Società
“Vivi e lascia vivere”, o l’insostenibile inattendibilità delle fiction
C’era una volta una bella città, pulita e ordinata; sorgeva ai piedi di un vulcano e si affacciava sul mare. Le sue case avevano vivaci colori pastello, vi era tanto verde ed era sempre estate – anche a Natale. Il suo nome era Napoli.
In questa città viveva una famiglia piuttosto sfortunata: una madre che doveva provvedere a tre figli adolescenti; il padre imbarcato, che mancava da mesi e nel frattempo aveva messo su un’altra famiglia in un’isola lontana, perciò la moglie abbandonata, per ripicca, lo aveva dato per morto: si erano celebrati anche i funerali (pur in assenza del certificato di morte). La famiglia senza padre viveva in un ampio appartamento con affaccio su giardino. La povera madre si affaticava come cuoca in una mensa aziendale e a malapena riusciva a sostenere tutte le spese della famiglia, fino a quando decise di avviare una piccola impresa di ristorazione con l’aiuto di altre donne disperate come lei. Nel laboratorio della loro impresa adesso lavoravano in cinque alla preparazione di originali manicaretti, indossando guanti e grembiule da cucina (ma senza alcuna protezione per i capelli, probabilmente per non guastare le acconciature).
I ragazzi studiavano tutti e tre: la più grande in procinto di prendere la laurea; i due più piccoli in un liceo dove si entrava liberamente quando non si aveva altro di meglio da fare, mentre il frinire dei grilli (perché in quella città era sempre estate) copriva il suono stridulo della campanella scolastica.
Quella madre combattiva ritrovò una sua vecchia fiamma, esattamente come l’aveva lasciata: un piacente delinquente al cui fascino, ora come allora trent’anni prima, non riesce a resistere. È il trionfo dell’amore: ama la madre, amano i figli… Chi più esperta, chi alle prime esperienze: la figlia più grande con un uomo che aveva tentato di violentarla; la sorella con uno psicopatico che fino a qualche istante prima la stalkerava; il ragazzo con una compagna d’allenamento (la quale lo aveva già fatto con un amico giusto perché nella sua classe lo avevano fatto tutti e lei non voleva essere da meno…). E mentre il maschio provava per la prima volta i piaceri dell’amore nella ricca casa della sua ragazza minorenne (dove i genitori non c’erano mai), al contempo si sentiva irresistibilmente attratto dal fratello di lei scoprendo, così, la sua omosessualità.
E se tutto questo non bastasse per attirare il pubblico, ecco un sistematico “gioco dei rovesciamenti” (dei luoghi comuni): il ragazzo si dà al nuoto sincronizzato in coincidenza con la scoperta della sua omosessualità; l’amico gay, per contrappasso, pratica la boxe; la sorella, prima della classe, passa il tempo a rubare nei centri commerciali; il “cattivo” non ha le fattezze brutali cui ci ha abituati Gomorra (troppo scontato!), ma è una misteriosa ed elegante donna di mezz’età…
E così in un avvicendarsi di colpacci di scena è andata avanti la favola bella (non è mancato il lieto fine intorno a una ricca tavolata dove tutti si sono riconciliati sullo sfondo di un improbabile albero di Natale) di Vivi e lascia vivere, interminabile fiction trasmessa da Rai 1 per la regia di Pappi Corsicato. È vero, le fiction per loro natura intrinseca non si prestano a sceneggiature particolarmente curate: l’intreccio deve “acchiappare” lo spettatore, tutto il resto (il contorno, i dettagli) “è noia” – si potrebbe cantare – cioè approssimazione, bizzarria, inattendibilità… Però, tanto più l’intreccio funziona, tanto meno lo sguardo dello spettatore si soffermerà su quei dettagli poco curati. E da una firma raffinata come quella di Corsicato ci si sarebbe aspettato qualcosa di meglio: una trama più convincente e molte banalità in meno.
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