Media
I giornalisti servono, ma non bastano: così nasce The Conversation
Da gennaio ho iniziato a collaborare con la redazione britannica del sito di informazione The Conversation. Ho preparato un pezzo sulla rilevanza delle prossime elezioni per il Quirinale nel sistema politico italiano in transizione, e sto collaborando a un dossier speciale in uscita a breve, che conterrà contributi tratti dagli interventi al convegno su università e potere politico nell’Europa contemporanea tenuto lo scorso dicembre all’Istituto universitario europeo di Fiesole.
Prima che gli organizzatori del convegno fiesolano mi illustrassero il progetto, devo dire che non conoscevo il sito, evidentemente assai poco frequentato dall’Italia. Avvicinandomici, ho avuto modo di vedere in funzione un modello di comunicazione di grande interesse e potenzialmente davvero innovativo. The Conversation, infatti, è un progetto nato in Australia nel marzo 2011 allo scopo di ospitare e far circolare commenti, editoriali e resoconti di notizie sull’attualità politica, sociale e culturale, prodotti da professionisti della ricerca accademica. Il lavoro di alcuni editors, tutti con buona esperienza nel giornalismo di approfondimento e nella scrittura in magazine scientifici, era destinato a intervenire sui pezzi per renderli di lettura accessibile a una general readership (intendendo con questo termine un insieme di lettori comprendente chi non ha ricevuto una istruzione post-secondaria o quantomeno gli studenti universitari) sul piano sia della scelta lessicale che della complessità delle frasi.
Con l’andare del tempo questi controlli sono stati resi più agevoli dall’utilizzo di software di analisi metrica dei testi, che segnalano il livello di comprensione potenziale degli articoli sulla base del numero di parole delle frasi e di sillabe nei singoli vocaboli, che seguono l’autore fin dall’inizio nella stesura del brano. Tuttavia il novero dei redattori si è fatto ancora più nutrito a causa del rapido successo del formato di comunicazione proposto. A meno di un anno dall’esperimento australiano si è attivata una redazione britannica divenuta in breve tempo il centro principale della produzione dei contenuti, e alcuni mesi fa è partito un esperimento pilota per il coinvolgimento di accademici e pubblico nel continente americano. L’incremento del traffico si è immediatamente correlato a una maggiore varietà nelle tipologie di contenuto, ad esempio con l’affiancamento degli essays degli esperti a interviste sollecitate dagli editors su temi ritenuti di particolare interesse, e a una estensione dei temi trattati, che ormai riguardano la politica, l’arte e la letteratura, le scienze, le relazioni internazionali, con un occhio comunque attento a questioni magari più “di nicchia” ma di particolare rilievo per chi si interessa a vario titolo della ricerca e dell’istruzione superiore, come le rilevazioni della qualità degli atenei, la cronaca delle riforme dei sistemi educativi nel mondo, il rapporto tra formazione e lavoro.
I circa due milioni di utenti unici al mese (che arrivano, stando ai conteggi interni alla redazione, a oltre dieci milioni di persone che mensilmente leggono sul web almeno un articolo del sito, considerando anche le riprese integrali da altre testate rese possibili dalla licenza Creative Commons) sembrano quindi dimostrare che l’ideatore dell’impresa, il giornalista Andrew Jaspan, abbia risposto a reali esigenze del pubblico proponendo un sito che, in una ecologia della comunicazione affetta troppo spesso da “misinformation and spin“, contribuisse ” to healthy democratic discourse by injecting facts and evidence into the public arena“ rivolgendosi direttamente ai produttori delle conoscenze e delle interpretazioni più avanzate, ovvero i ricercatori “di frontiera” troppo spesso sottovalutati o ignorati dai media in nome della trita retorica e del sensazionalismo, e offrendo loro la possibilità di esprimersi in forma incisiva di fronte al vasto pubblico. Tuttavia, il modello di informazione di The Conversation sembra anche presentare alcune criticità almeno potenziali, di cui è bene tener conto.
