Ambiente
Quarantasei anni dopo, Seveso ci riguarda ancora
Tornare a riflettere su Seveso e sull’Icmesa a quasi mezzo secolo di distanza, forse non corrisponde più a chiedere un minuto di raccoglimento per il disastro, ma proporre questioni su come noi vogliamo vivere oggi, facendo tesoro di quell’esperienza, soprattutto delle pratiche che il dopo quell’esperienza non ha avviato.
Ha raccontato Laura Conti in Questo pianeta che, all’indomani dell’incidente di Seveso (10 luglio 1976), la cosa più difficile da far capire a chi quel dramma l’aveva vissuto in diretta era che il problema non era trovare una soluzione che consentisse di riparare direttamente al danno. Non era cioè individuare una mono causa tale per cui rispondere direttamente a quella avrebbe consentito di risolvere il problema.
L’operazione da fare e il percorso da intraprendere, se davvero si voleva affrontare il problema e dunque non ritrovarsi di nuovo, a anni di stanza, a ripercorrere le stesse angosce, la questione da mettere sul tavolo era quella delle correlazioni tra fattori, valutare quelli maggiormente ricorrenti, operare per neutralizzare gli effetti.
Era il 1993 quando scriveva queste righe. L’incidente di Seveso era avvento 17 anni prima, ma la soluzione ancora latitava perché, scriveva, di fronte a una relazione causa effetto l’opinione pubblica si indigna e protesta (poi è da valutare quanto efficacemente), mentre di fronte a una dimensione di individuazione di correlazione, molti rimangono perplessi e alla fine sono portati a pesare che quell’evento sia nelle cose. Dunque alla lunga produce una reazione inerte. Si potrebbe dire che è quello che è accaduto è esattamente una conseguenza di quell’inerzia
Il tema, tuttavia appunto non è tanto l’individuazione del colpevole, quanto una mentalità certamente più difficile da superare.
Sempre nello stesso testo che voleva essere un manuale «buone pratiche», ma anche forse un profilo di una buona filiera di domande e di attenzioni da cui possono discendere buone pratiche, nell’ultimo capitolo di Questo pianeta, Laura Conti si soffermava con attenzione su come si potevano correggere alcune pratiche in uso e che cosa significava provare a invertire alcuni fenomeni più generali che riguardavano la salvaguardia ambientale. Per esempio quello del progressivo abbandono delle periferie o dei paesi interni.
Tanto per dare delle cifre: in Italia 13 milioni di persone, vivono quella condizione. Soni spesso over 65 con problemi di autonomia, di assistenza (sanitaria, prima di tutto) che diventa sempre inconsistente ed evanescente, ma soprattutto quel tema include una visione dell’ambiente che non è più riconducibile al «green» di prima generazione, ma include molte competenze e sensibilità.
La parola ambiente, come già sottolineava Alex Langer nel 1984 (il testo dal titolo Il potenziale “verde” nella politica italiana è leggibile qui) non è solo cura del paesaggio ma: medicina, pedagogia, architettura diritto, ingegneria, urbanistica psicologia e da ultimo, si potrebbe aggiungere, lotta al digital divide quale si profila a partire dalle conseguenze di Covid 19.
L’immagine – reiterando il mito consumato di «piccolo è bello» – è nella retorica del lavoro da remoto, o dell’idea che l’abbandono della città e il ritorno ai luoghi interni sia un vantaggio.
Illusione se ne frattempo quelle realtà non si dotano di infrastrutture, di connessione, di assistenza e formazione con punti di assistenza informatizzata. In breve la vecchia questione che Laura Conti appunto sottolineava nell’inizio degli anni ’90 come valutazione dell’immobilismo “post Icmesa”.
Siamo ancora lì quando si tratta di ripensare il «belpaese», di adeguarlo o di modificarlo per essere in grado di rispondere alle sfide che il presente pone e a cui obbligatoriamente occorre dare delle risposte. Perché effetto di un disastro industriale o come risposta alle urgenze che la modernizzazione «a misura umana» impone.
Come allora. Le risposte latitano. Quando per caso si trovano dei casi ciò che emerge è un virtuoso fai da te. Apprezzabile, ma di nuovo come risposta a una politica che non c’è, che fa finta. Comunque che sta altrove.
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