Ambiente
#climatestrike. Critici e cinici, un PLANet B ce l’abbiamo?
La giornata di venerdì 15 marzo, il primo #climatestrike a livello mondiale, potrebbe diventare una data simbolo, una di quelle che entrano nei libri di storia: lascia la sensazione che si sia riaccesa la luce dopo una lunga notte nera d’inverno, e che ci sia ancora una speranza per il futuro. E ciò nonostante quel che ne è seguito, e cioè le varie prese di posizione, che invece di alimentare speranza ed entusiasmo hanno voluto colpirli. “Non abbiamo un PLANet B” recitava uno dei cartelli durante le manifestazioni di venerdì. E invece, a giudicare dalle prese di posizione, pare che molti di quelli che si sono espressi vivano letteralmente su di un altro pianeta (o ne abbiano un altro a disposizione su cui rifugiarsi, nel caso, ad oggi probabile, di bisogno) e non in questo unico nostro sempre più gravemente malato e il cui futuro è difficile, oggi, da immaginare con certezza.
Dalla mia bolla di uomo di sinistra temporaneamente ai margini della militanza ne ho osservate, sentite e lette diverse di posizioni, limitatamente all’Italia. Ma in fondo, credo che tutte possano andare a finire in non più di 3 categorie.
Anzitutto ci sono i compagni che hanno intenzione di utilizzare la più grave minaccia alla sopravvivenza della nostra specie in questi anni, e cioè il cambiamento climatico, alla stregua di una scusa; e cioè provare ad utilizzare il preoccupato interesse per l’argomento, che si è espresso su scala mondiale in maniera imponente venerdì, per far crescere la sensibilità anticapitalista. Il presupposto (condivisibile, intendiamoci) è che sia stato il modo di produzione capitalista a determinare l’attuale situazione, e che dunque finchè non si rovescia il capitalismo non risolveremo il problema. Dunque, la parola d’ordine lanciata da questo (micro) mondo è: prima far crescere una sensibilità anticapitalista, sfruttando la situazione. Poi si potrà di conseguenza risolvere anche la questione ambientale.
Peccato che nel suo ultimo rapporto annuale l’IPCC, il foro scientifico dell’ONU sulle questioni ambientali, affermi che abbiamo non più di 12 anni per invertire la rotta sul clima; altrimenti la nostra specie si troverà a vivere in un mondo a cui non sarà più in grado di adattarsi. E 12 anni mi paiono, di questi tempi, un orizzonte un po’ troppo ristretto per pensare di riuscire a rovesciare il capitalismo. Converrebbe mettersi nell’ottica di combattere la battaglia sul clima dentro il capitalismo. Non tanto per aprioristica presa di posizione; non tanto perchè io creda che il capitalismo sia necessariamente riformabile eccetera, eccetera, eccetera (sfido chiunque, di questi tempi, a prevedere che ne sarà del capitalismo). Ma semplicemente perchè siamo su due piani e, ancor più, su due orizzonti temporali diversi. Poi, sia chiaro: se cresce anche una sensibilità anticapitalista male non farà. Ma porsi come obiettivo primo la crescita dell’anticapitalismo, funzionale al suo abbattimento, come presupposto imprescindibile per la crescita del movimento ambientalista e il successo di quest’ultimo, dimostra come, anche nella più rigorosa sinistra, ci sia molta confusione sulle priorità da darsi, sulle urgenze e sulle necessità. Tra le quali ultime spicca quella di tenere il più aperto e inclusivo possibile, anche in Italia, questo straordinario movimento. Anche perchè mi chiedo: dovesse affacciarsi un giovane proveniente da una famiglia di destra (e verosimilmente di destra a sua volta) che ha a cuore il proprio futuro che si fa? Si prova a tenerlo fuori? Oppure si prova a tenerlo dentro, ma solo alla condizione che rinneghi se stesso e inizi ad essere qualcun altro, che rinasca a vita nuova? E’ facile che a queste condizioni se ne torni facilmente a casa, in fondo a destra, rinunciando a dare un contributo….e rinunciando a crescere, e magari, chissà, un domani anche a cambiare idea rispetto a suo padre e a sua madre.
Sia chiaro che esistono, all’interno di questa galassia, molte sfumature; e che non tutte le posizioni sono così immature come quella, prototipica, che ho provato a descrivere. Ma tutte stanno dentro questo orizzonte strategico disastroso. Mi verrebbe da concludere: concentratevi, concentriamoci sulla questione in sè e sul merito dei problemi, compagne e compagni, senza opportunismi. La situazione è di per sè già piuttosto complicata.
