Università
E l’Università tedesca importa con successo fuoriclasse argentini
Le cinque del pomeriggio sono un orario strano quando sei a una conferenza. La maggior parte delle presentazioni interessanti ci sono già state, in genere al mattino. Il più delle volte è terminata anche la sessione poster o la sessione dimostrativa. Ci si aggira qua e là, stanchi. I più fortunati trovano un collega disponibile a prendere un caffè insieme, se il bar della conferenza è ancora aperto. Altri si aggirano inquieti alla ricerca di una presa elettrica per ricaricare l’iPad o il computer. Qualcuno sfoglia il programma della conferenza alla ricerca di qualche presentazione degna di nota, con la convinzione, o per meglio dire un senso di colpa non ammissibile a se stessi, che non è ancora ora di tornare in albergo.
In questa atmosfera rarefatta delle cinque pomeridiane, mi stavo aggirando anche io per le sale e i corridoi dell’Università di Cordoba, in Argentina. Era Settembre di quest’anno, e a Cordoba si stava svolgendo una grande conferenza sulle applicazioni della luce in biologia e medicina. Nel mio girovagare senza troppa meta, mi sono ad un certo punto ritrovato davanti ad uno stand decorato con inconfondibili bandierine tedesche, dove una ragazza biondissima in tailleur assai severo mi ha chiesto se ero interessato alle opportunità di studio in Germania. Ringraziandola per il complimento implicito (e involontario), le ho risposto sorridendo che ormai sono passati diversi anni da quando potevo definirmi studente. Senza scomporsi, la ragazza mi ha detto che in realtà la Germania offre molte opportunità anche docenti e ricercatori. “Beh, di sicuro più dell’Italia” ho risposto io. Al che, la ragazza mi ha dato una voluminosa brochure dal titolo “Studiare e fare ricerca in Germania” e mi ha detto: “Perché non assiste alla presentazione dei nostri programmi di studio per l’Argentina, oggi alle 18:30? Sala C. Le piacerà”. Sarà che non avevo voglia di rientrare in albergo, o forse mi ero incuriosito, mi sono deciso e alle 18:30 sono entrato in sala C. E per un’ora almeno mi sono reso conto di quale sia una strategia vincente per mantenere la leadership in un campo, quello scientifico.
Nell’Ottobre 2011, autorità tedesche e la “Presidenta” Cristina Fernandez de Kirchner hanno inaugurato il primo Istituto argentino partner della Max Planck Society, la rete di Istituti di Ricerca più importante della Germania; una rete che ogni anno ha delle performances straordinarie in termini di risultati, spesso consacrati da membri che vincono il Nobel (come quest’anno per la Chimica). Merita leggere (tradotto) qualche frase della presentazione ai giornali di quell’evento: “attraverso questa partnership possiamo aiutare l’Argentina ad innalzare i suoi già alti standard scientifici […] Argentina e Germania diverranno, di conseguenza, nazioni più attrattive come centri di ricerca scientifica.” Fuori dalla retorica, la Germania aiuta economicamente istituti argentini e diventa polo di attrazione per studenti e ricercatori bravi e motivati. Con un paragone nemmeno troppo blasfemo, si può dire che la Germania va a cercare in Argentina nuovi Lionel Messi della ricerca. La sessione delle 18:30 era infatti strutturata con un ricercatore argentino ed uno tedesco che insieme illustravano i vantaggi della collaborazione reciproca; in genere il ricercatore tedesco si dilungava a descrivere il suo Istituto, le possibilità di studio, la ricettività degli studenti, gli stipendi (che per carità di patria, taccio).
Nei giorni successivi ho avuto modo di toccare con mano questa inesorabile “colonizzazione” scientifica. L’Argentina è un Paese molto europeo come costume e stile di vita, e non mi stupisco che i tedeschi –puntando sulla qualità e il facile ambientamento delle persone- abbiano guardato al Paese del tango. Ma è la filosofia, che mi lascia ammirato: si persegue con decisione una partnership internazionale, se ne fa un elemento di interesse nazionale. Magari sacrificando anche qualche richiesta interna, senza farsene un complesso. Naturalmente anche gli Stati Uniti perseguono da tempo una politica espansiva (e adesso anche la Cina); ma l’approccio è diverso, gli Stati uniti sono notoriamente l’eldorado dei ricercatori che credono nei propri mezzi. Non ricordo una pervasività colonizzatrice “attiva” americana paragonabile a quella tedesca, se non forse nei confronti di Israele. Simile agli USA, la Gran Bretagna vive da sempre sulle spalle del Commonwealth, e dei ricercatori fenomenali che (sempre meno) arrivano dall’India e del sud-est asiatico. Ma la Germania è nel cuore dell’Europa, e il tedesco non è una lingua universale come l’inglese. Insomma, viene spontaneo confrontarci.
La domanda successiva, scontata, imbarazzante è: e noi? Ad onor del vero abbiamo perseguito qualche programma bilaterale, peraltro anche finanziato decorosamente; ma potrei raccontare storie (vere) di modesti accordi saltati per l’assenza di qualche impiegato del Ministero, o firme su documenti promesse e mai arrivate. Insomma, qualcosa si tenta di fare, ma lo si fa con quel misto di approccio burocratico/protocollare e interesse assai moderato che ci contraddistingue quasi in tutto. Non è per noi una questione nazionale cercare ovunque ricercatori bravi per importarli in Italia; non sappiamo gestire bene nemmeno quelli italiani che sono già qui. Gli argentini sono in gran parte di origine italiana, l’ambientamento in Italia è ancora più semplice che in Germania, ma non ci abbiamo mai pensato. Gli argentini ci piacciono su campi da gioco, non nei laboratori. E i risultati, devo dire, si vedono. Manca la strategia.
Forse non è tutto così, forse generalizzo un cliché che vede stancamente nell’Italia il Paese meno attrezzato per competere nei settori d’avanguardia. Forse. Ma non siamo noi che ci siamo sempre consolati a dipingere i nostri vicini europei, e soprattutto i tedeschi, mediante vetusti cliché?
Sfortunatamente per noi, oggigiorno, il Professor Kranz non è più solo tedesco di Germania.
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