Università

Università italiana, si laurei chi può

10 Luglio 2015

Diritto allo studio,  didattica, internazionalizzazione, rapporto con il mondo del lavoro. Sono gli argomenti sui quali si focalizzano le  cento pagine del Rapporto 2015 sulla condizione degli universitari in Italia, realizzato dal Csnu, il Consiglio nazionale degli studenti degli atenei italiani, l’organo consultivo di rappresentanza degli studenti iscritti ai corsi attivati nelle università italiane (di laurea, di laurea specialistica,  di specializzazione e di dottorato), il cui compito istituzionale è quello di formulare pareri e proposte al Ministro dell’istruzione,università e ricerca.

Il quadro che ne emerge, specie quando comparato con la situazione delle università estere, non è incoraggiante: l il documento fornisce una descrizione approfondita di un sistema universitario in forte crisi in molti settori.

IL DIRITTO (NEGATO) ALLO STUDIO

Nel confronto con il resto dei Paesi europei,  i fondi destinati al sistema universitario sono talmente bassi che l’Italia ricopre gli ultimi posti in varie statistiche. Il sotto-finanziamento del sistema negli ultimi anni ha causato un calo di immatricolati e di iscritti complessivi. Un trend negativo cominciato nel 2010 e che non accenna a invertire la rotta.

Il diritto alla studio, che dovrebbe essere garantito per tutti, si incaglia nella figura dello studente “idoneo non beneficiario” (una figura che esiste solo in Italia), cioè lo studente che pur rientrando a tutti gli effetti nei requisiti di reddito e di merito per ricevere sostegno da parte dello Stato (sotto forma di borsa di studio, alloggio, servizio mensa gratuito e contributi relativi a materiale didattico e trasporti), a causa dei numerosi de-finanziamenti al sistema universitario e alle Regioni non ha accesso a tali incentivi.

Molti di questi studenti, pertanto, denuncia il rapporto Csnu, sono costretti a rinunciare al percorso universitario oppure a dover provvedere autonomamente al proprio sostentamento attraverso lavori part-time o addirittura in nero.

Il Rapporto evidenzia, inoltre,  come ancora oggi il sistema di diritto allo studio, delegato alle Regioni, veda una forte disparità di trattamento da regione a regione. Questo perché il livello di erogazione e la qualità dei servizi inerenti al diritto allo studio dipendono non solo dai fondi stanziati dallo Stato (la cosiddetta quota “FIS”), ma in larga parte da risorse interne delle Regioni e dalla capacità contributiva degli studenti stessi (attraverso la tassa regionale). L’attuale sistema di finanziamento in diversi casi non permette di coprire la totalità degli studenti idonei.

Il confronto con altre realtà europee è impietoso: nonostante la crisi, in Spagna, Germania a Francia è aumentato il numero di borsisti; al contrario in Italia, negli ultimi anni, c’è stato un decremento sia dei borsisti sia della già limitata platea di idonei. Il nostro Paese si attesta all’ultimo posto per estensione dei meccanismi di sostegno allo studio rispetto alla totalità degli studenti iscritti alle università (al primo posto l’Olanda). Conseguenza, secondo il Csnu, anche di criteri di merito sempre più restrittivi.

Lo Stato finanzia gli interventi per il diritto allo studio tramite il Fondo Integrativo Statale (FIS) nelle varie regioni italiane. L’ammontare annuo non è stabilito sulla base del fabbisogno, ma in relazione allo “storico” ed alla
situazione contingente del momento.
Negli ultimi 4 anni i fondi propri regionali sono vertiginosamente diminuiti mentre le tasse regionali, pagate direttamente dagli studenti, hanno visto un aumento costatante. Il fondo integrativo, dopo aver avuto un picco nel 2011/2012 si è stabilizzato a 150 mln, stessa cifra stanziata anche nel 2013/2014 e ipotizzabile nel 2014/2015.

STUDENTI SEMPRE PiU’  STANZIALI

Gli universitari italiani tendono a mettere in atto strategie di contenimento delle spese, rimanendo in famiglia ed essere pendolari per raggiungere la sede di studio.
Il pendolarismo è in aumento e riguarda soprattutto gli studenti in condizioni socio-economiche svantaggiate (i pendolari sono infatti passati dal 41% del totale studenti del 2000, al 51% del 2009).
Si dilata la tendenza a non allontanarsi da casa, a studiare nella sede più vicina, quale che sia l’offerta formativa disponibile, spesso perfino nella prosecuzione degli studi, oltre il primo livello. A frenare questo tipo di mobilità territoriale concorrono anche i costi, spesso insostenibili per le famiglie. Nel 2011, 49 laureati su 100 sono “stanziali”, ovvero hanno concluso il percorso di studi universitari nella stessa provincia in cui hanno ottenuto il diploma.

Per chi opta per una soluzione abitativa nella città in cui ha sede l’ateneo,, la soluzione sono le residenze universitarie. Rapportando il numero complessivo di posti letto – comprendente quelli gestiti dagli atenei e dagli enti regionali, e quelli dei collegi statali e legalmente riconosciuti – agli iscritti regolari,queste costituiscono una soluzione abitativa per circa il 4% degli studenti in corso. La situazione è critica soprattutto nelle regioni meridionali (ad esclusione della Calabria), e in particolare in Molise, Abruzzo e Campania, dove la percentuale di copertura è pari o inferiore all’1%, e nel Lazio (1,7%), mentre le Province di Bolzano e di Trento e le Marche si confermano realtà virtuose poichè “ospitano”, rispettivamente, il 33,4%, l’11,6% e il 10,8% di studenti iscritti in corso.

