Acqua

La plastica invade il Mediterraneo (e forse anche voi). Ma le soluzioni ci sono

26 Marzo 2022

Spesso, quando issano le reti a strascico, i pescatori le trovano colme di spazzatura. Buste di plastica, bicchieri, cassette per la frutta, bottiglie, reti rotte ecc. «Vai a recuperare i pesci nelle scarpe, nelle bottiglie di plastica… è davvero brutto, ti rendi conto che il mare è diventato una pattumiera» dice da Salerno Salvatore Fiorillo, presidente della cooperativa Acquamarina, ricordando le due o tre volte che si è imbarcato con degli amici che usano la paranza, la rete a strascico.

La plastica è tra le prime cause di inquinamento a livello globale. Basti pensare che le microplastiche (particelle di materiale plastico più piccole di un millimetro) sono state rilevate persino nelle acque dell’Anchar Lake, sull’Himalaya. Ma secondo studi scientifici, fra le aree più colpite dall’inquinamento da plastica, a livello globale, c’è il Mediterraneo. Parte del problema è che si tratta di un mare semi-chiuso, però c’è di mezzo anche l’impressionante numero di persone che risiede nei paesi mediterranei: quasi mezzo miliardo.

Secondo l’Unione Internazionale per la Conservazione della Natura, l’Italia è il secondo paese che più contribuisce allo scarico di plastiche nel Mediterraneo. Un triste podio che condivide con l’Egitto, al primo posto, e la Turchia, al terzo.

Le stime sono agghiaccianti. Il report pubblicato il mese scorso dal WWF denuncia che ogni anno nel Mediterraneo finiscono 229mila tonnellate di plastiche: lo stesso che se 500 container colmi, ogni giorno, scaricassero plastica in acqua. E senza provvedimenti concreti la situazione è destinata a peggiorare.

«Persino lo scenario più cauto prevede che l’inquinamento da plastiche nel Mediterraneo aumenterà da due a quattro volte da qui al 2050 – osserva Roberto Danovaro, professore di biologia marina all’Università Politecnica delle Marche e presidente della Stazione Zoologica Anton Dohrn di Napoli. – Anche perché le plastiche che sono già in mare continueranno a frammentarsi producendo microplastiche. Se oltre a non immettere più plastica non lavoriamo anche per rimuovere quella che è già nel Mediterraneo, il problema non si risolverà».

Un’autentica tragedia per il mare nostrum, che è un santuario di biodiversità a livello globale. «Il mar Mediterraneo rappresenta solo l’1% di tutti gli oceani però ospita circa l’8% della biodiversità mondiale» nota Laura Castellano, biologa marina e responsabile del settore Mediterraneo, acque fredde, rettili e anfibi dell’Acquario di Genova. Ciò, spiega l’esperta, è grazie alle caratteristiche fisiche di questo mare, che vedono zone con ampia piattaforma continentale, altre invece ricche di scarpate e canyon abissali, presenza di scogliere e pareti coralligene e aree sabbiose. «Più un ambiente è ricco e diversificato più è resiliente alle sfide – sottolinea Castellano –. Quindi questa ricchezza del Mediterraneo deve essere ben tutelata».

Proprio per questo è essenziale affrontare il problema dell’inquinamento da plastica: le sue conseguenze vanno molto al di là del degrado “estetico” di una spiaggia piena di rifiuti spinti a riva dalle onde. Ne sa parecchio Marco Matiddi, a guida del Laboratorio di ecologia del Necton dell’ISPRA. Che, insieme ad altri 9 partner distribuiti fra vari paesi mediterranei, ha da poco concluso il progetto Indicit. Obiettivo, verificare e quantificare l’impatto della plastica su vari organismi marini, dalla tartaruga caretta caretta a diverse specie di pesci.

Delle 1500 tartarughe rinvenute morte sulle spiagge dei paesi partecipanti, il 63% aveva ingerito plastica. Molte, spiega il ricercatore, avevano addirittura più plastica che cibo nello stomaco, sintomo di una situazione che ha pesanti conseguenze sulla salute degli organismi marini. «La plastica induce il cosiddetto effetto inedia: l’animale si sente sazio perciò non si alimenta più. Ma naturalmente la plastica non dà nutrienti. Anzi, rilascia contaminanti».

I risultati ottenuti analizzando il pesce non sono certo migliori. Il 40% delle triglie esaminate aveva ingerito plastica, percentuale che sale al 57,5% nel caso del nasello e addirittura sfiora il 70% per varie specie di squali.

«Sono percentuali molto elevate, che ci dicono che per quanto tartarughe e pesci riescano a espellere le particelle di plastiche ingerite, c’è talmente tanta plastica nell’ambiente marino che comunque ne ingeriscono ancora – sottolinea Matiddi –. Nel loro tratto gastrointestinale c’è una costante presenza di plastica, e questo ha effetti deleteri sul loro stato di salute».

Ovviamente non sono solo i rifiuti di plastica visibili, come buste, piatti, bottiglie, a creare problemi. Le già citate microplastiche sono così piccole da essere invisibili a occhio nudo. Eppure i loro effetti sono giganteschi.

In uno studio pubblicato nel 2021 sulla rivista scientifica Communications biology, Cinzia Corinaldesi, Roberto Danovaro e altri ricercatori hanno concluso che sono molti gli effetti delle microplastiche che possono minacciare specie marine come il corallo, fondamentale perché crea habitat che ospitano biodiversità: ad esempio per il gattuccio, specie di piccoli squali (raramente superano il metro) che depone le uova proprio fra i coralli.

