Costume

Vietare il burkini, e se fosse una questione di snobismo?

18 Agosto 2016

Leggevo soltanto due giorni fa un interessante articolo di Oliver Burkeman, pubblicato da Internazionale e tradotto da Bruna Tortorella, sul libero arbitrio. Lo leggevo un giorno prima della polemica sul chiacchieratissimo burkini, costume da bagno (in regola con presunte norme islamiche) indossato dalle donne musulmane in spiaggia. Peraltro Burkini è un marchio registrato dall’azienda australiana Ahiida e come ci precisa Ansa ha un prezzo che varia dagli 80 ai 150 euro (chiaramente dipende dal modello). Si sa, i dettagli sono importanti.

Il messaggio che ci restituiscono giornali e social network è che vietando un comportamento, e quindi l’uso del costume in questione, si difenda la libertà di comportamento stessa, delle donne soprattutto. Un bel paradosso quello di vietare per liberare.

La polemica attuale ha preso piede dalle parole del ministro francese Valls, che in un’intervista al quotidiano La Provence, afferma che questo tipo di abbigliamento «è incompatibile con i valori della Francia e della Repubblica», e che è condivisibile la scelta di alcuni primi cittadini «in questo momento di tensione» di vietare il burkini. Parole queste ultime che mi hanno rimandata alla rilettura dell’articolo di Burkeman.

Nel suo nuovo libro, Invisible influence, – scrive il giornalista del Guardian– Jonah Berger sostiene che il 99,9 per cento delle nostre scelte è condizionato in modo significativo da forze esterne di cui non siamo consapevoli. Scegliamo brani musicali e romanzi, vestiti e mestieri, perché lo ha fatto qualcun altro. Oppure scegliamo di fare l’opposto per dimostrare che non siamo come loro: fenomeno che gli esperti di marketing chiamano “effetto snobismo”.

Lasciando da parte per un attimo il delicatissimo discorso che riguarda l’autodeterminazione della donna e che spinge presunte femministe all’affermare paradossalmente che imporre una regola d’abbigliamento sia una soluzione giusta e di sinistra per la liberazione femminile, mi domando se in un mondo in cui il nemico da combattere è Daesh e in cui tutto ciò che rappresenta simbolicamente o meno l’Islam viene spesso strumentalizzato e confuso con il radicalismo religioso l’unico strumento che abbiamo noi occidentali sia quindi quello di vietare per dimostrare che non siamo “come loro”.

Vietiamo i burkini (anche a quelle donne, poche o tante, che scelgono liberamente condizionate – come tutte – di indossarlo), rendiamo spesso impossibile lo stabilirsi di regolari luoghi di culto quali le moschee, facendo di tutto affinché non vengano costruite nelle nostre città. Neghiamo pertanto l’idea che l’Islam sia e possa essere diverso da quello radicale, dimenticando le sfumature, la complessità, prestandoci ad un gioco che va nella direzione contraria alla tanto discussa integrazione. Gridiamo “agli altri” che il burkini «è la traduzione di un progetto politico, di contro società, basata in particolare sull’asservimento della donna», proponendo o appoggiando soluzioni basate sull’asservimento al nostro modo di pensare, vestire, credere. Ecco, forse soffriamo di un fortissimo “effetto snobismo”, ma negare un pezzettino di libertà agli altri, anche se non corrisponde al nostro modo di viverla e sentirla, non ne restituirà ancora di più a noi.

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