Acqua

La prima volta che ho nuotato coi delfini

2 Dicembre 2021

La prima volta che ho nuotato coi delfini, come sempre l’hanno deciso loro. Non so se questa storia sia una metafora o una parabola o se abbia una morale, ma ve la racconto lo stesso perché ogni tanto fa bene ripensare alla bellezza e all’amore.

E così era una giornata di riposo prima del volo di rientro, non c’era molto da fare: la barca era già ormeggiata e disarmata, l’equipaggio era ripartito e non potevo fare immersioni per via dell’azoto – che si scioglie nel sangue e in aereo non si può imbarcare.

Così avevo preso pinne e maschera ed ero andata a nuotare lungo la barriera, divertendomi a stuzzicare i pesci pagliaccio per farli abbaiare sull’uscio dei loro anemoni, guardando i banchi di pesci di vetro dondolare tutt’uno con le onde e ascoltando le tartarughe sgranocchiare corallo.

Non mi ero allontanata molto dal pontile steso sul reef, perciò ho sentito distintamente le grida eccitate dei bagnanti e dei bagnini. Sollevo lo sguardo dal pelo dell’acqua ma non capisco bene cosa stia succedendo, vedo gente accalcarsi, grandi e piccini, ed è tutto un vociare: c’è agitazione ma non sembra che ci sia pericolo, anzi, è una festa.

O almeno, curiosamente non mi sento in pericolo quando vedo arrivarmi incontro al galoppo uno, due, tre, quattro, cinque, sei, sette potenti siluri. Dico al galoppo perché, ripensandoci poi (e ci ripenserò spesso, poi), è stato come trovarmi da sola su un prato e vedere sette cavalli selvaggi lanciarsi verso di me. Panico? No: gioia.

I sette siluri mi puntano dritto in faccia a gran velocità (possono raggiungere i venti nodi, come una nave) mentre io, pazza di incoscienza e fiducia, nuoto loro incontro imitando goffamente un delfino con le braccia tese in avanti e le pinne (artificiali!) unite a coda. A un centimetro dalle mie mani, a un millesimo di secondo dal mio viso, il primo siluro scarta e mi scivola accanto. Poi il secondo, poi il terzo, il quarto, il quinto, il sesto, il settimo mi evitano e continuano la corsa.

No, tornano indietro. Non ho il tempo di voltarmi e sono già accanto a me, sfrecciano ai due lati e mi superano (cioè, io sembro praticamente ferma e loro vanno e vengono attorno a me).

Mi fermo, alzo la testa, dal pontile sul reef tutti gridano. I delfini guizzano e saltano. L’acqua ribolle. Sembriamo tutti matti e forse lo siamo.

La più matta sono io senza dubbio, una bambina matta di gioia, lancio grida nell’acqua mentre nuoto più cetacea che posso. Si tuffano sotto di me, li vedo scendere sul fondo, nel blu oltre la barriera: sono due adulti e cinque giovani. I due adulti si muovono più lenti e accompagnano i cinque adolescenti scalmanati. Adolescenti e scalmanati, maschi e femmine: è evidente da alcuni dettagli anatomici e da come – ehm – li esibiscono.

Da sotto poi tornano in su come missili, mi spuntano accanto e si tuffano in aria e spanciano, schienano, schiamazzano sull’acqua.

I migliori distributori di endorfina al mondo (è scientificamente provato) hanno deciso di fermarsi a giocare con me e io ne faccio scorta per gli anni a venire. Nuoto come una scema a delfino, o più probabilmente a turacciolo, senza nessuna vergogna li chiamo mugolando nel boccaglio. E loro fanno di nuovo il gioco di corrermi incontro, a coppie vicine, per separarsi all’ultimo sfiorandomi.

Poi tornano indietro e si mettono ai miei lati nuotando lentissimi, al mio ritmo. Mi pare di sognare. Nuotiamo insieme e siamo perfetti, sembra una coreografia preparata. Ho imparato in seguito che è un loro modo per comunicare sintonia e anche per corteggiare le femmine.

Ma se la sintonia è chiara fin da subito, sul corteggiamento beh non facciamoci illusioni: chi vuoi che mi corteggi, a me, ridicola e deforme sirenotta con la mascherona di vetro e silicone, il boccaglio che mi gonfia la bocca, la messa in piega a forma di alga e tutte le prove della umana inadeguatezza acquatica, irrecuperabile al cospetto della loro eleganza e di quel loro sguardo intelligente e quel sorriso un po’ ironico sempre stampato sul muso.

Eppure, de gustibus delphinorum: nuotiamo insieme e cantiamo, lancio gridolini nell’acqua e mi risponde quel loro tipico clic, fischi e altri suoni che io non sono nemmeno in grado di percepire. Claclaclacla, ci provano gusto, certamente ridono di me ma che m’importa sono felice.