«Oltre a creare habitat per altre specie il corallo è un predatore – nota Danovaro. – Con il nostro studio abbiamo dimostrato che le microplastiche vengono scambiate per cibo dal corallo, e vengono massivamente ingerite dal plancton e da altri organismi della colonna d’acqua, che a loro volta vengono mangiati a tonnellate dai predatori di più grandi dimensioni».

È la cosiddetta biomagnificazione, cioè l’aumento della concentrazione di sostanze tossiche mano a mano che si sale di livello nella rete trofica. Non solo: le microplastiche debilitano il corallo, che è già esposto a grossi problemi. «Abbiamo osservato che le microplastiche sono un fattore di stress, sia perché una volta ingerite determinano delle risposte metaboliche negative da parte del corallo, sia perché causano abrasioni e lacerazioni: è come se noi fossimo esposti a una perenne tempesta di sabbia» spiega Danovaro. Ciò abbassa le difese immunitarie del corallo, tra le altre cose, e quindi riduce le sue capacità di successo di fronte ad altre sfide. Ad esempio le ondate di calore anomalo frutto dei cambiamenti climatici.

Pierluigi Strafella è ricercatore in ecologia marina presso il CNR IRBIM di Ancona, e da oltre dieci anni studia la presenza, distribuzione e tipologia di rifiuti marini depositati sul fondo del mare Adriatico centro-settentrionale. Da questi studi è emerso che «purtroppo l’Adriatico è uno dei mari più colpiti dalla presenza di rifiuti marini: circa 100 chili per km². Ne abbiamo riscontrato la presenza maggiore vicino alla costa, in una fascia che non supera i 30 metri di profondità». Circa la metà di questi rifiuti è costituita da plastica, e di questa più o meno il 50% è rappresentato «da reti da mitilicoltura e da pesca, strumenti persi durante le operazioni di raccolta o pesca» specifica Strafella, che definisce i risultati preoccupanti, anche se non sorprendenti.

L’Adriatico settentrionale e centrale, spiega il ricercatore, subiscono attività antropiche particolarmente intense e impattanti, dalla pesca professionale a quella ricreativa, dall’acquacoltura al traffico di traghetti, dalle spedizioni commerciali all’estrazione di gas da piattaforme. Senza dimenticare le quantità di persone che si riversano lungo la costa in estate, e corsi d’acqua importanti, in primis il Po, che sfociano proprio in questa parte di mare.

Non a caso, insieme ai colleghi del CRN IRBIM Strafella ha rilevato la presenza di microplastiche in diverse specie dell’Adriatico, tra cui specie commerciali come mitili e scampi. Si sta ancora studiando il cosiddetto effetto “cavallo di Troia”, segnala il ricercatore, ossia la possibilità che le sostanze inquinanti possano accumularsi nel muscolo di specie commerciali, rappresentando un rischio per la salute umana. A questo proposito è di pochi giorni fa la notizia del primo studio che ha individuato inquinamento da microplastiche nel sangue degli esseri umani, e più precisamente nell’80% delle persone testate. Anche se l’impatto di queste sostanze inquinanti sulla salute umana è ancora sconosciuto, nel mondo scientifico si teme che le microplastiche possano danneggiare le cellule.

La soluzione all’inquinamento da plastica passa per due strade principali: da un parte bisogna ridurre drasticamente la quantità di rifiuti che vengono riversati in acqua e dall’altra è necessario ripulire il mare, per quanto possibile. Il compito è immane, ma fortunatamente esistono già delle iniziative in questa direzione.

Ad esempio Risacca, un progetto di economia circolare nato nel settembre 2020 a Mazara del Vallo, in Sicilia, da tre giovani imprenditori trentenni. Lo scopo è promuovere soluzioni innovative sul riuso e il riciclo degli scarti dell’industria ittica, dalle reti da pesca alla plastica recuperata in mare. Un’iniziativa accolta con entusiasmo dagli operatori di un settore, quello della pesca, che a Mazara del Vallo sta vivendo un inesorabile declino.

Per gentile concessione di Risacca

«Il progetto vuole essere una soluzione anche per loro – dice Carlo Roccafiorita, ideatore e co-fondatore di Risacca. – Le ditte individuali di pesca e i grandi armatori condividono spesso un problema, non sanno come smaltire alcune reti, perché non sono inquadrate da un punto di vista normativo». Perciò il ritiro gratuito di quelle reti per loro è un vantaggio. Risacca ri-usa le reti usandole per tessere nuovi capi (come borse, pochette e magliette) o trasformandole completamente i nuovi oggetti di design sostenibile, ad esempio lampade, sedie e cover per cellulare.

Per ora il progetto è attivo a Mazara del Vallo, e oltre a dare una seconda vita alle reti da pesca si propone di creare lavoro, «soprattutto per i soggetti più svantaggiati. Speriamo di poter replicare questo modello anche in altri porti in giro per l’Italia, da Genova a Taranto» racconta Roccafiorita. Visto che gli attrezzi da pesca costituiscono almeno il 10% di tutti i rifiuti di plastica dispersi in mare ogni anno, e che tra l’altro diventano spesso trappole mortali per cetacei, tartarughe e uccelli marini, facilitarne lo smaltimento e promuoverne il riuso è senz’altro una buona idea.

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