Ambiente
Dove mettiamo il deposito per le scorie nucleari? Arriva il momento della verità
Tre mesi di tempo e la mappa sarà pubblica. Quindi, i giochi saranno definitivamente aperti. Lazio, Toscana, Marche, Basilicata, in pole position ma “nessuna regione è esclusa”, come ha precisato alla Camera il sottosegretario all’Ambiente Silvia Velo. Da pochi giorni la Sogin ha consegnato all’Ispra la cartina dell’Italia con le “aree potenzialmente idonee” a ospitare il deposito nazionale di rifiuti nucleari e si sono già accesi i primi focolai di rivolta. A guidarli è la Sardegna al grido di “non vogliamo essere la pattumiera d’Italia”, seguita dalla Basilicata, ancora memore della notte di dieci anni fa quando con un Consiglio dei ministri notturno fu scelta Scanzano Jonico per custodire la radioattività d’Italia. All’epoca i lucani scesero in strada bloccando il traffico e anche il progetto. Ma dieci anni possono essere un’era geologica e oggi a capo della Sogin non c’è più il generale Carlo Jean ma un management giovane che punta a trasparenza e comunicazione.
Dal 2 gennaio, giorno della consegna della mappa, bisogna contare tre mesi: in questo tempo l’Ispra – che ha definito i criteri di esclusione, dove cioè il deposito non può essere costruito – deve vidimare le carte, e non è detto che non le stravolga. Poi il malloppo arriverà sui tavoli dei ministri dello Sviluppo economico e dell’Ambiente. E a quel punto, contato un altro mese, diventerà pubblico. Siamo ad aprile, e il percorso sarà solo appena iniziato.
(produttori e detentori di rifiuti radioattivi in Italia. In verde gli impianti Sogin, in grigio gli altri)
Infatti nei mesi successivi ci saranno consultazioni pubbliche, dove la Sogin spera in un’autocandidatura: un’opzione non peregrina dato che il deposito a fronte di un miliardo e mezzo di investimento – almeno, sulla carta, ma esperienze internazionali riferiscono di costi abbattuti di un terzo – porterà 1500 occupati l’anno per i 4 anni necessari per la sua realizzazione e 700 posti di lavoro a regime durante la sua gestione. Il nome della località emergerà con ogni probabilità in autunno inoltrato, dopo un seminario nazionale, campagne di informazione, dibattiti e trattative. Chi ospiterà il deposito avrà anche l’annesso parco tecnologico. L’idea è di creare un polo di ricerca che faccia da volano per il settore e per il territorio adiacente.
Una favoletta? In altre zone d’Europa è andata così. Basti pensare che la Norvegia ha un deposito pur non avendo mai avuto una centrale nucleare, e in Finlandia due comuni si sono letteralmente contesi la possibilità di raccogliere i rifiuti di tutto il Paese.
E poi c’è l’Italia, dove non riusciamo mai a partire col piede giusto. Se da una parte la Sogin punta a trasparenza e cerca di mettere una distanza tra l’oggi e il passato, l’Isin, l’Istituto per la sicurezza nucleare si è appena dotato di un presidente, Antonio Agostini, che – come hanno rilevato numerosi parlamentari in varie interrogazioni – non ha una riga di curriculum specifica del settore e tra l’altro è risultato indagato per la gestione dei fondi del Miur. È una nomina ministeriale e il titolare all’Ambiente, Gian Luca Galletti, dichiarò di aver avuto dei ripensamenti dopo la notifica dell’avviso di garanzia da parte della procura di Roma. Anche il piddino Ermete Realacci, presidente della Commissione Ambiente della Camera, che pure non si è opposto alla nomina quando presiedette la seduta consultiva per esprimere parere necessario alla ratifica, chiese un passo indietro. Ma come spesso accade, spente le luci della cronaca, non se ne è più parlato e Agostini resta al suo posto.
