Acqua

Così la “Legge Daga” vuole stravolgere la gestione dell’acqua in Italia

22 Marzo 2019

C’è una proposta di legge che agita la maggioranza di governo, e proprio in questi giorni compie un anno di vita. È stata presentata in parlamento proprio all’inizio della legislatura, e riguarda la gestione dei sistemi idrici nazionali, cioè degli acquedotti e la loro gestione. È una proposta di legge dal titolo “Disposizioni in materia di gestione pubblica e partecipativa del ciclo integrale delle acque” ed è particolarmente cara al Movimento 5 Stelle “delle origini”, perchè si pone come obiettivo la tutela dell’acqua bene pubblico, proprio una delle stelle polari che danno il nome al Movimento. A firmarla come promotrice, non a caso, è una militante di lungo corso del Movimento, Federica Daga, parlamentare dal 2013, che ha depositato la proposta lo scorso 23 Marzo,  quando la legislatura era appena partita e la formazione del governo era in realtà in alto mare.

Questo è un dettaglio che dice molto della centralità simbolica che il provvedimento ha per il Movimento, e in particolare per la sua ala più ortodossa e fedele ai principi delle origini. Alcuni la sventolano anche una bandiera nella dialettica di maggioranza: come a dire, “è vero, sui migranti e sulla giustizia forse stiamo concedendo molto a Salvini, ma sui beni publici non arretriamo di un millimetro”. Diversi argomenti sostenuti dai promotori della legge sono ben sintetizzati qui dalla promotrice della legge (http://www.federicadaga.net/2019/03/10/la-vera-replica-allarticolo-del-corriere-economia-sulla-legge-sullacqua-pubblica/). Il fronte che vi si oppone però è ampio e variegato, va dai sindacati a tutti gli enti locali fino alle aziende che oggi gestiscono le risorse, e che sono per lo più a capitale pubblico. Vediamo dunque cosa prevede la legge, e da chi è composto, e che argomenti usa il fronte che la contrasta,

La bozza del provvedimento ha una storia “lunga”: nasce dalla legge di iniziativa popolare presentata nel 2007 dal Forum italiano dei movimenti per l’acqua e sostenuta da 400mila cittadini, e passa poi i referendum sull’acqua pubblica del 2011. L’onorevole Federica Daga e tutto il fronte dei promotori difendono quindi il provvedimento anzitutto come “una legge voluta dal popolo”. Quello che non è così chiaro, però, è la sostenibilità dei cambiamenti che queste norme comporterebbero. La situazione attuale, infatti, è radicalmente diversa da quella che sarebbe imposta, per legge, qualora la proposta di Federica Daga venisse approvata.

Ecco i punti principali della proposta di legge

All’articolo 1 si legge che la proposta “si prefigge l’obiettivo di favorire la definizione di un governo pubblico e partecipativo del ciclo integrato dell’acqua, in grado di garantirne un uso sostenibile e solidale, nel quadro delle politiche complessive di tutela e di gestione del territorio”. La legge riconosce l’acqua come “bene naturale e diritto umano universale e fondamentale” nonché “bene comune” (Art. 2), vieta di “sottoscrivere accordi di liberalizzazione che non garantiscano la piena realizzazione del diritto umano all’acqua e la tutela della risorsa idrica” (Art. 3), e afferma come la gestione del servizio idrico integrato debba essere “realizzata senza finalità lucrative, mediante modelli di gestione pubblica”, quindi senza regimi di concorrenza, e perseguire “finalità istituzionali e di carattere sociale e ambientale, garantendo un elevato livello di qualità, efficienza ed economicità del servizio, la parità di trattamento e la promozione dell’accesso universale degli utenti” (Art. 9).

Gestione ed erogazione dell’acqua, inoltre, “non possono essere separate e possono essere affidate esclusivamente a enti di diritto pubblico”, mentre quelle “forme di gestione del servizio idrico integrato affidate a società a capitale misto pubblico e privato esistenti alla data di entrata in vigore della presente legge […] sono trasformate […] in aziende speciali o in società a capitale interamente pubblico partecipate dagli enti locali il cui territorio rientri nel bacino idrografico di riferimento” (Art. 10).

È prevista poi l’introduzione del  “limite massimo della gestione del Servizio idrico il territorio provinciale”. Le gestioni regionali e transregionali esistono già ma la legge riporta a considerare i confini politici e amministrativi di comuni e province, anziché le caratteristiche dei bacini idrografici, includendo possibili rischi di frammentazione. Come sistema di finanziamento della gestione, poi, sono individuati “meccanismi di fiscalità generale e specifica nonché meccanismi tariffari finalizzati alla copertura dei costi e al miglioramento dell’efficienza, dell’economicità e della qualità del servizio” (Art. 9). La legge si propone anche di togliere le competenze di controllo e di verifica degli investimenti all’Arera, l’authority che sovrintende ai servizi di energia, rifiuti e il servizio idrico integrato.

La proposta sembra non mettere d’accordo molti degli attori coinvolti nel sistema di gestione dell’acqua del paese, nonostante alcuni principi contenuti nella prima parte siano condivisi da tutti. I sindacati, CGL, UIL e CISL si oppongono, insieme a Utilitalia, l’associazione delle società che forniscono servizi pubblici, e alle utility che gestiscono le reti idriche. Di queste, peraltro, molte sono quotate in borsa e la stragrande maggioranza è comunque controllata, già oggi, da enti pubblici. Ad opporsi in maniera unitaria sono anche le regioni, sostenendo tra le altre ragioni, l’impossibilità di garantire sufficienti livelli di investimento per il mantenimento della rete idrica.

Il costo per riacquistare le quote di partecipazione cedute negli anni, infatti, e per ripagare lo stock di debito contratto con banche e cittadini si stima  però essere pari a circa 15 miliardi di euro. Questo sarebbe un primo, grosso problema: le nuove entità nascenti, infatti, avrebbero da subito sulle spalle oneri finanziari importanti, che renderebbero più faticoso l’accesso al credito e i necessari investimenti per sviluppo e manutenzione.

Anche in forza di queste criticità, Utilitalia, l’associazione delle società che forniscono servizi pubblici, ha proposto di lasciare agli enti locali almeno la libertà di scelta: mantenere le attuali forme (pubblica in house, miste o gestite da privati) e aggiungere l’opzione di una forma totalmente “pubblica”, oltre a mantenere degli ambiti di dimensioni tali da consentire economie di scala e lasciare le competenze all’Autothority.

L’approvazione della normativa di fatto porterebbe fuorilegge quasi tutte le gestioni attuali e, tra queste, anche tutte quelle di società di diritto privato ma integralmente o prevalentemente controllate dal pubblico che sono la maggioranza nel nostro paese. La domanda che resta, di fronte a questo tipo di proposte, è principalmente una: le gestioni pubbliche dirette, cioè quelle in capo allo stato e alle sue diramazioni locali, sarebbero in grado di fronteggiare i costi che oggi si sobbarcano le utility? Le stime fornite dalle utility parlano di aumenti tariffari sostanziosi che ricadrebbero ovviamente sui consumatori. Se così fosse, l’ideale di un’acqua “tutta pubblica” finirebbe col ritorcersi contro chi di più dovrebbe essere tutelato dall’ideale stesso, cioè i cittadini.

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