Acqua
Dacci oggi il nostro deserto quotidiano
Desertificazione è una parola grossa. Significa che il degrado, così come lo concepisce l’uomo, che classifica gli ambienti con parametri che possono essere i più vari e non è detto che siano sempre i più appropriati, è giunto a un punto tale di irreversibilità che da quei luoghi scompaiono la flora e la fauna, cioè la vita. Ne abbiamo esempi nei deserti sabbiosi dell’Africa, quelli rocciosi delle Americhe, quelli sconfinati dell’Australia. Anche in Europa abbiamo i deserti, specialmente in Spagna. Intorno a Saragozza, per esempio, o nell’Andalusia, dove si girarono molti western proprio per la similitudine di quei luoghi ai deserti del West americano, e in molte altre zone, spesso con splendide esibizioni di rocce colorate a strati e canyon forse una volta rivestiti di boscaglie. In Italia le Crete senesi contengono un deserto bonsai che è un deserto per modo di dire, il Deserto di Accona, suggestivo, e sugli Appennini, di tanto in tanto, si vedono dei calanchi che sono spesso assimilati ai deserti. La Sicilia, la regione più meridionale d’Italia, prossima all’Africa e ai suoi deserti, offre aree desertiche di una certa suggestione.
C’è gente che nel deserto ci vive. Nel Nordafrica, nell’Asia occidentale, ci sono anche grandi città nel bel mezzo del deserto. Anche Las Vegas, onirico luogo statunitense, è in mezzo al deserto del Nevada.
La Sicilia sembra essere a rischio di desertificazione da un bel po’ di tempo. È dagli anni ’60 del Novecento che ne sento parlare, e il ricordo di me bambino era proprio di vivere in una terra destinata a diventare deserto per quanto ci martellavano colla minaccia dell’arsura perenne. La Sicilia, mettiamolo subito in chiaro, è oggi tutt’altro che un deserto, già sessant’anni dopo dai primi allarmi, forse anche più di sessant’anni. Diciamo che al momento dell’Unità si presentava abbastanza desertica in molti luoghi e che dopo l’Unità l’azienda delle foreste del nuovo stato intraprese una campagna di rimboschimenti i cui frutti si vedono bene oggi. Basterebbe guardare le fotografie dei primi del Novecento delle colline intorno a Palermo, brulle, calcinate dal sole, bianche.
Lo stato di queste colline si vede anche in alcune sequenze del Gattopardo di Luchino Visconti, quando la famiglia Salina si trasferisce da Palermo a Donnafugata: quelle alture arse dal sole sul cui sfondo si vede il Monte Pellegrino, che sovrasta Palermo, sono oggi, a distanza di oltre sessant’anni, quasi tutte rivestite di boschi di pino domestico e d’Aleppo. Intorno all’Abbazia di San Martino delle Scale, tra Palermo e Monreale, c’è oggi una fresca vallata tutta verde, umida e abitatissima, che non era così all’inizio del Novecento. A volte misti alla macchia mediterranea, questi boschi renderebbero la città più fresca d’estate, poiché l’aria ombrosa, più fresca e più pesante, scende alla sera dalle colline. Se non fosse che la città si è espansa talmente tanto e talmente in disordine da annullare l’effetto refrigerante della verzura. Il cemento di palazzoni e strade, in maggioranza non alberate, si infuoca di giorno e rilascia il calore durante la notte. Nonostante questo, il sistema di brezze che ripulisce l’aria della città riesce più o meno a funzionare, pur senza essere a pieno regime, e smorza la calura che in altre zone dell’isola è assai più forte.
Si continua comunque a sbandierare che la Sicilia è a rischio desertificazione per il 70%. Caspita! Il 70%! Sembrerebbe un’enormità. Le mappe che vengono diffuse, frutto di studi scientifici accurati, compiuti da università ed enti pubblici, mostrerebbero una Sicilia avviata a diventare un deserto senza speranza. Questo terrore era già insufflato dagli anni ’60, dicevo. Di queste mappe ne esistevano già in abbondanza e ogni studio era lautamente finanziato dalla Regione o da altri enti pubblici. Io ho sempre girato la Sicilia in lungo e in largo, oggi lo posso fare molto meno per sopraggiunti problemi di deambulazione, ma in auto mi muovo ancora. E io, veramente, tutto questo deserto annunciato e temuto non lo vedo. Anzi, vedo proprio il contrario. Sebbene persistano alcune aree semidesertiche in alcune zone dell’isola, come nelle provincie di Agrigento, Caltanissetta ed Enna, che poi, se proprio si andasse a guardar bene, molto di ciò che appare un arido deserto in estate altro non sono che campi secchi coltivati a frumento o a foraggio che hanno già finito il loro ciclo alla fine della primavera, il resto del territorio a me appare come un giardino. Basti pensare solamente alle sterminate coltivazioni di uva Italia tra Caltanissetta e Agrigento, sempre frammiste a ulivo e altre essenza da frutta.
