattordici brevi capitoli del volume impietoso è il giudizio su un sistema istituzionale debole, che vacilla tra decentramento delle responsabilità e accentramento delle strategie contabili e finanziarie, che si affida a iniziative dal basso ma non offre loro occasioni di fare rete, che impone ai comuni la rincorsa alla crescita senza dare loro strumenti per regolarla e indirizzarla.

Se quindi di uno stato regolatore volevamo dotarci, siamo stati incapaci di sviluppare gli strumenti della regolazione. E siamo stati incapaci di formare, di connettere, di elaborare: di “governare la frammentazione”, sempre per restare al pensiero politologico dei lucidi pionieri degli studi sulla governance urbana. Illuminante a questo proposito la discussione, trasversale ai primi capitoli del volume, sull’importanza delle reti di trasporto nel connettere le città: discussione che fa concludere brutalmente che, come luogo economico e sociale unitario, il Sud, semplicemente, non esiste.

Si dirà: tutto già noto. No, e per due motivi. Intanto perché ciò che pur è noto cambia natura quando è dimostrato coi dati e messo nero su bianco. E poi perché gli autori e le autrici non sfuggono alla sfida di proporre soluzioni. Lo fanno in maniera peraltro assai analitica, nella forma di un vademecum talmente semplice da inchiodare i policy maker alla responsabilità di prenderne atto e farne tesoro. Riformare il sistema degli oneri di urbanizzazione, rafforzare le università e le reti di trasporto con maggiore omogeneità territoriale, rendere agli enti locali una capacità di spesa per investimenti congrua alle sfide; e poi, a livello locale, adottare strumenti (già esistenti e sperimentati!) di regolazione e sostegno ai sistemi del commercio, del cibo, dell’insediamento culturale e produttivo, sviluppando sinergie e raccordi strategici. Infine, un programma di “manutenzione” delle istituzioni e delle reti inter-istituzionali – di nuovo un esempio: che vogliamo fare delle città metropolitane, lasciate in mezzo a un guado per inseguire il regionalismo differenziato? O delle partecipate, che dovevano polverizzarsi con un colpo di bacchetta magica, ma ancora tengono in piedi i servizi di tante città?

Ecco: un programma di agenda istituzionale e un frame cognitivo che descriva l’esistente e disegni opzioni di futuro.

Il volume di Lippi e Tsekos analizza l’impatto delle politiche di austerity sui servizi pubblici locali nei paesi dell’Europa mediterranea: racconta le politiche di austerity, come si sono formate e come si sono imposte in Italia, Spagna, Portogallo, Grecia, Croazia, Cipro, Albania; e offre spunti straordinari per collocare in uno spazio più ampio – europeo e globale – quanto detto finora. È infatti un libro sul ruolo delle idee nel conflitto intorno alle politiche pubbliche.

“L’austerity tramite raccomandazione [come quella italiana, non imposta tramite memorandum di tipo greco] poggia su una definizione obliqua, frammentata, di politiche di austerity interne, formulata alla luce di specifiche pressioni esterne, tra cui un cambiamento imitativo, profondamente radicato e guidato da aspirazioni di valore, propagato da professionisti, esperti e accademici”; l’Italia, come la Spagna, “ha vissuto comportamenti opportunistici del governo centrale, che ha approfittato dell’austerità per imporre un programma di ricentralizzazione […] pur incrementale e surrettizio”. Un blocco tecnocratico favorevole al riequilibrio di bilancio, storicamente contrapposto al blocco politico favorevole alla spesa, ha fatto aggio su idee e modelli già in circolazione dagli anni Novanta – quelle del New Public Management, ma non solo – e con questi a portata di mano ha avuto gioco (relativamente) facile nello “scaricare” sui governi locali la pressione della crisi.

Allora, se dalle idee di governance pubblico-privata, sussidiarietà, regulation, e, in ultima istanza, di depoliticizzazione, ha tratto linfa la legittimazione dell’austerity nella sua forma più surrettizia e obliqua, quella dello “scaricabarile” (“blame avoidance” nel volume di Lippi e Tsekos); se queste idee erano pronte all’uso perché sviluppate e articolate da una forte comunità epistemica tecnica, professionale e accademica; e se infine le conseguenze di quelle idee e di questa austerity sono quelle descritte da Urban@it: allora è tempo davvero, come dice e dimostra il Rapporto sulle Città, di reinvestire in una scienza delle politiche informata e attenta a cosa accade nei territori, che prepari frame cognitivi più sostenibili per affrontare la prossima crisi.

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