Università
Università gratis per tutti?
La proposta di Pietro Grasso di abolire le tasse universitarie “per tutti” ha provocato diverse reazioni polemiche da parte di esponenti del Partito Democratico, che l’hanno definita addirittura “una proposta di destra” e un “qualunquismo controproducente“. La tesi dei detrattori è che la gratuità universale della formazione universitaria sarebbe un “favore ai ricchi e a chi non ha voglia di studiare“: secondo Luigi Marattin essa comporterebbe infatti “un trasferimento di circa 2.5 miliardi dai più poveri ai più ricchi“.
L’accusa appare scarsamente fondata, sia nel merito che nei numeri: posto che “gratuità universale” non significa “gratuità incondizionata” (nei numerosi Paesi europei che la prevedono, vi è comunque il requisito di sostenere gli esami nei tempi previsti: dunque non ci sarebbe nessun incoraggiamento ai “fannulloni”, anzi proprio il contrario), si tratterebbe di rifondere gli atenei italiani di un’entrata che nello scorso anno solare ammontava a poco meno di 1.8 miliardi di euro: difficile immaginare che essa sia stata pagata tutta dai “più ricchi” (che peraltro solitamente prediligono le università private, in Italia o all’estero…), per cui l’accusa di Marattin appare decisamente eccessiva. Va poi aggiunto che tale cifra, nelle intenzioni dell’esponente di Liberi e Uguali, andrebbe recuperata tagliando i generosi incentivi che il nostro Stato garantisce ogni anno alle fonti energetiche fossili: il “favore” proverrebbe quindi da aziende che, in molti casi, non se la passano affatto male.
L’appassionato dibattito sulla proposta di Grasso è comunque molto interessante, perché è rivelatore di una visione politica profondamente diversa tra il Partito Democratico e la nuova formazione Liberi e Uguali.
Per la principale forza politica di governo, a favore del diritto allo studio sono sufficienti le misure già previste (gratuità per gli studenti le cui famiglie hanno un ISEE inferiore ai 13mila euro e robusti sconti per chi non supera i 30mila); al massimo si tratta di ritoccare i tetti, estendendo l’esenzione, ma è comunque giusto “far pagare il servizio a chi se lo può permettere”, in una rivendicata logica di “progressività fiscale”. La Costituzione prevede in effetti che sia obbligatoria e gratuita solo l’istruzione inferiore, per almeno otto anni, mentre i gradi più alti degli studi devono poter essere raggiunti dai capaci e meritevoli, anche se privi di mezzi grazie a borse di studio, assegni alle famiglie e altre provvidenze attribuiti dallo Stato per mezzo di concorsi. Le tasse universitarie devono dunque essere pagate dai più abbienti, in base all’articolo 53 (“Tutti sono tenuti a concorrere alle spese pubbliche in ragione della loro capacità contributiva. Il sistema tributario è informato a criteri di progressività“).
Prevedere l’esenzione universale dalle tasse universitarie è perciò una scelta politica rilevante, cui sottende una visione molto innovativa: l’istruzione superiore viene di fatto concepita come un diritto fondamentale (così come lo era, settant’anni fa, quella elementare), che va pertanto garantita a tutti, gratuitamente, proprio come la scuola dell’obbligo. Chi propone la non onerosità degli studi universitari li considera un mezzo indispensabile per “rimuovere gli ostacoli di ordine economico e sociale che, limitando di fatto la libertà e l’eguaglianza dei cittadini, impediscono i pieno sviluppo della persona umana”, cioè per attuare un articolo essenziale – per certi versi il più significativo – della nostra Costituzione; introdurre il principio della gratuità significa mettere questo strumento di diritto allo studio al riparo dall’aleatorietà delle scelte politiche del governo del momento (che può decidere di investire in borse e riduzioni delle tasse, ma anche di tagliare i relativi fondi o di puntare sui prestiti d’onore…)
Questa assoluta centralità della formazione accademica può sembrare surreale in un Paese come il nostro, che “vanta” un livello di investimento tra più bassi dei Paesi UE e le minori percentuali di laureati in tutte le fasce di età. Si tratta, a tutti gli effetti, di un “cambiamento di paradigma”, che punta a ribaltare una tendenza purtroppo consolidata.
Da molti anni l’università pubblica italiana è costantemente de-finanziata (al contrario di quanto accaduto in altri Paesi europei, che hanno affrontato la crisi aumentando gli investimenti in formazione e ricerca): il Fondo di Finanziamento Ordinario erogato dallo Stato è calato di più di mezzo miliardo di euro (da 7.5 a 6.9) in poco più di un quinquennio. A questi tagli, gli atenei hanno tentato di ovviare aumentando i contributi degli studenti, che sono oggi tra i più alti dell’UE, fino a superare il tetto previsto per legge. Il rischio evidente è quello di un avvitamento: i giovani italiani possono essere indotti a rinunciare a iscriversi a un corso di laurea relativamente costoso, difficile (la selettività italiana è notoriamente piuttosto alta) e a volte sovraffollato; ma la riduzione degli iscritti può diventare una ragione per tagliare ulteriormente i fondi, causando nuovi rincari nelle tasse e così via.
La scarsità di laureati è riconosciuta come uno dei principali fattori di rallentamento per la crescita della nostra economia: ecco perché è importante incoraggiare l’iscrizione ai nostri atenei e sostenere la recente inversione di tendenza (nell’anno accademico 2015-16 si è osservato un aumento delle immatricolazioni, confermato poi nei successivi); ecco perché gli studi accademici non vanno considerati un “lusso per pochi”, ma un importante investimento per il futuro del Paese. La proposta di Grasso ha avuto il merito di mettere il tema al centro dell’attenzione: speriamo che essa non venga distolta dalle solite sterili polemiche, ma che la campagna elettorale ormai iniziata sia l’occasione per riflettere con serietà sull’importanza dell’arricchimento del nostro prezioso capitale umano.
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