STUDIARE IN ITALIA COSTA DI PIU’

Le tasse universitarie in Italia risultano più basse rispetto a quelle dei Paesi anglosassoni ma più elevate rispetto ai paesi dell’Europa centro-settentrionale (in molti dei quali non viene richiesto alcun contributo agli studenti).
Negli ultimi 10 anni le tasse universitarie in Italia sono cresciute del 63% parallelamente ad una significativa riduzione di numero di iscrizioni all’università (-17% nello stesso decennio). L’aumento della contribuzione studentesca si è accompagnata alla progressiva riduzione del Fondo di Finanziamento Ordinario (FFO) che in molti casi ha portato gli Atenei a compensare la contrazione delle risorse statali con maggiori oneri a carico degli iscritti: di conseguenza le tasse non rappresentano più una fonte di finanziamento secondaria ma sono divenute in molti casi un’entrata vitale per i bilanci delle Università italiane.
Il livello medio delle tasse di iscrizione nelle università statali era nell’anno accademico. 2011/2012 pari a 1.018 euro. Gli importi erano pari in media a circa 1.350 euro negli atenei del Nord, circa 950 euro in quelli del Centro, 716 in quelli del Sud e 656 nelle Isole; la differenza tra i livelli medi delle tasse  incide in modo rilevante nel differenziale nelle entrate tra gli atenei del Mezzogiorno e quelli del Nord. L’incidenza degli studenti esonerati dal pagamento della tassa di iscrizione è di circa il 15% nel Mezzogiorno contro il 10% al Nord e il 9% al Centro.

Gli importi delle tasse ed il numero di idonei ai benefici del diritto allo studio sono legati alle condizioni di reddito delle varie regioni ed alla capacità contributiva di studenti e famiglie, per cui esistono  differenze profonde tra i livelli medi di tassazione: gli Atenei del Nord oscillano tra i valori massimi dell’Università IUAV di Venezia (1.782,25) e del Politecnico di Milano (1.711,08) a quelli minimi delle Università di Parma (953,87) o del Piemonte Orientale (946,68); al Centro la cifra massima dell’Università di Urbino (1.659,33) è estremamente distante da quella minima dell’Università di Teramo (575,94); al Sud accanto ad Atenei con importi medi molto bassi come Palermo (472,22) o Potenza (436,14) ve ne sono altre con dati più simili a quelli degli Atenei del Nord come la Seconda Università degli studi (964,62).

Un altro elemento non omogeneo nella contribuzione studentesca è l’ammontare della prima rata delle tasse, che vede forti disparità tra Atenei che richiedono importi molto elevati (es. IUAV 1.003-1.140) ed altri che hanno fortemente ridotto tale cifra (Politecnico di Torino 198,39 per le matricole). Soprattutto per gli iscritti ai primi anni un importo troppo elevato della prima rata può costituire un ostacolo importante all’avvio del percorso universitario e rappresenta un elemento di discriminazione che acuisce ulteriormente le disparità di condizioni di partenza: il
meccanismo di rimborso della prima rata per i borsisti (vincitori ed idonei non beneficiari) presenta forti limiti e spesso costringe tali studenti ad anticipare somme ingenti ed attendere anche molti mesi prima di poterle ottenere nuovamente.

SI TORNA ALL’UNIVERSITA’ DI ELITE?

Un altro passaggio molto interessante del Rapporto è quello del passaggio dalla scuola all’università.  Tra gli immatricolati si osservano grandi differenze in termini numerici tra i diplomati di liceo e coloro che sono in possesso di un diploma tecnico o professionale. Stando ai dati dell’anagrafe studenti, tali divisioni, già presenti nel primo anno i cui dati sono disponibili (2003), si sono fortemente acuite nel corso degli anni fino ad arrivare agli ultimi dati disponibili (del 2013) i quali evidenziano come circa la metà dei laureati abbia conseguito la maturità classica o scientifica: nel 2013 la percentuale di matricole provenienti dai licei è stata del 60% (rispetto al 47% di dieci anni prima), quella da istituti tecnici del 22% (era del 30% nel 2003).

ATENEI ITALIANI FUORI CLASSIFICA

Secondo l’Academic Ranking of World Universities 2013 o la QS World University Rankings 2013/2014, che decretano
entrambi la netta supremazia degli Atenei statunitensi e, allo stesso tempo, l’ottimo posizionamento di alcune Università della Gran Bretagna tra le prime 10, l’Italia ancora non riesce a far classificare nessuno dei suoi Atenei tra i cento migliori al mondo ma rientra solo nelle “top 200”.

DISTANTE DAL MONDO DEL LAVORO 

I giovani italiani, laureati inclusi, incontrano difficoltà maggiori che in altri Paesi, a entrare nel mondo del lavoro.  La quota di occupati nelle professioni ad alta specializzazione, sembra essersi stabilizzata verso il basso (Cammelli, 2012a). I dati fotografano una situazione sempre più difficile e, al netto di alcuni esempi positivi, gli atenei mettono in pratica
sempre più raramente politiche concrete di orientamento e collegamento tra il mondo didattico e quello del lavoro. Nell’intero arco della vita lavorativa, i laureati hanno presentato un tasso di occupazione di 13 punti percentuali maggiore rispetto ai diplomati (76 contro 63%).

Scarica il Rapporto

 

 

 

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