Continuiamo a giocare, uno dei giovani si mette a pancia in su e nuota sotto di me, ci guardiamo negli occhi e non capisco bene cosa intenda dirmi ma so che non voglio mai più andare via. Ovviamente evito il contatto, sono comunque animali selvatici (selvatici si fa per dire, sono decisamente più pacifici e socievoli di noi e questo la dice lunga sulla possibilità e la opportunità di “ammaestrarli”) e in questa zona non sono neanche abituati alle escursioni turistiche.

Ma è evidente che si divertono, sprofondano giù poi si tuffano in su e piroettano e così passano le ore e la mia felicità non finisce mai.

Poi un pochino le cose si complicano – e qui mi è rimasto il dubbio, ancor oggi, se mi sia comportata nel modo più opportuno: però vi prego se lo sapete non ditemi niente.

Dunque il gruppo si scioglie per un po’, i due adulti si prendono una pausa in disparte e i giovani giocano sul fondo.

Uno riemerge, lo vedo delinearsi dal blu, dirige verso di me. Ha sulla punta del muso un pezzo di corallo. Mi raggiunge e me lo fa saltare a pochi centimetri. Sono spiazzata, mi fermo, il corallo sprofonda. Il giovane delfino scoda e scompare. Poco dopo lo vedo ritornare dal fondo. Ha sul rostro lo stesso pezzo di corallo di prima, esattamente quello, e me lo riporta. Di nuovo lo lascio scivolare.

Malgrado la sconsideratezza di aver giocato nelle ultime due ore con un gruppo di grossi animali in libertà, un’esitazione ragionevole e pudica mi trattiene dal compiere questo ulteriore passaggio verso la confidenza e accettare corallo da uno sconosciuto.

Anche perché non lo so affatto, che cosa significa: e se non era per me? e se lo prendo e poi lo rivuole? e se il gioco si fa pericoloso? o compromettente? Che ne so io del bon ton da tenere coi delfini in calore.

Il ragazzo (o la ragazza? per correttezza di genere diremo delfinƏ) però non si arrende e continua più e più volte a rituffarsi e a portarmi sempre lo stesso corallo. Forse era un invito al gioco, forse un regalo, forse una sfida o un’esca. O un incantesimo. Chissà.

Non ho mai chiesto a qualche esperto di cetacei cosa significassero quel gesto e quel pezzo di corallo. E neanche l’ho chiesto ai tanti delfini che ho incontrato in seguito, a quelli che mi hanno accompagnata nelle mie traversate avvicinandosi all’alba (scelgo sempre quel turno quando navigo sulle loro rotte), saltando fuori dall’acqua per vedere chi c’è e venendo a cercarmi all’altezza del pozzetto, a chiamarmi a giocare a prua mentre si fanno spingere rompendo le onde – o forse sono loro a trainare la barca.

Non l’ho chiesto agli altri con cui mi è capitato ancora di nuotare (sempre a loro scelta e discrezione ed evitando sempre il contatto, mi raccomando) o a quelli che vengono a tuffarsi di notte accanto allo scafo, trascinando con sé una scia fosforescente di plancton che sembrano mille comete danzanti. Né a quello squalo che mi ha zigzagato vicino, inquadrandomi con il suo radar per poi ignorarmi: decisamente uno snob poco giocherellone, ma era pur sempre un vicino di casa magari lo sapeva.

Non l’ho chiesto nemmeno a quel gruppo che ci ha accompagnato piano piano in regata, due per barca ai due lati, durante una bolina lentissima di bonaccia; né a quelli che sono entrati nel porto durante il lockdown, curiosi di sapere dove fossimo finiti e come mai non ci fosse nessuno a seminare cassette di pesce e polistirolo per mare. So long, and thanks for all the fish.

Ne ho incontrati tanti da allora: ho imparato a conoscerli meglio, a distinguerli, ad aspettarli quando so che arriveranno, ad avvistarli da lontano quando vengono a farci un controllino, a preoccuparmi terribilmente quando li vedo troppo vicini a terra, a soffrire per loro quando vedo che noi esseri abissalmente inferiori li rinchiudiamo in vasche da circo, li sterminiamo nelle reti da pesca, li ammazziamo per gioco o per invidia, li avveleniamo con i nostri inquinamenti.

Ma mi piace pensare che un giorno, se lo vorrò, se saprò riconoscere la mia natura acquatica, ci sarà sempre un pezzetto di corallo per me in fondo al mare, che qualcunƏ di loro lo riporterà a galla per venirmi a chiamare. Che in quel momento imparerò – allora, davvero, finalmente – a nuotare.

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