Acqua

Ad un mese dal Referendum nessuno ne parla. Cosa prevede?

14 Marzo 2016

A circa un mese dal referendum abrogativo in programma per il 17 aprile circa le trivellazioni nei mari italiani, buona parte della popolazione italiana risulta esserne poco informata, se non completamente allo scuro, ed i comitati per il “Si” lamentano difficoltà nel riuscire a informare correttamente e per tempo gli italiani su “questa partita importantissima“.

Guardando all’iter che ha portato ad indire il referendum, si deve partire dal settembre 2015 quando Possibile, il movimento fondato da Giuseppe Civati, aveva promosso otto referendum, ma non era riuscito a raccogliere le 500mila firme necessarie (secondo l’articolo 75 della costituzione) per chiedere un referendum popolare. Poche settimane dopo dieci consigli regionali (Abruzzo, Basilicata, Marche, Puglia, Sardegna,Veneto, Calabria, Liguria, Campania e Molise) hanno promosso sei quesiti referendari sulla ricerca e l’estrazione degli idrocarburi in Italia. L’Abruzzo si è poi ritirato dalla lista dei promotori. Tuttavia nel dicembre 2015 il Governo ha proposto delle modifiche alla legge di stabilità sugli stessi temi affrontati dai quesiti referendari, per questo la Cassazione ha riesaminato i quesiti e l’8 gennaio ne ha dichiarato ammissibile solo uno, perché gli altri sette sarebbero stati recepiti dalla legge di stabilità. Dopo la pronuncia degli ermellini 6 regioni promotrici dei referendum (Basilicata,Sardegna, Veneto, Liguria, Puglia e Campania) hanno deciso di presentare un conflitto di attribuzione alla corte costituzionale riguardo a due referendum, tra quelli dichiarati decaduti dalla cassazione. I consigli regionali contestano al governo di aver legiferato su una materia che è di competenza delle regioni in base all’articolo 117 della costituzione, modificato dalla riforma costituzionale del 2001. Il 9 marzo la consulta valuterà l’ammissibilità del conflitto di attribuzione: se la corte accogliesse i ricorsi delle regioni, i due quesiti referendari in precedenza non ammessi, riguardanti il “piano delle aree” (ossia lo strumento di pianificazione delle trivellazioni che prevede il coinvolgimento delle regioni, abolito dal governo con un emendamento alla legge di stabilità) e la durata dei titoli per la ricerca e lo sfruttamento degli idrocarburi liquidi e gassosi sulla terraferma,tornerebbero a essere validi e dovranno essere sottoposti agli elettori.

Ma cosa prevede l’unico quesito referendario approvato dalla Cassazione?

Innanzitutto si tratta di un referendum abrogativo, ossia uno dei pochi strumenti di democrazia diretta che la Costituzione italiana prevede per richiedere la cancellazione, in tutto o in parte, di una legge dello Stato, ma per riuscire nel fare ciò serve raggiungere il quorum necessario affinchè il referendum sia valido: per raggiungerlo serve che vada a votare la metà degli aventi diritto.

Passando al piano dei contenuti, il referendum chiede di abrogare il comma 17 dell’articolo 6 del Codice dell’ambiente – dlgs n. 152 del 2006 – nella parte in cui prevede che le trivellazioni nelle acque territoriali italiane  – cioè quelle che si trovano entro le 12 miglia dalla costa – continuino fino a quando il giacimento lo consente. Il testo del quesito che gli elettori si troveranno a leggere sulla scheda sarà il seguente: “Volete voi che sia abrogato l’art. 6, comma 17, terzo periodo, del decreto legislativo 3 aprile 2006, n. 152, “Norme in materia ambientale”, come sostituito dal comma 239 dell’art. 1 della legge 28 dicembre 2015, n. 208 “Disposizioni per la formazione del bilancio annuale e pluriennale dello Stato (Legge di Stabilità 2016)”, limitatamente alle seguenti parole: “per la durata di vita utile del giacimento, nel rispetto degli standard di sicurezza e di salvaguardia ambientale?”

