Ambiente
Cambio climatico oppure lavaggio del cervello?
Bisognerebbe oggi focalizzare, io trovo, se questa proclamata difesa del pianeta, che impazza ovunque, non sia invece una difesa contro il pianeta e la sua naturale e dispettosa inclinazione a cambiare repentinamente e senza preavviso. Si è inclini, oggi più che mai, nonostante la scienza abbia dato una bella botta alle superstizioni e alle generalizzazioni, a dare una valenza animistica alla Terra, come se la Sorella Natura fosse sempre buona e cara e non si curasse che che del bene di tutte le creature che popolano il pianeta dove Lei si esprime dando del Suo meglio. È il messaggio che, d’altronde, ci arriva dalle antiche religioni che ci parlano di un’Età Aurea, mitologica, dove tutto era in armonia con tutto. L’ebraismo e i successivi derivati – ma ci sono luoghi simili, in varie forme e con vari personaggi, in molte civiltà antiche – lo identificavano nell’Eden primigenio, una sorta d’isola felice, dove tutto era ordinato secondo la volontà del creatore, alla facciaccia brutta di quel manigoldo del Caos. Cosa ci fosse fuori dall’Eden, ben custodito da cherubini, non è dato sapere, altrimenti non si capisce il valore attribuito all’angelo guardiano, spada in pugno, adiratissimo, che scaccia i progenitori dal paradiso in terra verso un luogo senza confini e dai caratteri ignoti ma di certo connotati negativamente per contrapposizione al giardino paradisiaco.
Quest’idea di salvare un pianeta buono che l’uomo stesso starebbe uccidendo – che poi è la traslazione del tentativo di recuperare l’Eden primigenio negato all’uomo per superbia o per voglia di saperne di più – è una parte molto importante del nostro mondo di oggi. Unitamente alla diffusa confusione tra ecologia e ambientalismo, insieme provocano collassi interni nel comune modo di sentire e nel comprendere a fondo i molti significati impliciti ed espliciti che il concetto di paradiso perduto porta con sé.
Chiedo fin d’ora perdono se a tratti potrò apparire prolisso, ma non posso farci nulla, fa parte di me. Se vi scocciate o v’indignate, cambiate lettura, non ne soffrirò e credo che il mondo continuerà a girare lo stesso. Se vi appassionate, meglio.
Il pianeta non è né buono né cattivo, proviamo a iniziare da lì, in quanto il bene e il male sono categorie umane e quindi culturali. Il pianeta segue un suo corso, o almeno ci piace immaginarlo. Nel caso della Terra questo percorso sembra essere segnato da una vita prepotente che ha espresso il bisogno di farsi largo a dispetto di tutti i tentativi di estinzioni che si sono manifestati nelle ere geologiche, non ha importanza se una vita microscopica o macroscopica, protozoi e dinosauri possono avere la stessa valenza.
Nei tempi moderni è di gran moda guardare alla Natura coll’occhio del buon selvaggio, russovianamente, c’è chi ne fa un modello, addirittura. Rousseau, peraltro, non fu assolutamente il primo a concepire l’idea di un uomo primitivo privo delle empietà della “civiltà”; il mito già era in voga in Inghilterra nel secolo precedente (John Dryden, The Conquest of Granada, 1672) e si sviluppò nel Settecento, sempre in Inghilterra con Anthony Ashley-Cooper III conte di Shaftesbury, ottimista convinto sulla bontà dell’uomo selvatico, non ancora corrotto dai falsi principi della civilizzazione contemporanea; tutte queste attenzioni derivavano senza dubbio dall’Umanesimo, che si era sviluppato nei secoli precedenti. Rousseau fu il primo a organizzarne per benino l’ideologia nei suoi scritti e questo romantico e idealizzato buon selvaggio ce lo portiamo appresso da allora: l’uomo immerso nella Natura a dialogare con essa e trarne armonia. Viene in mente san Francesco.
