Università
Lettera a un amico che ha lasciato l’accademia
Cominciamo da questo: tre giorni fa, in compagnia di un brillante professore di filologia romanza in uno di quegli aperitivoni megagalattici pieni di cheap talk e di frasi ripetute a nastro, stavo ripetendo a nastro uno dei miei mantra: l’accademia non mi è mancata un giorno, lo studio un po’ sì. Lui mi ha riposto: ah, ma quello manca anche a me! In sostanza, c’è già tutto.
Ho lasciato la compagnia dell’accademia il giorno della discussione del mio dottorato (“perfezionamento”, si chiama laggiù), il venerdì 23 novembre di dieci anni fa. Il lunedì 26 ricevetti, nella stanza della fondazione in cui ero quella mattina, la notizia che avevo vinto il concorso come “funzionario della promozione culturale” al Ministero degli Esteri. Si tratta in buona sostanza di un lavoro burocratico puro, con il plus che ogni tanto si va all’estero a lavorare negli Istituti di Cultura, dove si possono fare anche cose belle e, soprattutto, si guadagna assai meglio.
Avevo deciso in modo abbastanza freddo di lasciare la compagnia: o qualcuno della compagnia, uno qualunque, ovunque, mi dava i soldi, stabili, subito, oppure ciao. È stato ciao. Fine. L’università non mi è mancata, e io sono mancato a lei ancora di meno, ne sono certo.
Dieci anni dopo, se penso a chi ha fatto il dottorato con me, vedo carriere brillantissime, brillanti, deviazioni, ripieghi, abiure: tutto. In questi dieci anni mi sono chiesto spesso perché il rimanere nella compagnia dovrebbe essere una cosa desiderabile. Avendo in mente i parecchi casi di cui sopra, direi che ci sono tre tipi di motivazione. 1. Ho talento e nulla come questo mi fa stare bene 2. È un lavoro presentabile in società 3. Non saprei fare altro. Spesso, come accade, le cose mescolate insieme, in dosaggi diversi, ma 1. è più raro. A questo punto, la subdomanda è: cosa sei disposto a fare per rimanere nella compagnia. In linea di massima, le cose ricorrenti in una carriera accademica nella prima maturità sono relazioni affettive a distanza, pochi figli, paghe basse, spalle coperte. Volersi sottrarre a una di queste condizioni comporta fatiche grandissime. La percentuale di figli di medici, ingegneri, avvocati e altri professori nell’accademia, come sai, è molto alta.
A queste ragioni spicciole circa la desiderabilità di una posizione accademica se ne aggiunge una più generale, che è la truffa microborghese della realizzazione, cioè quell’idea per cui se uno non svolge con successo la professione per la quale ha avuto una formazione è sostanzialmente un fallito, dovrà vergognarsi di dire come guadagna il pane, dovrà prendersi spesso una figurata pacchetta sulla spalla di conforto/commiserazione in vari contesti. In Works, Vitaliano Trevisan più o meno scrive (non ho più il libro, è stato uno di quei prestiti trasformatisi nel tempo in donazione): una volta che mi sono realizzato cosa faccio? Mi metto in un quadro davanti al quale passo tutti giorni per dirmi guarda che bello che sono? Personalmente, non mi sono mai fatto un biglietto da visita, né mi faccio chiamare dottore da nessuno (si pensa che i titoli siano tanto cari alla gente del Sud: prova a omettere un “Dr.” a un professore universitario da queste parti), e da tanti anni ormai ho smesso di chiedere alle persone che lavoro facciano. Non mi interessa, semplicemente.
A questa sostanziale truffa contribuiscono, da diverse prospettive e in occasionale alleanza, il capitalismo e il marxismo, individuando nel guadagno e nel lavoro le sole prospettive di riscatto dell’essere umano. È stato sicuramente così, non è più così da molto. È ovvio che la collettività avrà sempre bisogno di una enorme maggioranza di lavori orribili per i quali non esiste formazione, è ovvio che – teoria della classe di classe disagiata – una maggiore e diffusa istruzione in occidente ha portato ad avere aspirazione più alte. Purtroppo, se uno nasce con la naturale inclinazione alla curiosità, alla lettura, allo studiare cose che non danno riscontro pratico, le possibilità di frustrazione diventano molto alte.
Per porre rimedio a queste frustrazioni ci sono sostanzialmente due vie. Una è quella che dei sistemi educativi tipo Germania: ti tarpo le ali, ti tolgo i grilli dalla testa, mando al ginnasio solo quanti e quelli che mi servono, e in compenso ti troverò una casella della società tutta per te: non ti muoverai di lì, ma avrai una vita tranquilla. Oppure, più difficile, accettare che in certi momenti la vita riservi non tanto dei bivi, che certo ci sono, ma soprattutto dei giri di giostra a un certo punto dei quali uno cade e non sarà nella strada di prima. È potenzialmente più bello, più divertente e in fondo, credo, anche più giusto.
Perciò, amico che hai lasciato la compagnia per uno stipendio, hai fatto bene. La giusta mercede, per prima cosa. Accettare il precariato accademico (ma in fondo accettare praticamente tutto) è stato un errore storico di tantissimi della nostra età (ok, tu sei più giovane): è proprio moralmente sbagliato. E per il resto ricordati che certo, Primo Levi dice che fare un lavoro che piace avvicina alla felicità ma anni dopo avrebbe detto anche che alla fine la professionalità impone anche di tirare su bene un muro senza senso, su richiesta di un nazista. Ricordati che c’è Maradona, che è il talento, ma c’è anche Batistuta, che è la professionalità. Nei miei vecchi studi c’era uno storico, Paul Veyne, considerato a ragione un geniaccio ma che a richiesta raccontava che in realtà l’arte del ‘700 lo appassionava più della storia romana. Ce n’è a milioni, di casi così. E poi, non sto a ricordare proprio a te che Gadda, Buzzati, Rigoni Stern, lo stesso Levi: nella vita facevano anche altro, per una bella parte delle ore del giorno.
Certo, magari agli aperitivoni di cui all’inizio risulterai un po’ meno richiesto, la gente si comporterà con te con un po’ di ossequienza in meno, tu stesso in quei contesti ti sentirai un po’ meno sicuro di te: ma di tutta quella chincaglieria da similconvegno scoprirai presto di non avere bisogno. Non guardare indietro, quindi. Hai già molto di meglio di tutto ciò.
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