Nelle foto precedenti si nota come appariva il Monte Pellegrino alla fine dell’800 in dipinti e fotografie, e come appare oggi. Era totalmente brullo, colla pietra viva, seppure sempre suggestivo. I rimboschimenti novecenteschi, che hanno anche riguardato tutte le alte colline della Conca d’Oro, hanno cambiato l’aspetto e il clima, come dicevo prima, a dispetto degli incendi. La foto seguente è un fotogramma del Gattopardo, film del 1963, dove si vede sullo sfondo il Lago di Piana degli Albanesi, che al tempo dei garibaldini non esisteva, circondato dal deserto, in piena estate. Nell’altra foto, scattata pochi giorni fa, sessant’anni dopo, si vede come l’ambiente intorno sia cambiato, le cime sono rivestite di piante e tutto intorno è abitato e verde.
Prendiamo la provincia di Trapani, per esempio, una delle aree che, secondo alcune mappe, sarebbe più a rischio desertificazione. Comunque la si percorra, da nord a sud, da est a ovest, si ha l’impressione di stare in un luogo felicissimo e fertilissimo. La Valle del Belice, i cui paesi furono atterrati dal tremendo terremoto del 1968 e in parte ricostruiti, è un vigneto continuo. Questo accade, però, proprio dopo il 1968, quando a poco a poco i terreni incolti e abbandonati vengono ricuperati da grandi aziende o da cooperative agricole proprio per la coltivazione della vite, che si affianca, con risultati eccellenti, a quella storica degli ulivi, del frumento e della frutta. In pratica trovare un centimetro quadrato libero da coltivazioni è arduo, nella provincia di Trapani. E ci credo, col clima che c’è in Sicilia pianti un seme e viene su di tutto. Quello che in lontananza potrebbe sembrare terreno sterile, se si andasse a guardare nella giusta stagione, sarebbe un campo sterminato che produce meloni gialli o cocomeri. Tutto fuorché un deserto. La siccità della stagione estiva, che si identifica coll’assenza di piogge (che non significa che non ci sia acqua nel sottosuolo), c’è sempre stata e può essere soggetta a variazioni nel corso del tempo, dovute a cause astronomiche, per lo più; è qualcosa di connaturato alla posizione geografica e non dovrebbe destare preoccupazione più di tanto. I cambiamenti climatici, sempre esistiti, hanno ora favorito ora penalizzato l’isola ma comunque non l’hanno affatto resa un deserto. E l’isola, con le sue alte montagne, le sue faggete superstiti d’alta quota, le sue generose falde acquifere è ben lungi dall’esserlo, anche se il disboscamento dei secoli precedenti all’Unità è stato pesante.
Chi volesse rendersene conto di persona può passeggiare in lungo e in largo per la Sicilia. Anche il Lago Arancio, presso il borgo dei borghi Sambuca di Sicilia (AG), è, alla fine di giugno 2022, stracolmo di acqua, come si può vedere dalle fotografie scattate proprio in questi giorni. Intorno al lago è tutto verde, i vigneti dell’Azienda Planeta, e in alto ci sono montagne con boschi di lecci, ultime propaggini dei Monti Sicani, dove sono fiumi, bacini, parchi. Addirittura, a Piana degli Albanesi, come si può vedere nella foto precedente, diverse piante, che normalmente vivono fuori dall’acqua, sono sommerse. Il che vuol dire che il livello è anche più alto del solito, e siamo nella piena estate siciliana!
