Società
Verso la società della sanzione. Addio alla società aperta?
Una società del no, non è una società aperta. Non sto parlando del passato,ma del futuro possibile. Non auspicabile, ma possibile.
Ha scritto Gianfranco Pasquino, su “Domani” di domenica 26 giugno 2022 che gli Stati Uniti da democrazia maggioritaria sono diventati democrazia minoritaria. È un tema centrale nell’agenda politica di questo nostro tempo.
Uno degli angoli da cui guardare questa metamorfosi è la cancel culture.
Che cosa ci portiamo a casa se buttiamo via il passato? Vista da questo lato la cancel culture, scrive Costanza Rizzacasa d’Orsogna, si presenta come un handicap più che un atto liberatorio, o un percorso emancipativo. E lo è, continua Costanza Rizzacasa d’Orsogna, perchè al di sotto del suo paradigma culturale sta una precisa macchina politica che distingue fra destra e sinistra, fra autoritari e democratici e che in questo gioco favorisce decisamente il paradigma culturale di destra.
La destra, infatti, in questo nostro tempo semplicemente fonda il suo paradigma politico nel dichiarare che non ha più fiducia nelle leggi generali (a meno che quelle leggi non siano le sue) e dunque che non ha alcuna intenzione di legittimare il governo, perché legittimarlo implicherebbe riconoscere una autorità a cui rendere conto.
Per contro la sinistra, lontano da contrastare efficacemente questo paradigma politico, crede di bypassarlo semplicemente consumandosi in conflitti interni sull’identità.
Risultato: mentre la prima fa politica, la seconda parla a se stessa con la testa ripiegata a guardare la propria pancia. Un tempo con il linguaggio degli anni ’70 si sarebbe detto fa autocoscienza.
Conseguenza o dimostrazione di questo continuo conflitto volto a perfezionare l’identità è la discussione su ciò che è da eliminare in nome di un discorso generale.
Ernest Hemingway, Mark Twain, Harper Lee. Cancelliamoli tutti. Cancelliamo Philip Roth, intollerabilmente misogino. Ma anche Omero, Aristotele, Platone. Sono solo alcuni nomi e opere letterarie probabilmente a fine corsa, se il processo in corso andrà avanti. Riguarda la discussione attualmente in corso negli Stati Uniti. Ma nemmeno noi ne siamo immuni: qualcuno si ricorda la discussione sul corso di letteratura russa che Paolo Nori avrebbe dovuto tenere all’Università di Milano Bicocca?
Uno dei rischi della cancel culture, scrive Costanza Rizzacasa d’Orsogna è di ripetere il tragitto già percorso dall’espressione political correctness: se ne gli anni ’80 – ’90 “comunicava un sincero desiderio di rispetto della diversità” , poi nel tempo questa condizione di è trasformata radicalmente fino a divenire una parola e un’immagine evocata dai suoi oppositori come ridicolizzazione di un concetto, trasformandosi in retorica del risentimento.
Perché questa metamorfosi che, appunto, non è la prima volta che si verifica, si sta ripetendo nel caso della “cancel Culture”? O meglio: che cosa non funziona nella sua struttura argomentativa?
Per comprenderlo Costanza Rizzacasa d’Orsogna ci propone un lungo percorso nell’ America al tempo presente, delle trasformazioni che l’hanno attraversata e scavata a fondo almeno nell’ultimo decennio.
Ma soprattutto ci invita a fare i conti con un lungo percorso che rischia non solo di non essere più salvaguardato, ma soprattutto di essere dimenticato
Provo a riassumerlo.
“The pure products of America go crazy”. È il verso di apertura di To Elsie che William Carlos Williams compone esattamente un secolo fa, all’inizio del 1923.
Forse non sarebbe male riprenderli in mano oggi, anche attraverso la mediazione che una trentina d’anni fa ne fece James Clifford che proprio da quei versi partiva per ripensare percorsi di intercultura e non semplicemente di coabitazione multiculturale tra gruppi umani abitanti lo stesso luogo ma volti a delimitare i proprie spazi da non invadere dagli altri in nome dell’unica possibilità di co-presenza.
Trenta anni dopo, la sfida proposta da Clifford ha sostanzialmente perso, Non perché la multiculturalità non esista, ma perché è diventata balcanizzazione culturale.
Nel processo riflessivo intorno alla categoria di appartenenza – cui peraltro si richiama il concetto e la pratica dell’identità – è significativo come nel corso del Novecento si consumi per intero una parabola. All’inizio del secolo è George Simmel che sottolinea la possibilità di una molteplicità di dati che definiscono i gruppi di riferimento e di appartenenza e le molte coordinate di definizione dell’individuo tanto da accentuarne la singolarità e l’individualità. Alla fine dello stesso secolo la questione dell’identità e dell’appartenenza divengono estremamente problematiche: dalle osservazioni proposte da Michel Foucault a proposito della questione del genere e della sessualità, al tema dell’intercultura ( e non semplicemente della multiculturalità), sottolineato nei primi anni ’90 da James Clifford.
A partire dal tema della molteplicità sovrapponibile dell’identità, delle dinamiche dell’ibridismo, della sovrapposizione di codici, linguaggi, oggetti, stili, Clifford dimostrava che la questione dell’identità/appartenenza cessava di essere un dato di fatto per divenire un processo acquisitivo, all’interno di una procedura storicamente configurabile e descrivibile. In breve l’appartenenza e l’identità, due percorsi spesso sovrapponibili, assunti come elementi di stabilità, non solo hanno una loro storicità ma vivono essenzialmente di soggettività.
Dunque lungo il ’900 il tema era superare le proprie specificità, costruire in nome di un patto di futuro una nuova sintesi che tenesse insieme, ma anche superasse le identità specifiche e proponesse un discorso aperto.
Qualcosa, invece è successo a partire dagli ’90 per poi scoppiar e cambiare radicalmente l’agenda politica e culturale delle realtà multiculturali che tentavano o almeno si ripromettevano di aprire un discorso di “scambio”.
Tutto falso è stato detto, la cultura della propria individualità, della propria identità è diventata il canone fondativo per fondare un nuovo format culturale volto a definire il campo di ciò che non si può dire/fare/ pensare per produrre società rispettosa dell’altro.
Il risultato, osserva Costanza Rizzacasa d’Orsogna, è una società della sanzione. Appunto. Una società del no, anziché una società aperta.
È il profilo del nostro presente.
Una balcanizzazione arrabbiata in nome di un discorso universalistico che ogni gruppo culturale – barricato a casa sua – sa solo guardare il mondo specchiandosi e irritandosi di non essere «il centro» sotto la falsa immagine di pretendere rispetto e con ciò pensando che solo per questo, di essere pluralista. In realtà il suo sguardo di prospettiva è la rivendicazione del proprio suprematismo culturale. Da confermare se in precedenza rappresentava il governo della cosa pubblica o, semplicemente, rovesciando il paradigma precedente in cui giocava il ruolo di subordinato e dunque di subalterno, esponendo le ragioni della propria condizione di vittima, ma senza distruggere i meccanismi del dominio di cui ora chiede di essere il gestore unico e senza opposizioni.
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