Università
Il numero chiuso all’Università Statale di Milano, spiegato
Sulle pagine dei giornali campeggiano i titoli sulla decisione del Senato accademico dell’Università Statale di Milano di introdurre, in seguito ad una votazione a maggioranza, il numero chiuso (anche se si chiama programmato) nei corsi di laurea delle facoltà umanistiche (che non si chiamano più facoltà) che ancora non lo avevano: lettere, filosofia, storia, beni culturali e geografia.
La ragione di questo cambiamento non è però quella generica di “non sfornare laureati disoccupati”, come se necessariamente sapessimo che fra 3-5 anni il mercato del lavoro non sarebbe in grado di assorbire più di 2260 (questo il numero) laureati in lettere.
E la causa non è nemmeno da ricercare nel fatto che il rettore Vago abbia “scelto” di dedicare risorse al trasferimento delle facoltà scientifiche a Rho sui terreni di Expo invece che assumere nuovi docenti in materie umanistiche. Purtroppo tutti (o quasi) quegli euro non possono essere trasformati in punti organico (ovvero in nuovi docenti).
Purtroppo la verità è che il sistema universitario è sotto-finanziato (cercatevi voi le percentuali sul PIL e confrontatele con quelle degli altri paese europei) e deve sottostare a regole che determinano come vengono divise le poche risorse tra atenei e all’interno degli atenei. La “meritocrazia” che si è voluta (io credo giustamente, alla fine) introdurre nel mondo universitario crea dei vincoli e a volte purtroppo anche delle conseguenze non volute.
Innanzitutto i corsi di laurea sotto le luci della ribalta hanno visto negli ultimi anni un incremento del numero di matricole anche a causa dell’inserimento del numero chiuso in corsi di laurea affini, come Scienze Politiche. Purtroppo sembrerebbe che questo aumento non fosse costituito dagli studenti più motivati e quindi è anche aumentato il tasso di abbandono.
Questo ha causato due problemi. Il primo è che in seguito ad un nuovo decreto del ministero il rapporto massimo studenti/professori è stato ulteriormente ridotto, pena la mancanza di accreditamento (cioè la chiusura) del corso di laurea. Altro che numero chiuso.
Inoltre, il tasso di abbandoni è uno degli altri criteri che concorrono alla formazione del “giudizio” su corsi di laurea e atenei da parte del MIUR che poi assegna una parte dei fondi in base a quel giudizio. L’abbandono in corso degli studenti di storia avrebbe ripercussioni negative su tutto l’ateneo, anche sulle facoltà scientifiche che invece hanno parametri più “in regola”.
La soluzione sarebbe quindi, secondo alcuni, dare più risorse alle facoltà umanistiche affinché possano assumere docenti e ripristinare il rapporto studenti/docenti richiesto dal MIUR, ma la coperta è corta e ciò che va a lettere non va a fisica. Su che base si sceglie come allocare le risorse all’interno di un ateneo direte voi? In base a tante cose come il turnover dei docenti o il numero di laureati ma anche in base alla qualità della ricerca e pare che le facoltà scientifiche abbiano avuto risultati nettamente migliori nella VQR (valutazione della qualità della ricerca) di quelle umanistiche e che quindi legittimamente si aspettino delle risorse, dei punti organico. Con queste risorse poi assumeranno nuove leve oppure promuoveranno alcuni interni che hanno contribuito al buon risultato della VQR. È giusto? È sbagliato? È la meritocrazia bellezza, non sempre piace. E i tesoretti, quando ci sono, non vanno mai all’università.
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