Sostanzialmente si chiede agli italiani se essi vorrebbero fermare le trivellazioni nei giacimenti attualmente attivi nelle acque territoriali italiane, qualora finiscano le concessioni, anche se ci fossero ancora riserve utilizzabili ed estraibili di gas o petrolio.

Se vincesse il Si, sempre che si raggiunga il suddetto quorum, la proposta di abrogazioni verrebbe approvata e dunque cambierebbe il decreto n. 152 del 2006, impedendo così alle società petrolifere di sfruttare giacimenti di idrocarburi a ridosso della costa italiana anche oltre il termine della concessione. In altre parole, nel giro di qualche decennio verrebbe fermata l’estrazione in tutti gli impianti di vecchia concessione. I più recenti, invece, potrebbero continuare la loro attività anche per un paio di decenni. Tra gli investimenti che verranno bloccati vengono ricordati quelli relativi a tre grandi giacimenti già attivi e per i quali è previsto un potenziamento: il giacimento Guendalina dell’Eni nel Medio Adriatico, il giacimento Gospo di Edison nelle acque dell’Abruzzo e il Giacimento Vega di Edison nei pressi di Ragusa.

Finora la polemica più vibrante si è registrata circa la data individuata per il referendum: lo scorso 15 febbraio, su proposta del Consiglio dei ministri, il presidente della Repubblica Sergio Mattarella ha fissato il referendum per il 17 aprile. In molti avevano chiesto, invece, di votare a giugno, in concomitanza con le elezioni amministrative in molte città italiane, per risparmiare sull’allestimento dei seggi. Il governo però ha declinato questa possibilità. La motivazione della scelta è stata fatta risalire al decreto 98 del 2011, che prevede la possibilità di abbinare tra loro referendum o elezioni di diverso grado ma non elezioni con referendum. Secondo l’associazione ambientalista Greenpeace, però, si tratta di “uno spreco gratuito di risorse pubbliche che sarebbe stato possibile risparmiare con l’Election Day”: “Tutto per scongiurare il quorum elettorale, svilire l’istituto referendario, avvantaggiare i petrolieri”. Perplessità sono state espresse anche da Legambiente, secondo cui “la scelta del governo di far votare gli italiani il 17 aprile comporta che i tempi per informare i cittadini sul referendum sulle trivellazioni in mare e sull’importanza del quesito siano strettissimi”.

La propaganda elettorale deve iniziare, per legge, il trentesimo giorno prima delle votazione ossia il 18 di marzo. Fino ad ora il fronte per il Si risulta essere composto da uno schieramento trasversale che va dal Movimento 5 Stelle fino a Forza Italia e Lega Nord, considerato l’endorsement di esponenti come Giovanni Toti e Luca Zaia (rispettivamente Governatori di Liguria e Veneto, regioni particolarmente interessate al tema oggetto di consultazione referendaria) , passando per Sinistra Italiana, Partito Democratico e Alternativa Libera.

Sul fronte del No, invece, il comitato “Ottimisti e Razionali” sostiene che continuare l’estrazione di gas e petrolio in Italia limiti l’inquinamento. Infatti l’Italia, estraendo sul suo territorio circa il 10% degli idrocarburi che utilizza, ha evitato negli anni il transito sulle coste italiane di centinaia di petroliere. Il fronte dei “trivellatori” ha un altro alleato: la Cgil nazionale, che si distacca quindi dalla posizione presa dalla sezione lucana del sindacato. Il segretario nazionale dei chimici della Cgil Emilio Miceli sostiene che votare No tuteli gli investimenti nel settore petrolifero e il mantenimento di migliaia di posti di lavoro. Secondo i dati, infatti, solo nella provincia di Ravenna circa settemila persone sono impiegate nel settore dell’offshore. Inoltre, anche se dovesse vincere il Sì, le estrazioni nell’Adriatico continuerebbero a essere fatte da Grecia, Croazia e Montenegro.

I sostenitori del No criticano inoltre l’aspetto politico del referendum: lungi dall’essere un mezzo legittimo con cui le Regioni chiedono maggiori sforzi nelle energie rinnovabili, il referendum sarebbe lo strumento per far pressione sul governo in seguito all’approvazione di riforme che hanno tolto loro molte autonomie e competenze, anche in materia energetica.

 

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