Ci sono poi le posizioni di coloro che dicono: “Giovani, salvate voi il mondo, siate più bravi di quanto siamo stati noi”; e di solito si tratta di 30 quarantenni alcuni dei quali sono, per carità, in buona fede; e ai quali, in altrettanta buona fede, vorrei chiedere: ma come si fa a lasciare una responsabilità di queste dimensioni tutta e solo nelle mani degli adolescenti di oggi? Sarà forse il caso di affiancarli e sostenerli? O no? Io, del resto, non manderei mai mia figlia alla guerra contro i potenti di tutto il mondo, ad ogni livello, dal comune di 5000 abitanti alla grande multinazionale, da sola. Perchè dev’essere chiaro fin da ora che la battaglia contro i cambiamenti climatici tocca interessi ad ogni livello; interessi adulti. Se dunque il movimento che si è messo in moto in questi mesi avrà, come si spera, lunga vita, prima o poi contro questi interessi andrà a sbattere. E l’urto potrebbe non essere indolore. La politica, del resto, sappiamo (anche per esperienza diretta) che a volte può fare male.
Dentro a questa categoria di posizioni stanno poi coloro (li conosco, e conosco la loro storia) che si appellano ai giovani di oggi per poter continuare indisturbati a fare le loro porcate nelle stanze, a porte chiuse, dei centri di potere (partiti compresi). In questo caso l’appello ai giovani (“Giovani, salvate voi il mondo, siate più bravi di quanto siamo stati noi”) non è altro che la richiesta, mascherata, di non essere chiamati in causa.
C’è poi la categoria degli apertamente critici, e qui le posizioni si sprecano: abbiamo coloro che hanno dichiarato la propria avversione senza filtro e senza ritegno, arrivando a dei livelli incredibili di bassezza (documentati in questi giorni, fra gli altri, dal nuovo giornale di Enrico Mentana) pur di gettare discredito su questo nuovo movimento; poi ci sono i complottisti, più o meno deliranti, più o meno in buona fede, secondo cui Greta Thunberg sarebbe un burattino nelle mani delle elites per farci sopportare altri anni di austerità e un tenore di vita sempre più basso (in nome dell’ambiente); e poi c’è chi si lascia sopraffare dalla pigrizia e/o dallo scetticismo e magari si concentra su di un dettaglio a caso per muovere una critica a personaggi ed eventi utile solo allo scopo di rimandare l’uscita dal nascondiglio antiatomico dentro cui si è rifugiato da chissà ormai quanto tempo. Sulla stessa lunghezza d’onda si trova poi chi va oltre e, al polo opposto rispetto ai 30 quarantenni che consegnano col sorriso sulle labbra e il cuore gonfio di emozione le chiavi del futuro agli adolescenti di oggi aggiungendo: “Andate, fate voi, noi non siamo stati all’altezza”, ci sono quanti spiegano che questo movimento non andrà da nessuna parte. E sulla base di quale argomento? Semplice: sulla base del fatto che loro che hanno provato a fare la rivoluzione negli anni ’70 non ci sono riusciti; dunque, difficile che possano riuscire nell’impresa di salvare il mondo gli adolescenti (ben peggiori) di oggi. E’ già chiaro il profilo di chi sostiene questa posizione: sono gli ex contestatori divenuti in larga parte e con varie sfumature conservatori quando non apertamente reazionari.
Ovviamente, alla fine di questa lunga rassegna, non mi sottraggo nel definire quale sia la mia posizione, che fortunatamente non è isolata, ma anzi condivisa da tante persone di buona volontà, diciamo così; e mi pare la posizione più ovvia, che definirei “dell’uovo di Colombo” e cioè: un giorno qualunque della settimana, magari quella appena iniziata, dopo il lavoro e prima di rientrare a casa, passare dalla sede locale di Legambiente, ad esempio, e tesserarsi, iniziando così a entrare nel movimento reale delle cose; ognuno a modo suo, cercando di capire, da una parte; mettendo a disposizione le proprie conoscenze, dall’altra.
Tanti anni fa lessi La linea d’ombra, di Joseph Conrad e per mia fortuna m’imbattei nella nota introduttiva che Cesare Pavese scrisse all’edizione italiana del 1947. Quella nota contiene un passaggio letterario meraviglioso, a mio parere, che allora ricopiai su di un foglietto che ancora conservo nel portafogli. Una sorta di bussola per la vita, valida anche in questa circostanza. Dice così: “Conrad, cresciuto in ambienti anglosassoni, mantiene di fronte all’enigma, all’angoscia del vivere un’ironica e rassegnata alterezza: alza le spalle e a denti stretti, seppur non convinto, sta sulla breccia e dà una mano, sempre staccato, corretto, sempre gentleman. I piccoli uomini che, febbricitanti e risoluti, tengono duro in questo racconto sulla bella nave stregata – gli umili e sorridenti che, senza un gesto, s’immolerebbero ai compagni e non lo sanno – escono da una stirpe di coraggiosi, non di santi.”
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