Università
I dolori del giovane ricercatore (italiano)
La situazione dell’Università italiana si può benissimo riassumere contre concetti: pochi soldi, molte incertezze e nessuna visione d’insieme. La descrizione della carriera che oggi un giovane laureato deve affrontare se vuole sperare di diventare Professore ne è un perfetto riassunto.
Per iniziare, il giovane laureato deve affrontare un percorso di dottorato che è irto di ostacoli sin dall’ammissione, che è spesso arbitraria e ostaggio del clientelismo, anziché essere basata sul merito. Se è fortunato, si troverà davanti una commissione che lo valuterà per le sue abilità e il suo curriculum, attraverso prove dove potrà essere esaminato in maniera oggettiva. Alternativamente, la commissione sarà formata da una serie di persone che sanno già chi è destinato a superare l’esame e la prova che dovrà affrontare sarà nient’altro che un orale a porte chiuse, che non lascia ovviamente alcuna possibilità d’appello. A quel punto, l’unica soluzione percorribile per entrare al dottorato è quella di prendersi per tempo, scegliendo un relatore di tesi magistrale che abbia sufficiente peso in Dipartimento da garantirgli un posto, possibilmente con borsa. Il protagonista della nostra storia, ora dottorando con borsa, dovrà sopravvivere con mille Euro al mese per tre anni, che studi a Milano o a Palermo. Avrà a disposizione un piccolo fondo di duemila euro per viaggi e conferenze che dovrà in genere farsi bastare, perché il supervisore non sempre ama attingere dai propri fondi per darli ai propri sottoposti. Se dottorando senza borsa, dovrà pesare per tre anni sulla propria famiglia e, naturalmente, sperare nella benevolenza del proprio supervisore per poter pagare le spese di pubblicazione su rivista, per andare a conferenze, o per formarsi in scuole di dottorato.
Una volta terminato questo percorso, il nostro laureato ora dottore di ricerca deve affrontare fino a dodici anni di precariato istituzionalizzato. In questi anni si troverà con ogni probabilità alla mercé di assegni di ricerca annuali che, spesso, non vengono rinnovati all’ultimo momento, lasciandolo di fatto -e senza preavviso- in mezzo a una strada. Questo termina nel momento in cui il trigono di Marte e Saturno permette l’uscita del Concorso da Ricercatore a Tempo Determinato di Tipo B, che dopo tre anni permette di diventare automaticamente professori. Naturalmente, ciò avviene a due condizioni. Per iniziare, è fondamentale che l’aspirante professore sia già abilitato alla professione, ovvero abbia superato l’Abilitazione Scientifica Nazionale, nonostante questo non sia un requisito per la partecipazione al concorso. Ciò accade perché, nonostante in via teorica sia perfettamente possibile ottenere l’abilitazione mentre si è Ric.Temp.Det. di tipo B, non è detto che il Ministero avvii una nuova tornata di procedure per l’abilitazione in tempo perché il Nostro possa diventare Professore, nonostante sia ovviamente tenuto a farlo a cadenza regolare. Secondo, il Nostro non deve essere nel girone dei precari universitari da troppo tempo: perché i dodici anni citati sopra non sono un numero casuale, ma il tempo massimo di precariato che il ricercatore deve subire prima di essere automaticamente espulso senza troppi rimpianti dal sistema.
Il sopravvissuto R.T.D. B, ora Professore, verrà assunto con uno stipendio bloccato e, naturalmente, pochi fondi a disposizione, vista la progressiva aggressiva riduzione dei fondi dei Piani Nazionali per la Ricerca portati avanti dai Governi che si sono succeduti. Dovrà quindi dividersi tra gli obblighi didattici, gli obblighi di ricerca e la necessità di trovare denaro per pagare le spese di dottorandi e assegnisti che invidiano la sua nuova posizione. Dunque, se è abbastanza intraprendente, si armerà di giacca e cravatta e passerà più tempo in riunioni, commissioni, consigli e comitati che in ufficio o a lezione; questo, naturalmente, richiede che il Professore rinunci completamente ai suoi obblighi di ricerca, delegandola totalmente a dottorandi e assegnisti di cui sopra. Alternativamente, cercherà di sopravvivere con i mezzi a disposizione, facendo ricerca lui stesso e sperando di essere trascinato in qualche progetto dai professori del primo tipo e/o dal caso e/o di ottenere di riffa o di raffa qualche dottorando con cui collaborare. Oppure, ancora, semplicemente si siederà sulla sua nuova poltrona e lì rimarrà, perché ormai ha superato il calvario, ha il Posto a Tempo Indeterminato e, che faccia ricerca o meno, che faccia lezione bene o meno, in fondo, non verrà mai licenziato.
Nel frattempo, in ognuna di queste fasi, il laureando-dottorando-ricercatore-professore si lamenterà invariabilmente della sua condizione, ma senza fare troppo rumore. Se, infatti, protestasse troppo, potrebbe diventare inviso a qualcuno più potente di lui che sarebbe molto felice di rendergli la carriera impossibile. Spesso, una volta professore, non avrà più voglia di battagliare, perché in fondo avrà lo stipendio garantito ogni mese, qualsiasi cosa faccia. In ogni caso, ogni protesta sarà assolutamente mirata a difendere il proprio orto, nella migliore tradizione del “benaltrismo” italiano. Il dottorando protesterà per qualche soldo in più nella borsa (o per averne una), il ricercatore precario protesterà per la riforma del percorso per diventare professore, e da professore tornerà a protestare per il proprio stipendio. Ognuno guarderà alle proprie esigenze immediate e guarderà ogni protesta portata avanti dalle altre categorie con sospetto e diffidenza, perché in fondo sono “ben altri” i problemi dell’Università; ovvero, naturalmente, i propri.
Concludendo, in nessuna di queste fasi, sempre seguendo la tradizione italiana, il popolo dell’Università lotterà unito. Questo naturalmente perpetrerà il progressivo decadimento dell’Accademia italiana che, finché non deciderà di agire come un corpo unico di fronte all’immobilismo dello Stato, non farà altro che tanto rumore per nulla, grazie a occasionali circoscritte proteste e ancora più occasionali e circoscritte conquiste. Il Governo di turno continuerà a cavarsela con manovre una tantum spacciate per “nuova linfa” alla ricerca, quando invece solo una riforma organica dell’Università che coinvolga tutti, da dottorandi, a ricercatori, a professori, dalle modalità di reclutamento alle modalità di erogazione dei fondi e alla quantità dei fondi erogati, è ciò che può salvare l’Università italiana da un declino che pare inarrestabile.
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