Il male, in generale, dagli odierni paladini dell’ambientalismo viene identificato dalla Rivoluzione Industriale in poi. Ossia tutta una serie di attacchi dell’uomo all’integrità della Natura che ha determinato il fenomeno del “riscaldamento globale” così in voga oggi nei discorsi salottieri o sui blog, sui social network e nelle risse televisive, sulle riviste di settore e nei sermoni del papa o dei presidenti e vicepresidenti ecologisti. Tutti tendono ad ammonire gli altri che così non si può andare avanti, che non c’è un pianeta B, che le risorse sono limitate, che il consumo è come una catena di Ponzi (e, in effetti, è proprio così) ma nessuno o pochi si soffermano ad analizzare profondamente il percorso dell’uomo, attraverso lo studio della Storia, della Geografia, della Fisica, della Biologia, delle Scienze della Terra, dell’Astronomia, dell’Economia, dell’Antropologia, delle Arti, della Politica, e di tutte le discipline che sarebbero necessarie per avere un quadro obiettivo, o quanto meno il più obiettivo possibile, e realmente complessivo della situazione climatica, geografica e antropologica.
In genere si tende a lanciare un messaggio facendo uso della drammatizzazione, dando scadenze sempre più vicine agli uomini d’oggi, ventilando catastrofi climatiche e punti di non ritorno. Millenarismi evergreen.
Questo mostra di avere un grande successo per più ragioni, legate alla natura drammaticamente emotiva del messaggio. In fondo chi sarebbe mai contento di vedere la città dove vive inondata entro una decina d’anni dalle acque di scioglimento di tutti i ghiacciai terrestri, in un nuovo diluvio universale con arche di Noè vaganti pei mari in attesa che si plachi tutto?
Così si decide che un modo per distrarre un’umanità sempre più numerosa (per vari motivi) dai suoi problemi reali e talmente interlacciati da risultare irrisolvibili a breve termine possa essere un forte indottrinamento ambientalista, di pancia forse più che di scienza.
L’ambiente sano è, in fondo, ciò che più si ricerca quando si vuole andare a fare una vacanza per rilassarsi, la spiaggia immacolata, la dentata e scintillante vetta dove salta il camoscio e tuona la valanga, la campagna più country che si può, e così via. L’Età Aurea ritorna attraverso il dépliant pubblicitario di un’agenzia di viaggi, reale o virtuale, cartaceo o sul monitor di un computer o in televisione. Così come i più abbienti ricercano un luogo incontaminato per trascorrervi la pensione, ma, naturalmente, con tutte le comodità che l’odierna tecnologia consente, alla faccia dell’ambientalismo, o, tutt’al più con una falsa scomodità, senza la tv.
La mitologia dell’ambientalismo è profondamente ancorata a questa voglia dell’uomo di dominare comunque il pianeta, di stabilire quando rovinarlo e quando fermarsi, di espandersi e di ricostruirlo, una vera smania creativa.
Sarebbe qui troppo lungo esaminare tutti gli esempi di ambientalismo del passato, di come sia nato, di come si sia sviluppato e perché, e può darsi che ci scriva su un libro: ormai tutti scrivono libri… non vedo perché se il tronista di turno scrive la sua autobiografia ufficiale a vent’anni non possa scriverne uno io che di anni ne ho sessanta e che ho visto la nascita dei movimenti ecologisti dalla fine degli anni ’60 in poi, partecipando attivamente alle manifestazioni e poi abbandonandole deluso dai promotori di tali campagne. Non sterilmente, però, bensì studiando profondamente testi, consultando scienziati e persone di cultura e facendo esperienze per capirci qualcosa di più.
Un esempio per tutti. La maggior parte delle persone è indottrinata coll’idea che la Rivoluzione Industriale abbia causato questa sconsiderata corsa all’energia, lo spreco e l’inquinamento, colla produzione di gas nocivi all’uomo e all’ambiente, tali da causare una crisi climatica di cui staremmo vedendo gli effetti già da un po’ di tempo con un innalzamento della temperatura media del pianeta e con catastrofi in corso a destra e a manca. Certo, qui e là, qualcosa non ha sempre funzionato benino, ma proviamo a vederci meglio.
