Acqua

Le acque del Gran Sasso minacciate da esperimenti scientifici e autostrade

30 Gennaio 2020

Percorrendo l’A24 in direzione L’Aquila-Roma, nei pressi di Isola del Gran Sasso, il paretone innevato si staglia sull’orizzonte stradale. In pochi secondi, questo muro di roccia alto circa 1600 metri, fa percepire tutta l’imponenza del massiccio più alto degli Appennini continentali. Il suo profondo acquifero (termine che indica la roccia-serbatoio sotterranea) fornisce acqua potabile a circa 700mila abruzzesi nelle province di Teramo, L’Aquila e Pescara. Metà della popolazione regionale. Mettere al sicuro quest’acqua dal rischio che possa essere inquinata dai Laboratori nazionali del Gran Sasso dell’Istituto Nazionale di Fisica Nucleare (Infn) o dal Traforo dell’A24 è il compito dell’ingegnere idraulico Corrado Gisonni, nominato dal governo Commissario straordinario per la messa in sicurezza del sistema idrico del Gran Sasso. Un compito tutt’altro che facile il suo, vista la complessità tecnica, il numero di enti pubblici e privati coinvolti e il rimpallo di competenze che tra questi va avanti da anni. «È una vicenda complicata per il fatto che ci sono tre infrastrutture strategiche (traforo, autostrada e acquedotti, ndr) che interagiscono profondamente con l’acquifero – afferma Gisonni – Sono tre strutture che hanno tutte una massima priorità, e quindi si tratterrà di coniugare la loro coesistenza all’interno di un ambiente particolare come l’acquifero».

Il paretone visto dall’autostrada A24 nei pressi di Casale S. Nicola, frazione di Isola del Gran Sasso

Diciassette anni di attesa

Della “questione Gran Sasso” si era già occupato, tra il 2003 e il 2009, l’ingegnere Angelo Balducci, nominato commisario straordinario dopo lo sversamento nel 2002 di pseudocumene dai Laboratori Infn. Durante la sua gestione furono svolti lavori al termine dei quali l’emergenza fu dichiarata superata. Tuttavia, dopo che nel 2016 e nel 2017 furono trovati nuovi inquinanti nell’acqua potabile, si è capito che questi lavori non erano stati sufficienti per garantire la sicurezza del sistema laboratori-traforo. Diclorometano, cloroformio e toluene sono le sostanze trovate dall’Agenzia regionale di tutela dell’ambiente (Arta). I primi due in concentrazioni superiori ai limiti per le acque di falda, ma inferiori per quelle potabili. Il terzo, invece, inferiore per entrambe.

Su queste contaminazioni il 13 settembre 2019 è iniziato a Teramo il processo per dieci persone tra attuali ed ex dirigenti dell’Infn e dei Laboratori, Strada dei Parchi Spa (concessionaria di A24 e A25) e Ruzzo Reti (gestore servizio idrico teramano), queste ultime due a processo anche in quanto società.

Gli imputati sono: Fernando Ferroni, presidente dell’Infn tra il 2011 e il 2019, Stefano Ragazzi, direttore dei Laboratori nazionali del Gran Sasso e Raffaele Adinolfi Falcone, responsabile del servizio ambiente dei Laboratori; Lelio Scopa, Cesare Ramadori e Igino Lai rispettivamente presidente del Cda, Amministratore delegato e direttore generale di esercizio di Strada dei Parchi; Antonio Forlini, Domenico Giambuzzi, Ezio Napolitani e Maurizio Faragalli, ex presidente, ex responsabile dell’area tecnica, responsabile dell’unità operativa di esercizio e responsabile del Servizio acquedotto di Ruzzo Reti.

In seguito al rinvio a giudizio, Strada dei Parchi, ritenendosi non competente sui reati contestati, comunicò la decisione di chiudere il traforo per evitare la reiterazione del reato. La chiusura fu poi evitata, ma il clamore mediatico spinse la Regione Abruzzo a chiedere al governo lo stato di emergenza e la nomina di un nuovo commissario. Pochi mesi dopo, a giugno 2019, la richiesta fu accolta con l’approvazione di un emendamento al decreto Sblocca cantieri (Legge 55/2019).

All’inizio dell’estate, dunque, la questione Gran Sasso sembrava a una svolta, ma la nomina del commissario, prevista nei primi giorni di luglio, è arrivata solo a metà dicembre.

