Ambiente
Cambiamento climatico a prova di imbecilli
Sette anni fa, nel 2010, dalla Louisiana arrivava la notizia dello sversamento nelle acque del Golfo del Messico, causato dalla British Petroleum, di 800.000 tonnellate di petrolio presso la piattaforma petrolifera Deepwater Horizon.
L’anno dopo, il 2011, in seguito a uno tsunami di 15 metri d’altezza, la città di Fukushima, in Giappone, diventava famosa in tutto il mondo per un disastro nucleare che ha portato alla morte di oltre 20.000 persone.
Come per la Louisiana nel 2010, anche per Fukushima i dati sui danni all’ambiente sono stati sostanzialmente incalcolabili.
Non sono un esperto di scienza, anzi. Ricordo bene però che fino a qualche anno fa si parlava sempre di riscaldamento globale, “global warming”, e ora invece si parla di cambiamento climatico, “climate change”. Incuriosito da questo cambiamento lessicale, nel dicembre 2013 andai in Filippine per realizzare un breve documentario all’indomani del catastrofico tifone Haiyan, per cercare di capire come si stesse verificando il cambiamento climatico lì. Quello che mi dissero gli esperti lì, era che i tifoni e la loro intensità in sostanza non erano cambiati, ma era aumentato il numero di persone a rischio, e di plastica che intasava i sistemi idraulici. Era in sostanza più colpa umana, che del clima. Le persone vivevano troppo vicino ai fiumi, perché c’erano più persone ad arrivare in città alla ricerca di lavoro. Più che parlare del clima quindi, parlai degli uomini, e di come questi vivono nel proprio ecosistema.
Scelsi di non usare il termine “riscaldamento globale” perché mi sembrava evidente che tali tragedie succedono da sempre, e che con la sovrappopolazione di oggi le vittime aumentano in proporzione. Se vivi a bordo fiume, i fiumi naturalmente esondano e prima o poi ci rimani sotto, specialmente se succede di notte. Allora però scoprii che i fiumi del Mindanao, in Filippine, esondavano ancora di più da quando aziende di produzione di ananas avevano portato a disboscamento massiccio. Senza gli alberi, i flussi d’acqua diventavano più massicci, e il rischio inondazione più concreto.
Che le aziende minerarie poi inquinino i fiumi, o che il petrolchimico distrugga la natura, di certo non ho dubbi. Sono cresciuto vicino a una raffineria, e basta vedere le cartoline di come fosse quel luogo prima della raffineria, per capire la differenza a livello di qualità di vita. Eppure, in nome del lavoro e dell’industria, la produzione – e l’inquinamento – sono stati finora pressoché inevitabili. Per avere il lavoro, abbiamo accettato l’inquinamento, ed è stata una scelta “di tutti”. Una scelta di cui ora siamo consapevoli, e che cerchiamo di ovviare con un uso più responsabile delle nostre risorse.
Arriviamo però al nocciolo della mia contrarietà all’uso dell’argomento “cambiamento climatico”: l’opposizione all’antropocentrismo. Non riesco infatti a immaginare come il pianeta terra possa patire tanto la nostra presenza da finire per autodistruggersi a livello di aumento delle temperature.
Ho lavorato per anni su piccole storie di inquinamento quotidiano, da Bussi sul Tirino, dove alla fonte l’acqua era tra le più pulite d’Italia, fino a diventare, a valle, tra le più inquinate, appena superato lo stabilimento Solvay. Sono stato a Pianura, in provincia di Napoli, durante l’emergenza rifiuti, dove la criminalità organizzata si è comportata come Trump vorrebbe fare con l’orbe terraqueo tutto. Nascondendo la polvere – si fa per dire – sotto al tappeto. Ho visto gli effetti dell’inquinamento sotto i miei occhi, come fanno in miliardi – letteralmente – ogni giorno. Il mondo continua però, e con questo aumentano gli umani, anche nei luoghi più contaminati.
Nonostante tutte le prove dell’inquinamento che ho anche visto coi miei occhi, ben oltre il classico “oh, che caldo che fa questo agosto, sarà colpa del cambiamento climatico”, non mi sono mai convinto della certezza scientifica del “riscaldamento globale”, come del “cambiamento climatico”. O meglio, non mi sono mai convinto che tale argomentazione scientifica sarebbe bastata a convincere altri ben più spregiudicati di me, come politici e industriali. Ho spesso trovato questo argomento una forma mascherata di moralismo, una forma quasi messianica, come se venissero i testimoni di Geova a leggermi l’Apocalisse di Giovanni.
Se c’è stata la glaciazione senza bisogno dell’uomo, quale potrebbe essere l’influenza delle attività umane rispetto all’enorme, indicibile forza di un pianeta, e soprattutto di tutto l’universo (che preferisco chiamare “multiverso”) che gli sta intorno.
Mi sembra insomma che il cambiamento climatico dia troppa importanza all’umano e a quello che esso può causare. Non sono uno scienziato e non discuto della scientificità o meno dell’elaborazione dei dati. E’ certo che gli spazi ghiacciati stiano diminuendo, ed è evidente che un trend di riscaldamento c’è. D’altronde come potrebbe essere altrimenti, guardando alla crescita esponenziale di popolazione e di assembramenti urbani in megalopoli sempre più insostenibili.