Uno dei principali indiziati è il diossido di carbonio, prodotto dalla combustione (e dalla respirazione animale, cosa su cui nessuno si sofferma mai abbastanza). Precisiamo che non è un gas velenoso, come molti credono, a meno di non trovarsi in concentrazione eccessiva nell’aria respirabile per gli animali, uomo compreso. E precisiamo anche che fa parte del ciclo del carbonio, essenziale per la vita. Per le piante è un nutrimento fondamentale perché, attraverso la fotosintesi, liberano l’ossigeno nell’aria. Per la cronaca, sembra che anche se il diossido di carbonio sia aumentato, per riequilibrarsi, tutte le piante del mondo hanno moltiplicato il loro fogliame e pertanto vivremmo in un pianeta più verde. Ce lo dice, rassicurandoci, la NASA.
Ora, oggi noi abbiamo diversi modi di utilizzare il calore e soprattutto di accedere a fonti di calore alternative che fino a non molto tempo fa non esistevano. La tecnologia, la tanto vituperata tecnologia, ci ha fornito i mezzi per trasformare energie di diversa natura in calore e viceversa, senza troppa produzione di diossido di carbonio.
Proviamo a immaginare tutto il mondo, ma proprio tutto, Europa, Africa, Asia, Americhe, dalle origini fino a poco fa, anche poco prima dell’orribile Rivoluzione Industriale. Tutto andava a combustibili vegetali e, quando non vegetali, di origine per lo più animale, più raramente fossile. Tutto. Le città bruciavano legna per cucinare, riscaldarsi, illuminarsi, per fondere i metalli, per tingere i tessuti, per cuocere la terracotta e materiali da costruzione, nelle campagne si bruciavano le stoppie e i campi di cereali ormai tagliati, si bruciavano boschi per dissodare la terra o per costruirvi sopra o per le più varie ragioni, non c’era ambito dove la combustione non fosse di origine organica. Immaginiamo quanto diossido di carbonio fosse prodotto.
Per fondere i metalli, peraltro, bisognava arrivare a tali temperature che la quantità di legna necessaria è inimmaginabile.
Non sono così sicuro che l’aria che i nostri antenati respirassero fosse così pura e priva di gas tossici, quando tutti i caminetti nelle case bruciavano legna in inverno, rilasciando nell’etere un buon odore di resine combuste ma anche tanta, tanta anidride carbonica (insieme a ceneri varie), almeno secondo i principi della chimica e della fisica. Che poi sia stata tanta o poca in proporzione è da vedere, comunque…
Aggiungiamo che le guerre, frequentissime in Europa fino alla metà del XX secolo, producevano una quantità abnorme di combustioni, dovute sia alle armi sia alle distruzioni operate dalle armi e dagli eserciti, campi bruciati, città grandi e piccole – interamente costruite in legno e pietra – distrutte dal fuoco (con conseguenti emissioni fumogene), flotte annientate dagli incendi (la Grande y Felicisima Armada di Filippo II finì in buona parte tutta bruciacchiata dalle navi incendiarie inglesi, e come la flotta spagnola tante altre, in varie parti del globo), e così via. E in tutto il mondo le guerre non mancavano di certo, in terraferma o in mare; sono state migliaia nel corso della Storia.
A questa produzione aggiungiamo l’attività vulcanica, nota e anche ignota, perché fino a un certo punto, almeno fino a quando non si fece la scoperta che il pianeta fosse assai più vasto di quanto immaginassero gli antichi, la maggior parte dei vulcani, i più attivi della Terra, e delle loro eruzioni (in Asia, nel Pacifico e nelle Americhe), erano sconosciuti e quindi la loro attività non era monitorata. Dal passato giungono poche testimonianze delle tremende eruzioni indonesiane o asiatiche, nessuna di quelle americane. Moltissime eruzioni furono devastanti e causarono pesanti e duraturi cambiamenti climatici verso il freddo, non spiegati fino a quando non si studiarono sia le carote di ghiaccio della Groenlandia, dell’Antartide e di vari ghiacciai sparsi pel mondo sia quelle di sedimenti oceanici.