Sulla risoluzione definitiva insiste da anni l’Osservatorio indipendente sull’acqua del Gran Sasso formato da Wwf, Legambiente, Mountain Wilderness, Arci, ProNatura Laga, Cittadinanzattiva, Gadit, Fiab, Cai e Italia Nostra. «Quella del Gran Sasso è una questione sottovalutata da decenni e dagli episodi del 2017 la situazione è rimasta la stessa – spiega Dante Caserta, dell’Osservatorio – Il problema è il potenziale rischio che ancora grava su una falda che fornisce acqua a metà Abruzzo perché in tutti questi anni non si è stati capaci di impermeabilizzare le strutture dei Laboratori e del traforo».

Tratto da: L. Adamoli, Il Gigante di Pietra: la storia geologica del Gran Sasso d’Italia. CARSA Edizioni, 2002, Pescara, 1-128

L’acquifero del Gran Sasso ha un’alta «vulnerabilità intrinseca all’inquinamento» ed è soggetto «a un elevato grado di rischio sismico ancora oggi sottovalutato», avverte il professor Leo Adamoli, coordinatore della sezione ambientale della Società geologica italiana.

Il pericolo di contaminazione arriva dal mancato isolamento del sistema laboratori-traforo dall’acqua che filtra dalla montagna e finisce in gran parte nei fiumi e in parte minore nell’acquedotto che corre sotto la strada delle gallerie.

Per quanto riguarda il traforo, il pericolo è dovuto a possibili sversamenti di liquidi inquinanti in caso di incidenti. A riconoscerlo è la stessa Strada dei Parchi in una memoria consegnata alle commissioni ambiente e trasporti della Camera dei deputati lo scorso 29 maggio. Ma la messa in sicurezza del traforo è uno degli aspetti che ha alimentato gli scontri tra Regione, gestori del servizio idrico e concessionaria autostradale. Strada dei Parchi, infatti, ha sempre affermato che la competenza di questi lavori fosse del Ministero delle infrastrutture e dei trasporti (Mit), proprietario della struttura, e non del concessionario. Una posizione confermata nel 2018 dallo stesso Mit che però non è mai intervenuto per proteggere l’acquifero.

Più complessa, invece, è la situazione dei Laboratori dell’Infn. In questo caso il rischio è rappresentato dalle molte sostanze chimiche utilizzate per gli esperimenti. Tra queste ci sono 1250 tonnellate di 1,2,4-trimetilbenzene, detto anche pseudocumene, e 740 tonnellate di nafta di pesante idrogenata “tipo russa”. Due sostanze utilizzate dai rilevatori di neutrini Borexino e Lvd ma entrambe infiammabili e molto tossiche. La loro presenza, sopra una certa quantità stabilita dalla “Legge Seveso 3” (D.lgs. 105/2015), rende i laboratori sotterranei uno stabilimento a rischio di incidente rilevante.

 

Ingresso al Traforo del Gran Sasso ad Assergi, sul lato aquilano 

La vicinanza delle sostanze chimiche dai punti di prelievo dell’acqua è uno dei nodi da affrontare. Intorno a questi punti l’articolo 94 del Codice dell’ambiente (D.lgs. 152/06) prevede che sia garantita una “zona di rispetto” di 200 metri all’interno dei quali non possono essere stoccate sostanze chimiche pericolose o radioattive e gestiti rifiuti. Il vincolo, in realtà, esisteva dal 1988,  ma è stato ignorato e per questo i Laboratori sotterranei non sono a norma. Applicare queste distanze alla situazione del Gran Sasso, tuttavia, non è facile. Tra la roccia e le pareti dei Laboratori non esiste un unico punto da cui viene prelevata l’acqua ma c’è, invece, una captazione diffusa. Dunque, a partire da dove si misurano questi 200 metri?

Una delle tre sale dei Laboratori nazionali sotterranei. Foto tratta dal sito www.lngs.infn.it

Esperimenti da smontare

La soluzione più semplice sarebbe quella di rimuovere tutte le sostanze chimiche ma, vista l’importanza dei progetti di ricerca in corso, non sembra possibile. In questo senso, a gennaio 2019, si era mossa la Regione Abruzzo. La giunta regionale aveva chiesto ai Laboratori di “dismettere” (decommissioning) entro il 31 dicembre 2020 gli esperimenti con sostanze oltre le soglie della legge Seveso (Borexino e Lvd) e di limitare l’uso di altri composti pericolosi.  La dismissione dello pseudocumene e della nafta consisterà nell’estrazione di questi liquidi dai contenitori degli esperimenti e nel loro trasporto all’esterno dei Laboratori. Un’operazione apparentemente semplice, ma non è così.