Non mi riferisco tanto alle critiche sul suo orientamento e sulla qualità di chi conduce il sito, pur circolanti nell’opinione pubblica anglosassone: il conservatore Quadrant, in particolare, ha dato voce ad esse ospitando lo scorso febbraio un commento di Tony Thomas che definiva The Converrsation “one-sided” e “staffed by left-leaning refugees from commercial news organisations’ withered operations”. Preoccupazioni più fondate nascono piuttosto dalle profonde differenze tra il suo profilo di utenza e il sostegno economico che ne regge l’attività.
Sul piano della circolazione dei contenuti, infatti, il sito svolge essenzialmente il ruolo di connettore tra una domanda, quella avanzata dai lettori per contributi informativi e commenti di qualità, e un’offerta, quella degli accademici che sono dotati della competenza necessaria per produrre contenuti di quel tipo. Sul piano economico, però, le cose stanno diversamente. The Conversation è infatti finanziata da università, istituti culturali, case editrici scientifiche, che col sito “acquistano” di fatto la possibilità di parlare a un pubblico di non specialisti, realizzando su un canale già rodato quel coinvolgimento dell’opinione pubblica nelle outreach activities ormai divenuto elemento essenziale per la vita degli atenei. Non è un caso che The Conversation sia nata e trovi istituzioni che la finanziano soprattutto in paesi, come l’Australia e in modo ancora più evidente il Regno unito, in cui il successo delle università nell'”esportare” attività e risultati fuori dalle mura è componente essenziale per migliorare la propria posizione nelle procedure di valutazione delle performance e quindi accedere a fette più grandi di finanziamento.
In un simile contesto l’assoluta trasparenza della provenienza dei fondi per il funzionamento del servizio e gli avvertimenti su eventuali afferenze degli autori a istituzioni direttamente interessate dagli articoli e/o partecipazione di queste ultime al supporto economico per le ricerche in oggetto, ampiamente garantiti dalla testata, saranno sufficienti a non creare distorsioni, e a non rendere The Conversation uno strumento al servizio delle necessità del miglior offerente, ad esempio con canali preferenziali per i ricercatori appartenenti agli atenei più generosi?
L’interrogativo sicuramente non può essere trascurato monitorando l’evoluzione del progetto, anche se per ora non sembrano emergere casi evidenti di difficoltà in questo senso. E The Conversation si conferma un oggetto degno d’interesse per i lettori di tutto il mondo. Anche un italiano , per esempio, può trovare persino sul proprio paese analisi interessanti e sorprendentemente informative, se si pensa che sono scritte per lettori con cui non possono darsi per scontati dati e spunti che per noi dovrebbero essere ovvi, riguardandoci da vicino. Le riflessioni spassionate sulla crisi (tecnica, economica, ma anche di modello culturale) del nostro calcio offerte da John Foot, lo storico dello sport italiano più noto a livello internazionale; lo sguardo alle dinamiche nascoste nel sottobosco della politica e dell’antipolitica di Anna Cento Bull; le proposte di riflessione di Nando Sigona su caratteri delle nostre politiche di integrazione e sul loro ruolo nel collocarci in una posizione critica nell’adattamento del sistema-paese alla globalizzazione; lo sguardo alla nostra politica attento ai meccanismi sistemici più che alla cronaca spicciola: buttare un occhio a contributi come questi aiuta moltissimo a uscire dai più radicati luoghi comuni che vogliono ancora oggi il “caso italiano” così peculiare e irriducibile al quadro generale, e ci offrono spunti per comparazioni nell’orizzonte europeo e globale tutt’altro che banali, difficili da trovare nell’informazione mainstream nella nostra lingua. (Sperando, naturalmente, che il luogo da cui sto scrivendo possa sopperire finalmente a questa mancanza)
Devi fare login per commentare
Accedi