Anche se molti credono che l’autocombustione non esista non è così. Le biomasse producono dei gas che a contatto coll’aria prendono fuoco e inoltre la combustione può essere accesa da particolari condizioni di siccità e calore o da fulmini, come accade nelle savane o in grandi foreste, e poi essere alimentata dai venti. Se non c’è nessuno che spegne gli incendi (e in un mondo meno abitato i pompieri non c’erano), il fuoco può andare avanti per settimane. E produce una bella quantità di diossido di carbonio.
Ho letto assai poco, non perché mi annoiasse ma perché ho trovato scarsa documentazione sul soggetto, riguardo la produzione, spontanea o umana, di CO2 pre-era industriale, come se non fosse importante nel computo globale, volendo dimostrare che la CO2 che fa al caso nostro, la cattiva, sia solo quella dalla fine del Settecento in poi. Ora, questa enorme produzione di diossido di carbonio, accusata di causare l’odierno riscaldamento globale, mutato di recente con artificio semantico in “cambiamento climatico”, e ignorata da buona parte dei famosi studi di climatologi (ma il disinformato potrei essere io), non ha impedito una Piccola Era Glaciale che ha interessato il pianeta dal XIV secolo fino al XIX, con effetti vari e discordanti nelle varie latitudini, causando disagi ad alcuni e benefici ad altri, con inverni congelati e stagioni secche, con conseguenti carestie, epidemie, ecatombi, e disagi vari, con estinzioni di specie vegetali e animali, stravolgimento di coltivazioni (la fine dei vichinghi in Groenlandia, per esempio, fu dovuta al fatto che non si potessero più coltivare delle terre invase dai ghiacci e la pesca non fu contemplata dai contadini vichinghi come alternativa di sopravvivenza, o forse non ne ebbero il tempo), malattie e morte del bestiame indebolito dalla scarsezza di alimenti, e così via in un bollettino di disastri in fila indiana e senza fine.
Cioè: in pochissimo tempo si è passati dal caldo del Basso Medioevo, più caldo di oggi, al congelamento. Godiamoci il calduccio, dico io.
Ciò potrebbe significare che la causa di cambiamenti climatici, e soprattutto di riscaldamenti inopportuni, andrebbe ricercata altrove e non imputata semplicemente alla causa antropogenica post Rivoluzione Industriale. Forse in cause astronomiche o endogene, come l’attività solare, variazioni anche minime della posizione dell’asse terrestre, influenze gravitazionali, collisioni sconosciute con corpi celesti, attività magnetiche insolite, spostamento di masse continentali, correnti marine in cerca d’autore, e così via?
Mi si può obiettare che oggi siamo alcuni miliardi in più e consumiamo molto di più dei nostri antenati. Può darsi. Ma la Scienza sta ancora indagando su quali possano essere realmente le cause, perché i dati forniti spesso sono discordanti e ognuno li vuol tirare verso la propria causa, nascondendone altri che la potrebbero contraddire. Contraddire o assecondare dei dati vuol dire, nel nostro mondo, oltre a finanziamenti governativi per le ricerche, che significano soldini per le università, dar vita o no a consumi alternativi e bisogni indotti che hanno un mercato vastissimo.
Ad esempio, se io dicessi che l’auto elettrica non inquina e non produce CO2 direi una cosa inesatta, perché per produrre una quantità di elettricità necessaria per fare muovere l’intero parco macchine di tutto il mondo suppongo che avrei bisogno di milioni di centrali termoelettriche o idroelettriche o solari o eoliche o altro. Sappiamo che le centrali termoelettriche producono calore e CO2 utilizzando combustibili fossili, nonostante le emissioni siano migliorate nel tempo grazie alla tecnologia. Ci sarebbero le centrali nucleari ma abbiamo visto i rischi enormi che comportano in paesi sismici o distratti nei confronti della manutenzione. E poi noi abbiamo votato no per ben due volte a quella soluzione (meglio così).