«Il piano di decommissioning è in fase avanzata ma lo spostamento di queste sostanze è molto delicato», spiega Ezio Previtali, ricercatore associato dell’Infn e professore di fisica nucleare e subnucleare all’Università Bicocca di Milano. «Attualmente questi liquidi sono in contenitori doppi con sistemi di sicurezza molto controllati – prosegue Previtali – Quando ci sarà la movimentazione la situazione cambierà e stiamo lavorando affinché in tutte queste procedure il rischio di sversamenti sia il più basso possibile».  In poche parole bisognerà evitare che uno dei passaggi per ridurre il pericolo di inquinamento possa trasformarsi nel suo opposto.

I due rilevatori che saranno smontati hanno partecipato ad importanti scoperte o conferme scientifiche come quella sulla velocità della luce del 2012.  La loro chiusura avrà anche un “costo” scientifico da pagare. «Borexino è il rilevatore di particelle a più alta purezza al mondo e le misure che sta svolgendo ora può farle solo questo strumento – spiega ancora Previtali – La domanda che ci si siamo posti è: se Borexino non dovesse terminare questo lavoro c’è un altro rilevatore in grado di farlo? Attualmente la risposta è no. Bisognerà immaginare, in futuro, un nuovo esperimento, forse altrove».

L’altopiano di Campo Imperatore è la principale “area di ricarica” dell’acquifero del Gran Sasso grazie alle precipitazioni

Una deroga contraddittoria

Il  decommissioning previsto non risolverà tutti i problemi. Una volta smontati Borexino e Lvd, nei Laboratori resteranno molte altre sostanze per le quali rimane il rispetto della distanza di 200 metri. Il punto è come garantire la sicurezza dell’acqua e permettere ai Laboratori dell’Infn di proseguire l’attività di ricerca senza violare la legge.  Una risposta lo Sblocca canteri l’ha trovata in una deroga, in teoria temporanea. «Da un lato il fatto che l’articolo 94 non si applica è grave perché è come se si togliesse un sistema di tutela – spiega Massimo Fraticelli dell’Osservatorio – Dall’altro, però, lo Sblocca cantieri, dice che la protezione dell’acqua deve essere garantita dai lavori che dovrà fare il commissario. È un ragionamento contraddittorio ma d’altra parte l’acqua viene prelevata in deroga da quando è in vigore il D.lgs. 152/06».

Percorso nella riserva guidala delle sorgenti del Fiume Vera

Ma c’è anche un altro aspetto non secondario da considerare. La deroga, infatti, consente “la raccolta, il trasporto e il recupero” dei rifiuti prodotti durante i lavori che dovrà avviare il commissario. Senza di essa questi interventi non potrebbero essere svolti a meno di non aggiungere un’altra violazione di legge. «C’è dunque una doppia lettura e per questo come Osservatorio siamo preoccupati – prosegue Fraticelli – Però siamo anche convinti che o c’è la messa in sicurezza o si deve abbandonare l’idea di bere quell’acqua senza rischi».

Tempi e risorse incerte

Salvo proroghe, il nuovo commissario dovrebbe restare in carica fino al 31 dicembre 2021, un termine, però, entro il quale è difficile pensare che la messa in sicurezza sarà completata. Questo sia perché sono già passati sei mesi dei tre anni previsti, sia per la complessità tecnica dei lavori. L’orientamento del neo commissario è di acquisire la documentazione fin qui prodotta ma di avviare anche una nuova fase di indagini.

Il punto, però, è capire quanto questa fase di ricerca inciderà sui tempi che ormai si misurano in anni. Gisonni, tuttavia, insiste sullo stretto legame tra informazioni e soluzioni da adottare. «Senza una buona anamnesi rischiamo di inventarci terapie che sono pannicelli caldi e non soluzioni definitive del problema, che sono invece l’obiettivo finale della gestione commissariale». Sui tempi, inoltre, incombe anche il rischio che i fondi non siano sufficienti. La Regione Abruzzo, infatti, ha calcolato che servirebbero quasi 172milioni di euro: 53 per gli acquedotti, 104,3 per il traforo e 14,6 milioni per i laboratori.  Le risorse stanziate dallo “sblocca cantieri”, invece, sono 120 milioni di euro per tre anni. Ben 52 milioni in meno rispetto a quanto previsto dalla Regione.

