Università

Lo strano caso del Professor Cherubini e la curvatura del tempo in università

22 Settembre 2015

Lo strano caso che vi sto per raccontare è forse estremo, ma rappresenta un paradosso che può capitare nel mondo universitario italiano. Nel caso che mi è capitato ho vissuto una strana inversione di sentimenti: la rabbia per una vittoria e l’entusiasmo per una sconfitta. Come può essere successo? Avete mai sentito parlare della curvatura spazio-tempo? Bene, tenetevi forte, e gustatevi questa storia…ai confini della realtà. Ne prenda nota chi vuole porre mano alla “buona università”.

Nel tardo pomeriggio di un giorno di giugno del 2013, di un caldo appiccicoso, al ritorno a Firenze da una giornata di lavoro a Rimini, ricevo una strana chiamata. E’ un collega, un professore più anziano di me, con cui non avevo mai avuto contatti. Che vorrà? Due convenevoli e poi resto di sasso. Mi dice se so di un concorso, gli dico che non se ne fanno più, e glielo dico in modo spiccio con l’aria di quello che la sa lunga. “L’ultimo è stato nel 2008”, dico con l’aria di spicciarmi da ricordi seccanti. “Appunto quello, ti comunico che la commissione ha concluso i suoi lavori e l’hai vinto”. Poi mi passa i commissari per le congratulazioni. Avevo vinto l’ultimo dei vecchi concorsi che, per motivi che non sappiamo, era morto e risorto.

Nei vecchi concorsi, due candidati venivano dichiarati vincitori e uno veniva chiamato dalla sede che aveva bandito il posto. L’altro candidato, che era del posto, venne chiamato, ed io mi sono ritrovato nel 2014, con un concorso vinto in base alla mia attività scientifica fino al 2008. Che dire? Scorrendo gli atti ho visto che le candidature erano molte, e avevo battuto tutte le altre domande. Dovevo provare soddisfazione? Certamente sì, ma non era piena. Agli amici la raccontavo così: è come se uno ti dice che nel 2008 sei stato con Sharon Stone; ti senti lusingato, ma non riesci proprio a godere. Quei sei anni di ritardo invece mi facevano rabbia tutte le volte che andavo a trovare mia madre. Lei nel 2008 mi avrebbe abbracciato e si sarebbe congratulata. Oggi, che tutta la sua vita e le persone si mischiano nella sua mente, non riesce a distinguere il lavoro all’università da uno dei campi di grano dove lavorava e giocava da bambina.

Intanto, passo anche l’abilitazione nazionale. Il presente mi dà conferma del passato. Ma l’abilitazione è qualcosa di diverso dalla valutazione comparativa. Infatti il fatto che tu passi l’abilitazione non toglie nulla alla possibilità degli altri di passarla. Nella valutazione comparativa, invece, è diverso: se tu vinci gli altri perdono. Gli uffici dell’università dicono che sotto il profilo della carriera non c’è differenza. Posso essere chiamato con la vecchia legge, quella in vigore nel 2008, o con la nuova legge, quella per la quale viene fatta un’ulteriore valutazione comparativa. In questo caso, l’ateneo bandisce un concorso, e chi vince si prende il posto. Il concorso può essere di due tipi. Versione “ti piace vincere facile”, in cui la competizione è riservata ai colleghi del tuo stesso ateneo (art. 24). Versione “competizione globale”, in cui ti scontri con tutto il mondo (art. 18).

Quando comunico la cosa alla direttrice del mio dipartimento, in cui c’è una lunga coda di persone che aspettano concorsi di tipo “ti piace vincere facile”, mi dice che io sono nella lista, ma che i tempi saranno lunghi. Faccio notare che io ho già vinto una valutazione comparativa, ma questo non pare contare. Anzi, c’è un problema tecnico. Se avessi vinto solo la valutazione comparativa del 2008, questa scadrebbe dopo pochi anni e loro avrebbero una scusa per darmi la cattedra, ma poiché ho ricevuto anche l’abilitazione, mi posso mettere in coda tranquillo, tanto quella scade tra sei anni. Insomma, è un po’ come dal salumiere: prendi il numero, e aspetti. L’unica differenza è che dietro il banco del salumiere sei sicuro di non avere nemici.