Immaginiamoci, solo per un momento, quanta elettricità bisognerebbe produrre in più per permettere a tutti, in tutto il mondo, di circolare, bus, motoveicoli, camion, taxi, auto private, pullman gran turismo… E non si può pretendere di non far spostare più nessuno una volta che si è imbastita l’intera economia del pianeta sulla circolazione di uomini e cose. Vai in Russia in bicicletta? A parte il fatto che la tecnologia per il trasporto elettrico è ancora una cosa da nababbi, giusto per introdurre una piccola nota di classe unita al censo e per capire a chi potrebbe giovare nell’immediato un cambiamento radicale dei trasporti su ruota. Ai produttori, in primo luogo? Produttori che, oggi più che mai, manovrano i governi? A parte il fatto che la rottamazione di un tale ammasso di spazzatura meccanica non riesco a immaginare dove possa prender posto.
Questo dell’auto elettrica è, naturalmente, solo un piccolo esempio di una mistificazione, ce ne sarebbero molti altri. Forse li leggerete nel mio famoso libro se mai deciderò di scriverne uno. Inoltre qualche ottima pubblicazione, non mia, esiste già, come Storia culturale del clima di Wolfgang Behringer, o Falsi allarmi. La scienza e i media di Robin Baker. Magari mi demotiverete dal farlo, coi vostri commenti acidi e pieni di rancore per non allinearmi alla visione corrente che invece impone un senso di colpa collettivo e un consenso acritico alla summentovata visione, pena la crocifissione per chi non aderisce.
Nonostante questo terribile quadro di mia lapidazione universale da parte dei sostenitori duri e puri delle esclusive colpe dell’uomo per quel grado in più nella pignatta bollente che ci aspetta, vorrei tornare a riflettere su alcune illusioni (posso chiamarle così?) prodotte da questo spauracchio del cambio climatico antropogenico che, insieme a ragioni che possono più o meno essere autentiche, mostra anche diverse caratteristiche di un montaggio indirizzato ad arte. Sia detto, lungi dal negare che un cambiamento climatico sia in atto, sarebbe sciocco e impossibile negarlo.
Ci vien detto costantemente e in tutte le salse che codesto riscaldamento globale provocherà carestie e catastrofi ovunque. Probabilmente sì, ma unicamente perché l’uomo ha costruito dove non doveva costruire, ossia in terreni instabili, magari soggetti a fenomeni carsici o frane o sismici, letti di fiumi, pianure facilmente alluvionabili, e così via, che sono condizioni che rendono particolarmente vulnerabili le opere stesse dell’uomo. Lungi dal considerare tutto ciò non abbastanza criticamente, si tende a voler accentuare i danni che il riscaldamento globale farà, danneggiando l’umanità. Ebbè, che cosa si pretendeva? Un castello di carte al minimo soffio crollerà, come una casa non costruita con criteri antisismici difficilmente resisterà a scosse consistenti. E si deve disturbare un cambiamento climatico normalissimo per dare sempre una colpa a qualcosa? Non si poteva pensarci prima di costruire senza poi dare del vigliacco al tempo meteorologico?
Di contro abbiamo un’Europa assai più verde che nei secoli passati, a dispetto di un’urbanizzazione intensa e due guerre mondiali, e nonostante le cassandre degli anni ’70 prevedessero la desertificazione in tempi brevissimi di tutto il Sud Europa. Io me le ricordo quelle cassandre. Ero giovane e stavo in Sicilia, dove le estati sono sempre state abbastanza calde. Tutti, ma proprio tutti, dicevano che in pochissimi anni la Sicilia sarebbe diventata un deserto, angosciando i siciliani con un futuro arrostito. Invece, guarda un po’, le foreste sono aumentate, anche in Sicilia, per una più cosciente politica del suolo adottata da molti paesi in tutto il XX secolo. Un aumento della temperatura fa bene alle piante? Sembra proprio di sì. Fino a oggi.
