Università

Ecco perché aderisco allo sciopero della valutazione della ricerca universitaria

15 Gennaio 2016

Ma il tempo continua a scorrere anche quando il mercato è chiuso? In un certo periodo dell’anno, come in una ricorrenza, rivolgo questa domanda ai miei studenti, li guardo interdetti e stupiti, e colgo la sorpresa per introdurli al mistero degli “orologi stocastici” e altre diavolerie. Mai avrei pensato di trovare il mio contrappasso nella cancellazione del tempo che dedico a quella stessa attività, l’università, grazie all’alchimia della politica e delle regole. Mai avrei pensato che un governo potesse fermare il tempo, e poi annullarlo e cancellarlo, per decreto. E’ quello che è successo ai docenti universitari, che si sono visti annullare quattro anni di anzianità per decreto, e che contro questa iniziativa hanno scelto lo sciopero della ricerca: non sottoporre le proprie pubblicazioni scientifiche al processo di valutazione nazionale (in gergo, la VQR). Io, che ho aderito a questa iniziativa, vi spiego perché.

La questione risale al 2011, l’anno buio della crisi, quando tutto il settore pubblico, esclusi i magistrati (perché mai?) è stato chiamato a concorrere al salvataggio di questo del paese con diverse misure che potete rileggere nelle sentenze della Corte Costituzionale, che le ha condannate o annullate, tra cui una della quale forse leggerete in futuro: il blocco degli scatti di anzianità. Niente da dire: in tempi di vacche magre si può anche risparmiare fermando il tempo, meno che ai magistrati, ovviamente, la cui anzianità non può essere fermata perché li rende più saggi.

Passata la bufera (se è passata) il governo ha deciso che le lancette avrebbero dovuto ricominciare a girare, per tutti, ma per noi docenti universitari con una particolarità. Per noi, e solo per noi, i cinque anni passati sono stati cancellati, aboliti: non sono mai esistiti.

L’esempio che circola è che per chi ha 55 anni, più o meno come il sottoscritto, il tempo si fosse fermato a 50. Viene fatto il calcolo che sull’intera vita lavorativa questo blocco del tempo costerà alla fine intorno a 90 000 euro.  Ma il denaro non è tutto. Che noi, e noi soli, dobbiamo riprendere la carriera come se fossimo ancora nel 2011 non ha spiegazioni plausibili, se non l’arroganza e il disprezzo per il nostro ruolo. Per questo, per protesta contro questo trattamento, o bistrattamento, un gran numero di docenti ha deciso di non sottoporre le proprie pubblicazioni alla valutazione, e di non partecipare come referenti alla valutazione degli altri.

Prima di procedere oltre, è necessario chiarire perché posso scrivere questo post. Posso scriverlo perché ho le mie due pubblicazioni di prima fascia pronte da presentare alla valutazione della ricerca. Posso scriverlo perché sono un ricercatore normodotato, con un indice H di 15, anche se le dimensioni, come si usa dire, non sono importanti. Posso farlo perché ho coperto le ore di lezione che mi spettavano in ciascuno di questi anni, e mi sono sobbarcato le responsabilità di un corso di laurea. Mi sono chiesto se fosse giusto partecipare a questa protesta insieme a colleghi che non hanno nessuna pubblicazione da presentare, ma ho concluso che non si può star fermi e tollerare tutto solo perché nella categoria cui appartieni c’è qualcuno di cui non sei fiero. Poi, la minaccia che aleggia della punizione che ci dovrebbe colpire ha cancellato ogni differenza: tutti, attivi e inattivi, avranno diritto alla stessa cicatrice.

In realtà questi anni sono passati eccome, proprio come sta passando questo. Fai la programmazione didattica, fase uno (cerchi i docenti di ruolo), fase due (cerchi i ricercatori) fase tre (bandisci i contratti per le coperture residue). Organizzi presentazioni del tuo corso a possibili studenti. Valuti le domande di ammissione che arrivano. Poi a giugno arriva la stagione del “riesame”. Arrivano le valutazioni che gli studenti hanno dato dei professori. Devi parlare con chi “ha il rosso”, cioè ha ritenuto una valutazione insufficiente. Devi convocare un consiglio di corso in cui proietti le valutazioni e le discuti. Poi quando arrivano i dati riunisci la Commissione AQ (analisi qualità) e compili un rapporto diviso in tre parti (ingresso-carriera-uscita degli studenti, valutazione della didattica, accompagnamento al mercato del lavoro), ciascuna ripartito in tre sezioni (discussione dei risultati ottenuti, analisi dei dati, obiettivi per l’anno successivo). Interroghi i dati, li correggi, scopri che indiani e russi sono tutti registrati come italiani perché li contano dopo che hanno avuto il permesso di soggiorno, cerchi di individuare chi ha lasciato il corso e perché, navighi su Linkedin per scoprire dove lavorano gli studenti che hanno terminato il corso. E così viene settembre, discuti i risultati del riesame con il consiglio di corso, poi recepisci le osservazioni della commissione paritetica e sulla base di quello che hai imparato decidi cosa cambiare nel corso dell’anno successivo. Fai l’elenco delle cose da cambiare, verifichi di avere tutte le risorse che il ministero ti chiede, e quelle supplementari che aggiunge l’ateneo (numero di docenti, in gergo “teste”, aule, e così via). Hai tutto il materiale per compilare la SUA (scheda unica di attivazione), e per far riattivare il corso (che si attiva tre volte, in consiglio di corso, di dipartimento e di scuola). Poi sei alla fase zero della programmazione didattica, in cui decidi come strutturare i corsi, e infine sei tornato alla fase uno, e un altro anno è passato.

Quindi il tempo passa anche da noi in università. E ci sono anche anni bisestili, anni più difficili degli altri. Ogni tanto devi rivedere le fondamenta del tuo corso, sottoporlo al giudizio delle “parti sociali”, ristrutturare accordi con università straniere. Il tempo è passato, e gli anni non si sono fermati, anche durante la crisi, e i numeri che vediamo ogni anno a giugno testimoniano che in questi anni l’università ha mandato a lavorare molti degli studenti. Non solo: in questi anni abbiamo costruito un approccio sistematico all’analisi della qualità che non ha eguali in nessun settore della pubblica amministrazione.

In conclusione, cancellare il tempo equivale a disconoscere il contributo che la docenza universitaria ha dato all’uscita dalla crisi, pur con i limiti di sempre, che abbiamo ricordato più volte su queste colonne. Infliggere solo a loro la cancellazione del tempo significa ritenere che i docenti universitari portino perennemente i pantaloni corti, o portino le pantofole di Oblomov, e invece molti di loro (e anche uno dei miei maestri) hanno visto il mitra dalla parte della canna. Per questo rivogliamo il tempo di questi anni, e l’astensione dalla valutazione è solo il più gentile degli scioperi. Potremmo fare molto peggio. Potremmo smettere di fare tutto quello che ho descritto sopra, perché, dimenticavo, noi non siamo pagati per farlo: siamo pagati per fare ricerca e didattica. Se smettessimo di gestire i nostri corsi, cosa che facciamo per puro spirito di servizio, il tempo dell’università si fermerebbe per davvero.

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