Ma sui fondi il commissario non si sbilancia. «Solo una volta avuto il quadro completo della situazione si potrà fare una valutazione meno “spannometrica” degli importi necessari», spiega Gisonni.

Il paragone con i lavori svolti dal precedente commissario, tuttavia, fa pensare che il problema dei fondi prima o poi verrà fuori. In quell’occasione per impermeabilizzare e isolare meno di due chilometri di traforo e una parte dei Laboratori nazionali furono spesi circa 34 degli 84 milioni di euro a disposizione.  

 

Alcune iniziative dell’Osservatorio indipendente sull’acqua del Gran Sasso

Per l’acqua trasparente e non solo

Il carattere straordinario del commissariamento preoccupa l’Osservatorio che teme un’ulteriore riduzione della partecipazione come era accaduto durante la gestione Balducci. Ma a non essere sensibile alla società civile è stata anche la Regione Abruzzo, la quale avrebbe dovuto valutare, con un’apposita commissione tecnica, l’efficacia degli interventi svolti. Per questo, l’Osservatorio aveva chiesto, a maggio 2019, di “evitare il modello del commissariamento del 2003” . «Fin dall’inizio della discussione sull’emendamento allo Sblocca cantieri abbiamo chiesto che con il nuovo commissario ci fosse l’occasione per avere trasparenza e partecipazione, ma questo non è stato colto», spiega Caserta. Lo strumento in teoria ci sarebbe: la “cabina di coordinamento” con “compiti di comunicazione ed informazione nei confronti delle popolazioni interessate”. Quest’organo sarà presieduto dal presidente della Regione e ne faranno parte le principali istituzioni del territorio ma non la società civile. Ora che la nomina del commissario è arrivata, l’Osservatorio rilancia la richiesta alla Regione di far partecipare un loro rappresentante.

Il timore dell’Osservatorio, invece, è che si possa ripetere quanto accaduto tra il 2016 e 2017, quando si è scoperto solo dopo anni che i precedenti lavori erano parziali e inadeguati. L’esigenza di conoscere quanto sta accadendo riguarda anche il processo iniziato a settembre e per il quale quattro associazioni dell’Osservatorio (Wwf, Legambiente, Cai e Cittadinanzattiva) hanno chiesto di costituirsi come parte civile. «L’aspetto penale è certamente importante dal punto di vista giuridico e dei reati ambientali contestati – prosegue Fraticelli – Ma abbiamo chiesto di costituirci come parte civile anche per seguire direttamente l’andamento del processo e per avere accesso ai documenti che verranno prodotti».

Il corso del fiume Vera che nasce dalle sorgenti alle pendici del versante aquilano del Gran Sasso

Analisi, sonde e crostacei

Nella lunga attesa che il traforo e i Laboratori siano messi in sicurezza, gli enti coinvolti nella gestione dell’acqua devono garantirne la sicurezza con attività aggiuntive rispetto a quelle ordinarie svolte dall’Arta e dalle Asl.

Dopo le ultime contaminazioni è stato necessario aumentare il livello di sorveglianza. «Dal giugno 2018 l’Arta si è dotata di un gruppo di pronto intervento, composto da un dirigente e due addetti, per 365 giorni l’anno, 24 ore su 24, che interviene su incendi e acque potabili – spiega Francesco Chiavaroli, presidente di Arta Abruzzo». Nel 2018 sono stati 1.325 prelievi in provincia di Teramo. «In questo modo riusciamo ad essere sul posto dell’emergenza in poco tempo. Se ci dovesse essere un incidente o un imprevisto nelle gallerie o nei laboratori c’è la nostra disponibilità a raggiungere il prima possibile il luogo dove si è verificato il problema e raccogliere i campioni da analizzare».

Il report delle analisi dei campioni di effettuato dai laboratori dell’Arta. In base a quello dell’11 maggio 2017 l’acqua non fu dichiarata potabile per circa 12 ore

A questo si aggiunge il controllo interno del gestore del servizio idrico. «Abbiamo un gascromatografo e tre sonde che misurano in continuo le sostanze chimiche tarate alla metà dei valori stabiliti dalla legge e per questo più sensibili – spiega Alessia Cognitti, presidente di Ruzzo Reti dal dicembre 2018 – Se una di queste capta qualcosa, l’acqua automaticamente non entra nella rete idrica». Una sonda simile, inoltre, è in uso anche presso i Laboratori nazionali del Gran Sasso-Infn. Di recente, la Ruzzo ha avviato, in collaborazione con l’Istituto zooprofilattico di Teramo, un progetto sperimentale di monitoraggio biologico con l’utilizzo di un crostaceo molto sensibile all’inquinamento.