Non sappiamo però cosa avverrà delle foreste italiane e del loro mantenimento dopo lo scioglimento della Forestale da parte di un governo sconsiderato che non è stato capace di valutare gli enormi vantaggi che il territorio ha avuto grazie alla costituzione dell’antico Corpo Reale delle Foreste nel 1910, con la legge Luzzatti, e dei successivi organismi che si sono alternati nel secolo.
L’estensione delle foreste in Europa dal 1900 al 2010.
Di fatto la Cina, mostro inquinante per l’enorme densità abitativa che macina terreno e lo stravolge, ha anche trasformato in pochi decenni vaste zone desertiche in foreste e in Africa si sta provando ad arginare il Sahara a sud dall’Atlantico all’Indiano con una fascia arboreo-arbustiva, che in alcuni stati ha attecchito vigorosamente: la Grande Muraglia Verde.
Il cambiamento del clima è una cosa sempre esistita, ed è assolutamente normale in un pianeta vivo il quale, vorrei ricordarlo, è un sistema caotico di cui l’uomo ha cercato di spiegare il funzionamento colle leggi della fisica e di irreggimentare attraverso la tecnologia, già dall’antichità. Aristotele e Lucrezio, Sostrato e Archimede, per esempio. Zhang Heng! Plinio il Vecchio! Meno male che avevamo loro a osservare la Natura e a tramandarci le osservazioni.
La drammatizzazione del problema si rivela, comunque, assai utile. E serve a coloro che vogliono controllare le coscienze delle masse.
Essendo un giardiniere e botanico dilettante, fin dall’infanzia per consuetudine e passione, mi sono sempre interessato alle migrazioni delle piante e ai biotopi. Dilettante non sempre significa informato superficialmente, infatti ero sempre stimolato ad andare a convegni e simposi di altri botanici dilettanti un po’ ovunque, per confrontare le rivelazioni dei più ardimentosi che si arrampicavano su qualche vetta inaccessibile per scoprire l’orchidea terricola che si immaginava estinta (e che poi scoprivano). Ricordo, nella lontana infanzia, che accompagnavo appena decenne, solo per passione, l’allora direttore dell’Orto Botanico di Palermo, amico di papà, in gita sulle montagne siciliane per fotografare e classificare nei suoi erbari le piante autoctone, anche nelle scarpate più impervie. In genere, siccome ci vedevo meglio di lui, individuavo le fioriture sgargianti della Saponaria Sicula o della Viola nebrodensis e di altre essenze endemiche assai prima degli altri e le indicavo al professore che ci era passato accanto distrattamente senza notarle. A quell’epoca saltavo da una roccia all’altra come uno stambecco e avevo una vista d’aquila.
Quest’interesse verso la Natura mi portò a indagarla sempre più, proprio negli anni in cui si organizzavano ovunque le prime battaglie ecologiste e quindi credo di sapere di cosa parlo. Molti misteri ancora non si conoscevano, anche perché la Scienza si evolve di continuo e senza sosta rende obsoleto il passato, conquistando nuovi saperi e nuove scoperte.
Ho quindi seguito gradualmente la narrazione che della Natura ha compiuto l’uomo, da quegli anni fino a oggi, nei suoi più vari aspetti. Il primo, più evidente, era quello passionale, senza dubbio, legato al fatto che l’esplorazione del mondo naturale e gli esperimenti colle piante erano ciò che più mi attraeva. Ma anche la difesa dell’ambiente era un aspetto non secondario, perché rappresentava in fondo la salvaguardia di questa passione, la continuità. In un certo modo era voler fermare il tempo in un’Età Aurea, ecco che ci si ritorna. Un po’ mi è rimasta addosso, questa sensazione, e come a me sicuramente a molte altre persone che magari hanno vissuto e condiviso esperienze simili alle mie, anche milioni di persone che non conosco.