Nonostante questo, non è la paura del cambiamento climatico futuro a rendermi un fervido oppositore alle politiche anti-ambientali di Trump. Sono convinto che prima di distruggere noi stessi il pianeta, sarà il pianeta stesso a distruggerci, con terremoti, maremoti, eruzioni o magari qualche meteorite caduto al “posto giusto”. Non è la sorte degli umani a essere al centro dell’ambiente in cui viviamo. Certo, vorrei che le nuove generazioni possano vivere respirando l’aria aperta e bevendo acqua non contaminata, ma sono sicuro che se anche diventasse tutto super inquinato, continueremmo a vivere come specie, portatori più o meno sani di malattie varie, insomma, ci adatteremo come abbiamo sempre fatto. E quando veramente non sarà più possibile, sarà il turno delle formiche e dei topi. Non è la fine del mondo.
Non è il cambiamento climatico o salvare il mondo che mi sta a cuore, ma semplicemente un discorso di responsabilità sui propri stili di vita. Ma soprattutto vorrei che fosse chiaro che non è per la scienza che dobbiamo cercare di non consumare l’ambiente, ma per la nostra stessa sopravvivenza. Se preferisco il treno all’aereo, riciclare i materiali ed evitare il consumo di plastica, lo faccio per evitare l’inquinamento del mare, la morte dei pesci, come degli uomini. Se capisco e apprezzo lo sforzo di chi non vuole mangiare carne e soprattutto boicotta la grande produzione industriale del cibo, non è per il cambiamento climatico, ma perché è meglio – se possibile – conoscere ciò che si consuma. Questo “meglio” non è basato sulla scienza, ma sulla morale, nel senso della crescita della propria consapevolezza. Io vorrei un accordo sul clima non in base a una teoria scientifica, ma a una responsabilità morale, sociale, politica. Al netto delle teorie scientifiche insomma, facciamo che questo richiamo morale sia universale, e non mediato da dati e previsioni. Non facciamo i moralisti con i dati, perché ci sarà sempre una controscienza – o probabilmente pseudoscienza – a convincere milioni di irresponsabili trumpiani che invece i dati veri ce li abbiano loro. Così si va avanti all’infinito, con contrapposizioni inutili.
Il motivo per consumare di meno e consumare meglio per me non è la paura del cambiamento climatico – che pure non discuto a livello scientifico – ma la necessità di essere responsabili rispetto alle proprie azioni, che già oggi procurano morte e distruzione. Non è la sopravvivenza della terra che mi interessa – se non ci sarà la terra, ci sarà altro – ma è essere consapevoli che questo stile di vita – il turbocapitalismo – non è sostenibile già ora per miliardi di persone. Già adesso milioni di persone devono migrare a causa della siccità, ben prima del 2060 o del 2050. Non sono le date del futuro a preoccuparmi, perché come tutte le date nel futuro, sono approssimazioni, per quanto scientifiche, ma non mi convinceranno mai.
Non è la paura del futuro a dover spingere un Trump ad accettare che bisogna inquinare di meno, ma la responsabilità del presente. Responsabilità di tante vittime come in una guerra perlopiù invisibile. E se vogliamo andare proprio di pragmatismo, lo stesso fenomeno migratorio diminuirebbe sensibilmente se le persone senza terra in Africa o Asia potessero vivere in territori di propria proprietà, invece che essere sfrattati dalle nostre multinazionali.
Per questo non accetto la retorica del cambiamento climatico, perché in un mondo di negazionisti e di teorie cospirative, parlare di futuro è come parlare di dietrologia, in sostanza è ideologico. E secondo me oggi più che mai è importante riuscire a parlare con gli imbecilli, quelli che come Trump – e come me in questo articolo – si intestardiscono a dare contro al mainstream in base al proprio non informato giudizio. Io mi sono convinto a consumare di meno non grazie alla scienza – cui di nuovo reitero tutto il mio rispetto – ma a causa degli effetti che l’inquinamento provoca a persone reali già oggi. E non è il caldo d’agosto sulle nostre spiagge a mettermi paura, come non sono le “bombe d’acqua”o i fenomeni atmosferici più aggressivi e intensi.
Piuttosto, quello che mi preoccupa è che nonostante tutta questa convinzione sul cambiamento climatico da parte dei nostri governi, che ora fanno la figura dei “buoni” rispetto al cattivo Trump, la gran parte di noi non faccia neppur lontanamente abbastanza per essere coerente. Il cambiamento climatico di domani è figlio dell’inquinamento di oggi e di ieri. A gente come Trump non interessa il futuro, bisogna mostrargli i danni che già oggi ci sono, non in Antartide, perché a lui non importa nulla di quello, ma dietro casa. Agli imbecilli come Trump bisogna mostrare che anche gli americani muoiono a causa dell’inquinamento, e che non sono solo i nostri figli a dover essere salvati, ma siamo noi stessi, soprattutto quelli tra noi più sfortunati, che vedono la desertificazione avvicinarsi ogni giorno di più, e il controllo delle materie prime in mani a entità sovrastatali che non hanno nessuna intenzione di rispettare accordi col clima.
Certo, sostituire un motivo scientifico con un’istanza morale è roba da papi più che da giornalisti, ma visto che siamo nel periodo dei “fatti alternativi”, è forse il caso anche di provare strategie alternative per convincere gli inguaribili irresponsabili che il cambiamento climatico non è solo scienza – Trump, e molti con lui, non sa manco che significa “scienza” – ma è morte, sfruttamento e distruzione già oggi.
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