Cibo

Viaggiare senza uscire da Milano: al Lac storie e cibi da tutto il mondo

25 Ottobre 2021

Al Laboratorio di Antropologia del cibo, nel cuore di Giambellino, è meglio arrivare in anticipo: la lezione comincerebbe alle otto ma se si arriva prima ci si imbatte in chiacchiere e aperitivo in atto, una sigaretta nel cortile o un’occhiata alla piccola biblioteca allestita in un garage di fianco.
Poi comincia la lezione, si sta tutti intorno a un grande tavolo, l’insegnante cucina, spiega, si racconta e racconta un po’ del suo paese e della sua storia. Chi vuole può alzarsi e dare una mano, tagliare, pulire, condire; chi preferisce è libero di stare a guardare, domandare e chiacchierare. Intanto si sorseggia del vino, e man mano si assaggiano i tacos o le empanadas che escono dalle padelle sfrigolanti.
Fra i partecipanti, a volte qualche addetto ai lavori, poi soprattutto appassionati. Ci si concentra su una ricetta, ogni cosa viene spiegata, la lezione è alla portata di tutti. E soprattutto un’occasione per conoscere persone e mondi, oltre che sapori.

Giulia Ubaldi, 31 anni, di formazione antropologa, ha iniziato a lavorare a quest’idea nel pieno della pandemia, ci è voluto quasi un anno e finalmente il 20 settembre l’esperimento è partito.
30 corsi, 35 insegnanti (alcuni viaggiano in coppia) e ricette da 25 paesi diversi: dall’Argentina alle Filippine, dalle Mauritius all’Indonesia, lo Yemen e il Vietnam, l’Armenia e i Balcani ma anche il risotto meneghino e il Cilento. Il Cilento perché da lì in qualche modo è partito tutto. Giulia racconta di averci passato quattro anni, fra un’azienda agricola e l’altra. Partita inizialmente per fare ricerca tesi come il protagonista dell’ultimo libro di Mathias Enard, non è riuscita ad andar via e proprio come David nel Banchetto annuale della confraternita dei becchini per qualche tempo è diventata agricoltrice. Fin da allora ha cominciato a scrivere di gastronomia e a raccontare il cibo in chiave antropologica.

Molte delle persone che ha intervistato per i suoi articoli, quelle che più l’hanno colpita e con cui è rimasta in contatto, ora portano la propria esperienza al Lac, e una volta ogni quindici giorni cucinano e insegnano le loro ricette.
Nel frattempo ha scoperto “Migrateful”, una scuola di Londra in cui i migranti potevano essere accolti, imparare la lingua e insegnare la loro cucina. Da lì è venuta l’ispirazione.
Al Lac non si insegna l’italiano e non è un posto riservato ai migranti. Eppure si può parlare di integrazione. “Gli chef, infatti, sono persone varie con qualifiche differenti: migranti di prima, seconda e terza generazione; rifugiati e richiedenti asilo; home chef, ristoratori e cuochi professionisti; badanti, musicisti, casalinghe, artisti. Tutti sono accomunati da una profonda passione per la cucina e dalla voglia di trasmetterla, cioè di farsi portavoce dei loro luoghi d’origine e dei piatti di casa, quella veri, autentici, del cuore”, spiega Giulia nel suo sito.
Ci sono per esempio Enrica e Miguel, che si sono conosciuti in Argentina: lei era vegetariana, lui amante delle empanadas di carne e hanno trovato ricette nuove per venirsi incontro; c’è Selin che viene da Istanbul, ha sempre amato cucinare ma si è trasferita a Milano per studiare alla Marangoni e si occupa principalmente di moda e abbigliamento; e c’è Anna, indonesiana, che ha iniziato a cucinare proprio quando si è trasferita in Italia per ritrovare i sapori di casa, per poi ritrovarsi a lavorare al padiglione indonesiano dell’Expo.

Un luogo di incontro, insomma, fra mondi, provenienze e cucine diverse: non per niente sorge in un quartiere che fonda la propria identità sullo scambio, l’associazionismo e l’immigrazione, e forse sarà interessante proprio portare lì, in quella zona e in quella situazione di apertura e incontro, un pubblico che arriva da altre parti di Milano.

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