Ma tutto questo ha un costo. «Ruzzo Reti spende quasi 3 milioni l’anno per la sicurezza dell’acqua a causa del rischio Gran Sasso  e sono gli utenti con le loro bollette a pagare i controlli che ovviamente sono sacrosanti. La questione, però, invece dovrebbe essere affrontata ad un altro livello istituzionale», evidenzia Cognitti. In teoria questo sistema di controlli dovrebbe impedire, in caso di grave contaminazione, che l’acqua inquinata arrivi direttamente nei rubinetti ma non potrebbe evitare una grave emergenza idrica e ambientale per migliaia di persone.

Il torrente Mavone nel punto in cui attraversa Casale S. Nicola. Qui, il 16 agosto 2002, fu avvistato lo sversamento di pseudcumene dai Laboratori Infn

L’acqua potabile non è l’unica risorsa naturale a dovere essere protetta. «Una questione importante è quella delle acque provenienti dalla zona dei Laboratori nazionali attualmente messe a scarico ­– spiega Giorgio Giannella dell’Osservatorio – Oltre alla perdita di 100 litri al secondo, bisogna considerare il fatto che in caso di inquinamento l’acqua non finisce nell’acquedotto ma arriva comunque nei fiumi che si trovano in un sito di interesse comunitario e in un’area protetta dal Parco nazionale del Gran Sasso». Il problema – spiega l’ingegnere Gennaro Pirocchi dell’ufficio tecnico dell’Ente parco – è stato sollevato nella conferenza dei servizi per il rinnovo dell’autorizzazione allo scarico delle acque reflue dei Laboratori nazionali. «A tutela dell’ambiente fluviale del bacino del Mavone, abbiamo chiesto l’attivazione di un monitoraggio ambientale costante dei corsi d’acqua potenzialmente impattati da condurre in collaborazione con l’Arta Abruzzo». L’obiettivo è individuare misure di «mitigazione» del rischio da adottare in risposta ad eventuali incidenti. Azioni, dunque, più di controllo che preventive, tanto che, secondo Pirocchi, resta «urgente e imprescindibile» la completa e definitiva impermeabilizzazione.

Scienza, ambiente e territorio: un rapporto complicato

Il rapporto tra l’attività dell’Infn, la difesa dell’ambiente e la mobilità in questi anni è stato difficile e a tratti conflittuale. La convivenza tra tutte queste esigenze è complicata ma possibile. «Non mettiamo in dubbio l’importanza dei Laboratori nazionali del Gran Sasso e non ne chiediamo la chiusura – spiega Fraticelli dell’Osservatorio – Vogliamo tenere insieme il diritto all’acqua e un ambiente sicuri con la ricerca scientifica. Ma deve essere chiaro che i Laboratori devono cambiare il modo di lavorare in un posto non  normale come l’acquifero».

La sensazione, spesso diffusa sul territorio, é che dall’attività dei Laboratori restino solo i problemi. Secondo il professor Previtali, invece, dei vantaggi ci sono e vanno dalla formazione, ai progetti di trasferimento tecnologico fino al coinvolgimento di molte aziende locali. «C’è un problema però che non disconosco – ammette Previtali – Gli effetti sono un po’ diversi tra il versante aquilano e quello teramano. Su quest’ultimo c’è un impatto minore perché i laboratori esterni sono sul lato aquilano. Sicuramente, come Infn abbiamo la responsabilità di integrarci in modo migliore».

Per chi vive sul territorio, la “questione Gran Sasso” si aggiunge ai problemi che un comune dell’entroterra affronta ogni giorno. «Siamo alle prese con lo spopolamento, il dissesto idrogeologico, i problemi alla viabilità e i danni del terremoto e il sospetto che l’acqua possa essere inquinata di certo non ci aiuta. Per questo il problema va risolto il prima possibile e la domanda se l’acqua sia sicura o meno deve scomparire dall’immaginario collettivo», racconta Roberto Di Marco, sindaco di Isola del Gran Sasso. Una richiesta, quella che arriva dal territorio e dalla società civile, alla quale il commissario Gisonni dovrà dare una risposta entro i prossimi tre anni. Anzi due, visto che il primo è già passato: invano.

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