Ambiente
Fa caldo: Eni si toglie la cravatta e risparmia energia
(Contenuto realizzato in collaborazione con Eni)
Via la cravatta d’estate: si risparmia energia elettrica. Succede all’Eni per il nono anno di fila e i risultati sono stati più che lusinghieri. Così tanto che anche altre aziende hanno seguito l’esempio.
Il punto è questo: andare al lavoro senza cravatta e con il colletto della camicia slacciato fa sudare meno e permette di alzare la temperatura dell’aria condizionata. La faccenda, com’è ovvio, riguarda soltanto i dipendenti uomini, ma essendo Eni un’azienda enorme, i numeri sono particolarmente significativi. I maschi che lavorano all’Eni in tutto il mondo sono 69.949, circa un terzo (ovvero 23 mila) stanno in Italia. I dati di risparmio energetico rilevati si riferiscono a 136 siti italiani certificabili, 56 dei quali sono uffici, otto a San Donato Milanese, sette a Roma, oltre Gela, Fano e Genova. Alzando di un grado la temperatura del condizionamento da giugno a settembre, già il primo anno dell’iniziativa (2007) si sono risparmiati 243 mila kilowattora, evitando l’emissione in atmosfera di 112 tonnellate di anidride carbonica. L’estate 2014 si sono risparmiati 361 mila kilowattora e 147 tonnellate di anidride carbonica. Ma, come si ricorderà, l’estate scorsa non è stata particolarmente calda, infatti il picco del risparmio è stato toccato nel 2012, con 387 mila kilowattora consumati in meno e relativa mancata produzione di 177 tonnellate di anidride carbonica.
L’idea di andare d’estate in ufficio senza cravatta con ogni probabilità origina negli Stati Uniti, dove di norma l’aria condizionata viene tenuta a temperature molto basse e la moda casual è generalmente più accettata. Eni ha preso l’iniziativa dopo aver promosso, per l’appunto una decina d’anni fa, la campagna di risparmio energetico rivolta alle famiglie «Eni 30 per cento». Si davano ventiquattro banali consigli (tipo far partire la lavastoviglie soltanto quando è piena) ai quali attenersi ed era stato calcolato che in questo modo una famiglia media poteva arrivare a realizzare un risparmio annuale di 1600 euro, «regalarsi una tredicesima», dicevano. In effetti nel campione di famiglie monitorate ce n’era stata una, in provincia di Lecce, che era riuscita a superare l’asticella e a risparmiare anche più di quella cifra. I dirigenti Eni avevano pensato che sarebbe stato positivo promuovere il risparmio energetico anche all’interno dell’azienda, oltre che all’esterno, e così era nata l’idea di «Eni si toglie la cravatta». Non viene invece rilevata l’eventuale diminuzione di conflitti di genere tra donne infreddolite che aborrono l’aria condizionata e maschi accaldati che aspirano a temperature groenlandesi.
Maurizio Marinella, titolare del laboratorio per produrre cravatte più famoso d’Italia e, probabilmente, del mondo, guarda all’iniziativa con qualche perplessità. Certo, anche la sua ditta si prepara a fronteggiare le alte temperature. «Facciamo anche la cravatta estiva, di seta leggera, sfoderata, senza interno», osserva Marinella. Nei suoi negozi, tuttavia, l’accessorio si continua a indossare. «La cravatta non dev’essere un obbligo, una costrizione», afferma, «dev’essere un piacere, è l’unico accessorio che indossa l’uomo».
La cravatta, in effetti, è un capo d’abbigliamento «inutile», puramente ornamentale, l’unico vezzo di un modo di vestirsi generalmente noioso (Honoré de Balzac disse, a proposito degli abiti scuri da uomo: «Sembra che siamo tutti vestiti per un funerale»). Smesso l’orologio da taschino con la catena d’oro, lasciato perdere l’anellone con brillante solitario che fino a Novecento inoltrato stava al dito di aristocratici e alto borghesi, e poi è passato a caratterizzare boss mafiosi e papponi, è rimasta soltanto la cravatta a dare una botta di vita al cupo abbigliamento grigio o blu scuro. Ma neanche con quest’accessorio è sempre detto che l’originalità sia in agguato, visto che le cravatte più diffuse sono quelle che Giovanni Nuvoletti – considerato un arbiter elegantiae del vestire maschile – definiva «fantasia minestrina», perché ciò che viene raffigurato sulla seta, stelline, piccoli ovali, o quant’altro, ricorda molto da vicino la pastina da brodo.
La cravatta irrompe nella moda maschile nel Settecento, anche se in forme molto diverse da quelle che conosciamo oggi: si trattava di una sciarpina di lino finissimo ornata di pizzo e tulle. Che derivi da una sciarpa portata al collo dai soldati croati al servizio di Luigi XIV, e che il nome provenga da hrvat – ovvero «croato» in lingua corata – è con ogni probabilità soltanto una leggenda. In Italia il termine cravatta si trova già adoperato nel Cinquecento, come testimonia il libri di Cesare Vecellio “Degli habiti antichi e moderni in diversi parte del mondo” (Venezia, 1590), in cui a proposito del focale (antica sciarpa romana), scrive che si trattava di «una specie di cravatta». Secondo alcuni studiosi il vocabolo non avrebbe origini croate, ma si collegherebbe al turco kurbac e all’ungherese korbacs, termini che designano entrambi oggetti lunghi, come lo scudiscio e la frusta. D’altronde cravache in francese vuol dire frusta, e in Francia il termine cravate era già usato nel XV secolo per definire un pezzo di stoffa lungo e sottile.
In ogni caso alla fine del Settecento la cravatta si allarga e si allunga e si porta arrotolata più volte attorno al collo. Al tempo è un accessorio sia maschile, sia femminile e diventa decisamente maschile nel corso dell’Ottocento, infatti nel 1835 la rivista di moda “Corriere delle dame”, scrive: «La cravatta è l’uomo». Nel XIX secolo si annoda in modi diversi, è prevalentemente bianca, talvolta nera. L’affermarsi dell’abito scuro da uomo fa sì che questo accessorio si colori e possa essere di tessuti diversi (seta, lana, cotone).
Ancora oggi la cravatta è associata all’abito formale da uomo; non sono riusciti i ripetuti tentativi di svilirla da parte del senatore Francesco Speroni, della Lega, che si faceva vedere in aula indossando cravatte con disegnati maiali, oppure cravattini di cuoio alla texana. Speroni è passato, la cravatta è rimasta.
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