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Publish or perish: il dilemma di chi vuol fare ricerca
Vorrei aprire il mio spazio personale su GSG con un post su una questione che sta lentamente acquisendo spazio nel dibattito scientifico, ossia la trasformazione degli scienziati da produttori di sapere a commercianti del sapere. Mi spiego meglio: le dinamiche di selezione della classe dirigente della ricerca favoriscono oggigiorno le persone in grado di vendere il proprio sapere rispetto a chi invece si sforza di riportare le proprie scoperte in maniera neutrale.
Il mio campo di esperienza è quello dell’accumulo elettrochimico di energia, detto in parole spicciole le batterie al litio (sí, quelle dei cellulari e dei portatili). E’ un campo dai risvolti altamente pratici, in cui la tendenza generale è quella di portare a batterie piú leggere e piú “ricche” di energia elettrica. Non è un caso che quindi periodicamente escano su giornali e su periodici notizie sul “nuovissimo prototipo di batteria in grado di ricaricarsi in cinque secondi”, sulla “batteria che si ricarica una volta al mese”, su quella che “grazie a materiali nanostrutturati offre performance superiori alle celle commerciali” e cosí via. Il sensazionalismo nel giornalismo scientifico è un argomento abbastanza complesso in sé, per il quale mi riprometto di scrivere qualcosa a riguardo in futuro; il problema vero è che alla base di queste notizie ci sono carriere folgoranti che però, dati alla mano, non avrebbero ragione di esistere.
Andando alla ricerca della fonte originaria di tali notizie, ossia i paper sottoposti a peer review e spesso pubblicati su riviste scientifiche blasonate, l’occhio dell’esperto scorge immediatamente le falle o i trucchi utilizzati per pompare il risultato, i calcoli furbetti che permettono di nascondere sotto il tappeto dei fattori non secondari, le omissioni di alcuni esperimenti chiave che avrebbero invece mostrato l’esatto opposto di quanto pomposamente dimostrato. Il risultato finale è che tali lavori si rivelano essere meri esercizi intellettuali privi di alcuna innovazione, o ancor peggio ricettacoli di risultati non riproducibili. Gli unici a guadagnarci qualcosa sono l’articolista e l’autore della ricerca farlocca.
Questa tendenza a barare o a vendere i propri risultati per piú di quello che sono nasce purtroppo da un’impostazione errata del cursus honorum accademico, che esige articoli del genere per gli avanzamenti di carriera. Specialmente nell’ipercompetitiva Asia i criteri di giudizio sono il numero di articoli pubblicati su riviste di un certo calibro, il numero di paper recensiti, il numero di conferenze a cui si è preso parte e cosí via. Le conseguenze sono articoli scadenti e ripetitivi, recensioni ad altri lavori fatte in fretta e senza spirito critico, e presentazioni che somigliano piú a televendite che non a un resoconto di livello accademico.
Il problema è arcinoto, ma rimane difficile implementare delle soluzioni in un mondo dove la quantità di riviste e di scienziati sono aumentate a livello esponenziale. I controlli di base sono semplicemente saltati. Se da una parte si sono moltiplicati giornali open access che pubblicherebbero qualsiasi cosa pur di rimanere a galla, dall’altra ci sono le riviste prestigiose che preferiscono affidarsi alla reputazione internazionale delle università di riferimento nel fare selezione anziché giudicare gli elaborati scientifici per quello che sono. In entrambi i casi si lascia pieno spazio di manovra ai commercianti del sapere, i quali sono in grado di confezionare i propri risultati o il proprio curriculum in modo tale da perpetuare il circolo vizioso del quale essi stessi sono i maggiori beneficiari.
Science e Nature, le due principali riviste a livello mondiale, stanno provando a correre ai ripari [1], promuovendo la riproducibilità delle misure, e contemporaneamente si sono levati cori di sdegno e boicottaggi di determinate riviste da parte di chi ritiene di essere discriminato a favore dei piú scaltri. Da altre parti sono nati siti che diffondono notizie sugli articoli ritirati perché palesemente falsi [2], come il famoso lavoro apparso su Lancet sul collegamento fra vaccini e autismo. Insomma, il re è palesemente nudo e da piú parti si sta cercando di limitare il fenomeno e di tornare ad un approccio piú conservatore alla valutazione della qualità della ricerca.
Nel momento di massima popolarità delle bufale online e del complottismo, è proprio quello di cui c’è bisogno.
[1] http://www.nature.com/news/journals-unite-for-reproducibility-1.16259?WT.ec_id=NATURE-20141106
[2] http://retractionwatch.com/
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