Non solo. Il presidente dell’Anac Raffaele Cantone sta seguendo con molta attenzione una storia di subappalti della Sogin per la discarica di Saluggia, nell’ambito della inchiesta Expo: pare ci siano soldi non tracciati e di dubbia provenienza. È lì, nei subappalti, che si annida il marcio nelle opere pubbliche italiane. Ed è lì che bisognerà stare attenti dato che il deposito nazionale sarà una delle più grandi opere pubbliche italiane degli ultimi tempi. La Sogin applaude all’inchiesta milanese e anzi la precede con un’indagine interna iniziata a ottobre 2013, con l’avvento del nuovo consiglio direttivo, culminata in un esposto alla magistratura e in un allontanamento per sette funzionari.
Il deposito comunque s’ha da fare: è necessario non solo per stipare i rifiuti radioattivi provenienti dalle vecchie centrali nucleari italiane ma anche per tutti i residui in continuo aumento provenienti da esami diagnostici di medicina nucleare, che oggi sono stipati in più di venti microdepositi provvisori e spesso inadeguati. Come i sotterranei degli ospedali oppure capannoni in disuso come quelle della Cemerad di Taranto, vicino all’Ilva, dove sono stipati tremila bidoni di scorie radioattive.
Siamo in piena emergenza: l’anno scorso alla Camera durante un’audizione i dirigenti Ispra hanno raccontato di rifiuti radioattivi che «continuano a essere immagazzinati senza un adeguato processo di condizionamento presso strutture non idonee, in particolare dal punto di vista della localizzazione, a una gestione di lungo termine. Va evidenziato che in tale contesto sono emerse negli anni alcune situazioni di particolare criticità». In tutto il deposito dovrà contenere circa 90 mila metri cubi di rifiuti.
Basta un chilometro quadrato per costruirlo ma individuarlo non sarà facile visti i criteri di esclusione: lontano dall’acqua, da infrastrutture strategiche, da zone sismiche, da coltivazioni biologiche e protette, da impianti energetici, da aree soggette a frane. Dalla cartina dell’Italia sono state tolte lagune, zone protette, miniere, dighe, le aree sismiche, quelle militari, soggette a frane o ad alluvioni, sopra i 700 metri di quota, sotto i 20 metri, a meno di 5 chilometri dal mare, a meno di un chilometro da ferrovie o strade di grande importanza, vicino alle aree urbane, accanto ai fiumi. Non le zone costiere, quindi, neanche quelle dove ci sono trivellazioni o impianti industriali.
Ma cosa dovrebbe contenere questo deposito nazionale? La sistemazione definitiva di circa 75 mila metri cubi di rifiuti a bassa e media attività: il 60% è prodotto dallo smantellamento delle vecchie centrali, il 40% dalle attività giornaliere di medicina nucleare, industriali e di ricerca. Una quantità destinata a crescere e che per ora è stipata in depositi temporanei che in alcuni casi mostrano forti limiti.
Inoltre nel deposito ci saranno 15 mila metri cubi di rifiuti ad alta attività, tra cui il combustibile irraggiato e i residui derivanti dal riprocessamento in corso all’estero (Francia e Inghilterra), che nei prossimi anni torneranno in Italia, e che saranno trasportati e stoccati in contenitori speciali detti cask. Questi rifiuti saranno stoccati “temporaneamente” in attesa di un deposito definitivo geologico, cioè sotto terra, che però non è detto che debba essere in Italia. Anzi, è molto probabile che verranno accorpate zone d’Europa che storicamente hanno avuto uno scarso esercizio nucleare.
I tempi, per quest’ultima fase, si prospettano molto lunghi. Tanto che le scorie ad alta attività potranno essere considerate quasi definitivamente allocate nel deposito nazionale. E di fatto l’Europa non ha ancora trovato una soluzione. I ritardi dell’Italia impallidiscono al cospetto: con ogni probabilità, dovremo tenerci la nostra spazzatura ad alta attività ancora per numerose generazioni.
(Immagine di copertina di Nicolas Raymond, tratta da Flickr)
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