Ora, il caso vuole che una piccola università del nord abbia bandito un concorso per professore ordinario in versione “competizione globale”. E’ l’unico, e pare che la cadenza di questi concorsi sia la stessa delle Olimpiadi o dei mondiali di calcio. Faccio domanda, e scopro che è prevista una prova orale, che consiste in un seminario. Cosa strana, perché anche con la vecchia legge la prova orale era richiesta soltanto a chi non aveva la qualifica di professore associato. Oggi in molti atenei, compreso il mio, la prova orale non è richiesta più neppure per accedere a questa qualifica. Si è posto fine a quella esperienza comune della lezione da preparare in 24 ore che accomuna tutti i docenti del vecchio ordinamento. Episodi leggendari, come un amico che comprò tutti i libri di matematica finanziaria disponibili in una libreria, e il sottoscritto, che si spostava da un concorso all’altro con una macchina station-wagon piena di libri. Roba del passato, ma non per tutti. Un po’ infastidito mi chiedo: chi diventa associato oggi non si deve neppure presentare davanti a una commissione, e invece io, che concorro per un posto da ordinario, mi devo presentare.

Mi presento alla giornata di seminari, e mi rimangio ogni senso di fastidio. Intanto sento una scarica di adrenalina che non sentivo più da anni. Poi, dopo essermi chiesto quanti e quali colleghi avessero concorso, mi trovo il giorno della presentazione di fronte a sorprese che non avrei mai pensato. Appena arrivo trovo un collega brasiliano, che mi aveva invitato qualche anno fa e che doveva venire ospite da me a Bologna due giorni dopo. Vorrebbe vincere e tornare nella terra dei suoi bisnonni. Trovo un collega più giovane, che si è avviato a studiare il mio stesso tema di specialità dopo aver seguito una “summer school” che avevo organizzato a Bologna su quel tema nel 2004. Ora di quel campo è un esperto di fama internazionale. Peccato solo che il nostro campo di ricerca non sia proprio al centro del “mainstream” del nostro settore disciplinare. E poi ci sono altri colleghi, ci siamo presentati in sette su dieci che avevamo fatto domanda.

Alla fine della giornata sono entusiasta dell’esperienza. Mi è piaciuta l’adrenalina, sono stato soddisfatto della mia presentazione, mi ha fatto piacere assistere a un convegno in cui ognuno mette di fronte agli altri la sua migliore ricerca. E’ stata una sorta di giostra medievale a colpi di idee, e ora guardo la mia ricerca come la mia arma più fedele e affilata. Purtroppo quando torno a casa, cerco su scholar.google.com le pubblicazioni degli altri, e trovo una brutta sorpresa. Due di loro hanno un livello di collocazione editoriale delle pubblicazioni molto, troppo più elevato del mio. Dal 2008 al 2014 i ragazzi si sono dati da fare, e ora non sono più il primo. Non dico che mi sento inferiore a loro nella ricerca, in fondo so cosa incontrerà di me un ricercatore tra venti anni. Per questo faccio la ricerca che faccio, indipendentemente da dove la pubblico. Con gli amici ho anche scimmiottato De Gasperi: “il professore pensa alle prossime pubblicazioni, il ricercatore alle prossime generazioni”. Ma sono conscio che qui contano le pubblicazioni. Anche io stesso, se uscissi da me o battessi la testa e dimenticassi di colpo la mia storia, non avrei esitazione a scegliere uno di loro due. E così è andata.

Questa valutazione comparativa persa nel 2014 mi ha lasciato pieno di entusiasmo e di voglia di misurarmi ancora, proprio come la valutazione comparativa vinta nel 2008 mi ha lasciato un senso di freddezza. Ringrazio la piccola università del nord per avermi fatto vivere questo momento di competizione. Ringrazio il mio dipartimento per la sua chiusura, che mi ha spinto a competere. Continuerò a misurarmi con i colleghi, e se non ci sono giostre e tornei in Italia, cercherò la competizione all’estero. E oggi potrò dire a mia madre: sì, sono a lavorare nel campo, e sono vivo e libero.

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