Questo bacino è uno dei tre più importanti che alimentano Palermo. Si dice, ed è vero, che oltre la metà dell’acqua si perde nelle condotte, sulle quali non viene sempre fatta una manutenzione accurata, ma non è un vizio solamente siciliano, avviene perfino nell’avanzatissima Lombardia. Oppure viene anche rubata, c’è anche questo. Ma, nonostante tutto, il lago è strapieno. Certamente i rimboschimenti massicci che sono stati fatti a suo tempo e curati nel corso dei decenni, avranno avuto il loro ruolo nel preservare il suolo e consentire un filtraggio delle acque meteoriche anziché una perdita per dilavamento. Ricordo che molti anni fa anche i funzionari dell’azienda regionale delle foreste prendevano molto a cuore l’argomento e studiavano il territorio per cercare di migliorarlo. Le provincie di Messina e Catania hanno operato un’ottima salvaguardia delle loro foreste montane, curandole e limitando il pascolo eccessivo, che danneggiava le piante più giovani e il terreno, smosso dai troppi animali.
Di questi funzionari ormai estinti ce n’era uno di vecchio stampo che, pur di togliere agli speculatori frazioni di costa o di territorio, ci piantava quello che aveva nel vivaio in quel momento, proprio per metterci un tappo. Fu così che la spiaggia di Balestrate, oggi uno dei pochi punti verdi nel Golfo di Castellammare, non diventò negli anni ’60 una schiera di case, come nella vicina Alcamo Marina, ma un vero e proprio bosco. Certo, non di essenze mediterranee, ma di eucalipti e acacie australiane, di rapida crescita. Però almeno c’è. Al centro della Sicilia c’è un enorme parco tra Enna e Piazza Armerina, il Parco della Ronza, composto per la maggior parte di eucalipti. Fu creato per impiantare un’industria cartiera ma gli eucalipti non erano quelli adatti, perché per una carta di qualità ci volevano quelli puri australiani mentre quelli impiantati non lo erano. Progetto sfumato, come migliaia di altri in Sicilia, spesso affrontati con incompetenza e superficialità dall’intera classe politica. Niente carta, quindi, però il bosco rimase. Anche questo non è un bel bosco mediterraneo, con querce, frassini, lecci, olmi, come si trovano sui Nebrodi, sui Sicani o sulle Madonie, ma meglio che niente, fa ombra e purifica l’aria. Di questi boschi reimpiantati l’isola è piena, anche se spesso vanno in fumo per piromania pilotata e scriteriata da parte di persone che non si rendono conto del danno che fanno alla comunità. A volte sono gli stessi pastori che preferiscono il pascolo al bosco: verde inutile, secondo la loro ottica, e quindi danno fuoco a ciò che impedisce il pascolo, ossia il bosco. Ma questo è un argomento assai spinoso e articolato, con cause culturali e sociali profonde che hanno una loro logica all’interno di una società comunque distorta e arretrata, con bassa scolarizzazione, e di cui magari si dovrebbe parlare con più accuratezza in un altro momento.
Nonostante il fuoco, le foreste ferite a poco a poco si riprendono il terreno e, anche se con difficoltà, si rigenerano. Eppure, contrariamente agli allarmi che ci bersagliano di continuo, le aree “desertiche”, in realtà, anziché aumentare, a me sembra che diminuiscano. Anche nei luoghi più impervi e sassosi può capitare di vedere un uliveto che strappa la vita al suolo arido, o macchie che riprendono il possesso di terreni abbandonati. Quando, poi, non sono salvate da nuove coltivazioni d’impianto avanguardistico.
Il problema dei terreni lasciati a sé stessi si è posto coll’abbandono graduale dei centri rurali, svuotati da un’emigrazione corposa nel dopoguerra e oltre, a volte amplificato da catastrofi come nel Belice. Le città grandi sono sempre più grandi e disordinatamente grandi. Assenza di piani regolatori o piani regolatori sregolati hanno reso le periferie delle metropoli siciliane dei luoghi assai tristi e degradati, spesso senza servizi o aree verdi. Questo sì è desertificazione. E infatti non ci si può stupire se poi, al minimo nubifragio, l’acqua meteorica trovi nelle strade, nei tetti, nei marciapiedi e in tutte le superfici lisce artificiali, il luogo del suo sfogo. La forza di gravità porterà tutta quest’acqua verso il mare, ma, durante il percorso, l’acqua avrà travolto tutto ciò che avrà incontrato, e si sarà depositata, sempre per la famosa legge di gravità, sconosciuta oggi, nelle depressioni, come i sottopassaggi urbani, o gli scantinati, non attrezzati per un drenaggio o senza un’adeguata e regolare manutenzione dei tombini. Si chiude la stalla quando i buoi sono scappati.