La narrazione che si è fatta è passata attraverso molti mezzi. Nell’epoca dell’immagine soprattutto attraverso la cinematografia che, ovviamente, ha in Hollywood il suo parco di divertimenti più attrezzato. E lì i film spaziano da un genere all’altro, intrecciandosi tra loro, la fantascienza colla Storia, il sentimentale colla commedia, l’horror coll’epidemico-ospedaliero, col musical, eccetera.
Il mondo in pericolo è un argomento sempreverde, e può servire per veicolare messaggi e comportamenti e, attenzione, anche dei consumi. Soprattutto se provengono da un paese come gli U.S.A. che del consumo ha fatto la propria religione laica, imponendola a tutto il mondo come modello.
Spaventare il pubblico con un pianeta sull’orlo della crisi o in piena crisi oppure ormai con pochi sopravvissuti alla crisi, è una maniera convincente per impressionarlo su certi temi. Ovviamente la narrazione è fiction e la fantascienza è, appunto, fanta. L’esasperazione scenica è a poco a poco entrata nell’immaginario collettivo e ha sempre più spinto le persone a considerare l’ambientalismo come una cosa da valutare attentamente. L’operazione di per sé è positiva perché magari molte persone non avrebbero avuto nessun altro stimolo per avvicinarsi a quei temi. La cosa triste è che l’approccio a codesti temi è stato soprattutto emotivo e non supportato da conoscenze spesso realmente scientifiche, per cui c’è una tendenza generale a credere che i film, anche certi documentari, siano la realtà.
Molti pensano che “The day after tomorrow” (2004) possa diventare realtà in un batter d’occhio, così come l’esilarante documentario di Leonardo Di Caprio “Before the flood” (2016) sia assolutamente lo specchio della verità. Esilarante, perché, nella sequenza che riguarda Miami, Di Caprio mostra le inondazioni frequenti della città come causate dall’innalzamento degli oceani a causa dello scioglimento dei ghiacci. Solo a Miami, non a L’Avana o a Rio de Janeiro, non a Pisa o a Malaga né a Sharm el Sheikh, che sono tutte città allo stesso livello del mare di Miami e che non subiscono alcuna inondazione. Non gli viene in mente neanche per un istante, a Di Caprio, che forse potrebbero esserci altre ragioni per le inondazioni localizzate, come uno sprofondamento del terreno dovuto alle cause più varie. No. La causa è lo scioglimento dei ghiacciai della Groenlandia e dell’Antartide e colpisce solo Miami.
Il guaio è che codesta narrazione viene presa come autentica, pur non supportata da alcun dato seriamente scientifico; e ancora di più sono iconici gli incontri di Di Caprio, accuratamente mostrati e montati nel film, col papa (noto esperto di ambiente ed ecologia, soprattutto di scienza, a cui tutti gli scienziati si rivolgono solitamente per un parere qualificato), con Ban Ki-moon, segretario generale dell’ONU (altro esperto), Obama (espertissimo…), e così via, come se la loro presenza nel film desse una patente di veridicità e autorevolezza alla narrazione. Ovviamente, molteplici riconoscimenti sono stati attribuiti al prodotto, che viene considerato un importante contributo alla causa ambientalista.
Ma adesso entra in scena Greta Thunberg, una ragazzina svedese che fino a ieri era una perfetta sconosciuta e che oggi conoscono anche su Saturno. È il simbolo perfetto per un’altra narrazione: adolescente, affetta da sindrome di Asperger, svedese, vegana… pronta addirittura per il premio Nobel. Svedese, come il primo sostenitore del riscaldamento globale e premio Nobel per la chimica nel 1903 Svante August Arrherius, che mise in relazione l’anidride carbonica coll’effetto serra.
Il pubblico che Greta può mietere è potenzialmente immenso, avranno immaginato i curatori del marketing. In effetti, Greta raccoglie l’innocenza e l’ardore adolescenziale per una battaglia condivisibile, come i temi dell’ambiente, l’handicap, argomento per cui non si può che parteggiare per una bambina sventurata, l’essere nordeuropea di uno stato simbolo di libertà e tolleranza e sede del Nobel, l’alimentazione, considerata oggi come l’alternativa al consumo sfrenato di un’alimentazione “insana”, e così via.