Non ci si può stupire se non si lascia nemmeno un fazzolettino di terra libera con piante che possa assorbire, seppur lentamente, l’acqua piovana, almeno in parte. Viene estremizzata mediaticamente così l’estremizzazione dei fenomeni climatici. E tutto viene volutamente esagerato, perché il terrore, l’ansia, la catastrofe, le vittime, l’incognito fanno audience, attirano il pubblico. E spesso distolgono da ciò che invece si sarebbe potuto (o voluto) fare e non si è fatto. E magari disinformano non raccontando tutto.
Non so che calcoli abbiano fatto, che statistiche abbiano usato per continuare a proclamare una desertificazione della Sicilia. Io, e potete vederlo anche voi se andate a fare un giro su per i monti o per le colline, tutto ’sto “deserto” non lo noto più. Vi prego, non scambiate sempre l’erba dorata per deserto, perché come ho già accennato spesso di tratta di campi coltivati che in estate sono, per la tipica aridità del clima, semplicemente secchi ma da settembre in poi, coll’arrivo delle prime piogge, ritornano verdi e producono. I mandorleti, che in estate sembrano campi di scheletri neri, in realtà sono coltivazioni di alberi da frutta che seguono il loro ciclo e che ogni primavera fioriranno e produrranno le mandorle più buone del mondo, con cui si fanno i dolci prelibati che ognuno conosce.
Certamente si può fare molto di più per non far perdere l’acqua, così preziosa per uomini, animali e coltivazioni. Potenziando la rete di bacini artificiali e manutenendo gli esistenti, continuando pazientemente i rimboschimenti, magari con essenze autoctone e non con pinete infiammabili, riparando le condotte deteriorate, non sprecando l’acqua. Di certo non rinunziando alle docce come ha scelto di fare Fulco Pratesi, che proclama di non farne una da sessant’anni. Le pretese di Pratesi hanno qualcosa di ridicolo, oggi, dove l’igiene personale è alla base della difesa dai parassiti e dalle malattie, soprattutto in grandi aree urbane dove c’è molta promiscuità, come universalmente riconosciuto. All’utente ultimo viene sempre data la colpa, come se spettasse a lui la manutenzione delle condotte colabrodo. E bisogna pure sentirsi dire da ragazzine svedesi di chiudere il rubinetto mentre ci si lava i denti per non sprecare l’acqua. Ma questa è un’altra storia.
Anche l’attuale siccità della Val Padana, così esibita a ogni ora del giorno e della notte, che si poteva prevedere visto l’inverno avaro d’acqua, è solamente un fenomeno passeggero, o forse ricorrente anche questo ma ogni anno ci si scorda di ciò che succedeva in passato. Si sarebbe potuto pensarci prima, qualora gli amministratori conoscessero il territorio e il ciclo dell’acqua, che ai miei tempi era una delle prime cose che si studiava alla scuola elementare. Si sarebbe potuto pensare a riserve, a serbatoi, a evitare sprechi, per tempo. Però il sensazionalismo vince sempre e la siccità diventa una piaga biblica, che dura sette anni, poi arriveranno le cavallette e la pioggia di rane e i fiumi di sangue e così via. E, inevitabilmente, arriveranno le richieste di ristori da parte degli agricoltori padani, che stavolta non sono i piagnoni del Sud, i quali invece hanno costruito i bacini montani come riserve d’acqua. Basterà aspettare poco tempo che le piogge torneranno e la siccità sarà un ricordo. Senza dire mai abbastanza che tutta questa penuria d’acqua è causata soprattutto da coltivazioni avide, da un’irrigazione fatta con criteri arcaici, più sprecona e meno mirata, allevamenti eccessivi, da città troppo estese e che producono una sottovalutata quantità di calore supplementare attraverso gli impianti di raffreddamento, che sono ovunque, in abitazioni private, in esercizi commerciali, in uffici pubblici, da consumi di energia e densità abitative tra i più alti del mondo. Trovo tutto questo strombazzamento un’enorme mancanza di rispetto per chi nei veri deserti ci vive e ne fugge, per chi, con quell’acqua che ancora scorre nel Po, ci disseterebbe intere città. Certamente, senza la vasca da bagno e la doccia.
Un ridimensionamento di tutto ciò farebbe bene a molte persone. Soprattutto le persone dovrebbero studiare un po’ di più, per capire come funziona il mondo. Chissà se è troppo tardi.
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