Ci cascano in molti, anche persone che non diresti mai. Proprio perché la freschezza esposta in vetrina dovrebbe essere di per sé una garanzia, se non fosse per piccoli, sciocchi dettagli che a persone smaliziate e tremendamente pignole come me (riesco a essere fastidioso assai) non sfuggono.
Per esempio, esiste una foto della piccola Greta che esibisce i suoi simboli, ovviamente scattata da chi ne cura l’immagine. La foto è tratta dal suo profilo Instagram e ha già suscitato accese critiche, anche parossistiche ed eccessivamente violente, ma in una qualche maniera rispondenti a una certa logica.
Greta Thunberg in viaggio (fonte Instagram)
L’immagine mostra una bambina che sta pranzando in treno, con una serie di prodotti in esposizione. Innanzi tutto il set. Greta viaggia in treno, senza inquinare con cattive automobili che sporcano l’ambiente. Anche se il treno si muove con l’elettricità che abbiamo visto da dove provenga. La prima cosa che salta all’occhio sul tavolo da pranzo sono le banane. Ora, per una vegana ambientalista, o almeno per ciò che Greta (o chi per lei) vorrebbe mostrare di essere, le banane non sono proprio ciò che si dice a km 0 per uno svedese, come ogni ambientalista convinto che si rispetti proclama riguardo al cibo. E già questo non è un calcolo fatto bene.
Ma andiamo avanti nell’analisi dell’immagine. In bella mostra c’è un contenitore di plastica non riutilizzabile, quindi da gettare via, anche magari in un contenitore per il riciclaggio, ma comunque da gettar via, di una Vegansk Salat, insalata vegana. E non è la sola plastica che circonda Greta: in altre foto fanno bella mostra di sé un impermeabile giallo, un piumino viola e uno zainetto viola anch’esso. La plastica, nemico numero uno dei mari e della terra. Un ambientalista che si rispetti non fa assolutamente uso di plastica: è il diavolo.
Ma ecco che in agguato arriva l’imprevisto da chi evidentemente è un ambientalista superficiale e ha sottovalutato i messaggi criptati. Il pane. L’innocuo pane, morbido, dolce, da sandwich, che è un piacere per il palato. Si tratta del PågenLimpan (https://pagen.com/our-range/pagenlimpan/) che ha, tra i suoi ingredienti, il frumento, forse danese, segale a lievitazione naturale, lieviti vari, e il famigerato olio di colza. Adesso, per chi non conoscesse l’olio di colza e i suoi trascorsi, bisognerebbe andare a fare un po’ di ricerche. Si scoprirebbe che, essendo stato considerato rischioso per la salute in passato, a ragione, le varietà di colza oggi coltivate per trarne olio, per scopi vari, tra i quali quello alimentare, sono frutto di miglioramenti con le esecrate tecniche transgeniche, che ne renderebbero la consumazione addirittura salutare per via degli omega 3 e omega 6. Ma uno dei primi gruppi a “migliorare” questi semi di colza qual è stato? Ma nientepopodimeno che la Monsanto, nel 1995! Il diavolo cacciato fuori dalla porta rientra anche qui trionfante dalla finestra. Chi ha curato l’immagine della fanciulla pura, che sola può avvicinare l’unicorno, forse ha un po’ sottovalutato la semantica dell’immagine, tutti i trabocchetti che l’immagine porta con sé e che sfuggono alle maglie troppo larghe che la mancanza di una riflessione accurata lascia passare con imperturbabilità.
L’immagine… quante cose trasmette un’immagine. Ricorda il presidente operaio, il milione di posti di lavoro, le pensioni per tutti, e “Meno male che Silvio c’è”, anche quella una carta giocata sul consenso giovanile.
Concludiamo con un aforisma inesorabile di Ennio Faiano:
“I giovani hanno quasi tutti il coraggio delle opinioni altrui”.
© Massimo Crispi 2019
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