Università
Giuseppe Scandurra: lavorare in Università, oggi. Risposta a Pietro Saitta
Nello scorso febbraio, questo giornale, “Gli Stati Generali”, un progetto che vuole integrare l’essenziale del giornalismo professionale con la ricchezza del giornalismo partecipativo, ha aperto una rubrica per raccogliere storie personali e autobiografie professionali legate al lavoro culturale. Il sociologo Pietro Saitta ha inaugurato la rubrica con queste parole: “Il mandato è quello di scrivere un pezzo sul lavoro nell’università. Ossia spiegarlo a chi lo immagina attraverso paradigmi romantici e desueti”. Il mio articolo ha come obiettivo quello di rispondere e provare ad approfondire alcuni temi sollevati dal sociologo.
Vorrei partire proprio dalle parole iniziali di Saitta, chiedendo: siamo così sicuri che il lavoro dei ricercatori e delle ricercatrici che abitano le nostre Accademie sia oggi visto attraverso “paradigmi romantici e desueti”? Ho infatti l’impressione che il mio lavoro (sono un professore di antropologia culturale presso un’università pubblica del centro-nord del Paese) sia per lo più percepito, da chi non è strutturato in Accademia, con tutt’altri paradigmi. Credo, all’opposto, che siamo (solo) noi accademici che continuiamo (ingannevolmente) a vedere la nostra professione con lenti “romantiche” e a raccontarla usando chiavi di lettura desuete.
Certo, la nostra professione fa parte di quei pochi lavori culturali “privilegiati” – in un recente consiglio di dipartimento del mio Ateneo ho ascoltato colleghi e colleghe chiedere chiarimenti sul nostro pensionamento denunciando, quasi tutti, la speranza di andare in pensione il più tardi possibile; mi domando: quante sono, nel nostro Paese, altre categorie professionali che lottano per questo?
Non credo, però, che il “privilegio” di cui ci accusano molti non accademici riguardi questioni economiche (come ricordava bene Saitta, i nostri salari, seppure alti in confronti ad altri lavori culturali, rimangono comunque tra i più bassi se confrontati con altri paesi europei). Ritengo, invece, che tale “privilegio” venga criticato per lo più per questioni “sindacali” e “culturali”. Durante la fase più drammatica dell’emergenza sanitaria legata al Covid, siamo stati – nonostante nessuno di noi facesse più lezione in aula da tempo – tra le prime categorie professionali ad accedere al vaccino. Abbiamo, se ci confrontiamo con altre categorie professionali simili, sicuramente maggiore autonomia nel separare i momenti di lavoro da quelli di “tempo libero”. Siamo in un certo illicenziabili, e ancora poco soggetti a valutazioni quantitative che pregiudichino lo scorrimento di carriera – e potremmo continuare la lista con altre argomentazioni di questo tipo.
Non credo nemmeno più che l’Accademia, rimanendo nel nostro Paese, venga percepita come abitata da una popolazione significativamente politicizzata e tendente a un posizionamento genericamente di sinistra. Semmai, come scrivevo, gli abitanti dell’Accademia sono visti, nella maggioranza dei casi, come appartenenti a una “comunità” caratterizzata da rituali e gerarchie che rimangono “esotiche” a chi ci guarda da fuori – da cui il rimando a questioni che evocavo come “culturali”: ovvero, specifiche forme di baronia, mutate nel tempo per forma e dimensione, ma comunque ancora esistenti e che determinano, come ricordava bene Saitta, ciò che un accademico ha diritto/potere di fare; una divisione del lavoro in giunte e commissioni acuita nel tempo – forme di micro-organizzazioni in cui si lotta con il sangue per entrar, che, pur non determinando quasi mai un aumento di stipendio, garantiscono la possibilità di un esercizio di potere difficilmente comprensibili all’esterno; forme di soddisfazione egotiche che iniziano nel posare la borsa sulla cattedra e vedersi davanti, per tutta la carriera, eterni ventenni costretti, spesso, ad ascoltare i nostri lunghi monologhi. In sintesi, un esercizio del potere e della gerarchia – basti pensare alla relazione tra docenti e amministrativi – che rende l’Accademia una forma di Pubblica Amministrazione non ancora pienamente realizzata, almeno secondo gli standard neoliberali che governano il nostro Paese.
Sono d’accordissimo con Saitta, invece, sul fatto che quello che dovremmo maggiormente dibattere, se vogliamo comprendere il senso della nostra professione, è come sia cambiata nel tempo – potremmo partire dalla nascita dell’università di massa – la figura dell’intellettuale di professione. Saitta si domanda quanti sono quelli che “a metà della loro carriera – magari persino ai vertici di essa” si domandando “se, dopo tutto, l’Università è sempre stata questa cosa”; e continua: “se sono forse loro a essere cambiati, oppure se è il mondo ad avere scaricato l’Università e gli universitari, lasciandoli brancolare in una di quelle proverbiali crisi di senso che caratterizzano dopo tutto ogni generazione di intellettuali”. Credo, infatti, che partire dalla domanda se è cambiato il paio di occhiali con cui guardiamo le cose o è cambiato il mondo sia il miglior modo analitico di procedere.
Avendo la stessa età di Saitta, probabilmente abbiamo un comune sguardo generazionale. Certamente, come lui scrive, il nostro modo di guardare e vivere l’Accademia non è solo “nostro”, per quanto, forse, minoritario; da cui, domando a Saitta, quante altre volte capita di leggere e trovare forza nelle parole e nei pensieri scritti di un intellettuale che influenza il dibattito pubblico utilizzando uno sguardo critico riguardo a ciò che gli stessi sociologi chiamano doxa? Come è cambiata, per l’appunto, la figura dell’intellettuale, per chi come noi ha ancora piacere a leggere alcune prese di posizione di studiosi come Pier Paolo Pasolini?
Vi è un altro aspetto relativo all’articolo di Saitta che faccio mio. La nostra generazione associa ancora il termine “intellettuale” a una pratica circoscritta: lo scrivere. Saitta lo ribadisce con queste parole: “Sto scrivendo un libro e sono concentrato. So già che nessuno vuole pubblicarlo, ma continuo a limarlo ugualmente con affetto”; e si domanda: “Ma allora perché scriviamo?”. Una domanda che io riformulerei così: “Perché continuiamo a scrivere?”. Oggi, un libro di antropologia, la mia disciplina, vende in media 250/300 copie – molte di queste acquistate dai tanti poveri studenti costretti a leggerci per superare un esame. Deve “gareggiare” nello stesso libero mercato in cui, almeno nel nostro Paese, il lettore può trovare un libro di Bruno Vespa o di Fabio Volo. Trattasi quindi di un oggetto periferico, velleitario, praticamente non-letto, come ricorda Saitta, che non produce nessun dibattito se non in contesti accademici, e quindi del tutto autoreferenziali. Ciò rende la domanda ancora più pertinente: perché continuiamo a farlo?
Potrei rispondere a questa domanda utilizzando uno sguardo “romantico”. Scriviamo perché abbiamo qualcosa d’urgente da dire; qualcosa che potrebbe essere utile per chi legge, per far capire a chi sfoglierà le nostre pagine, come capita a molti antropologhi, che il suo disagio rispetto al mondo presente, la sua sofferenza, la sua povertà non dipende dai suoi comportamenti, ma da condizioni strutturali che determinano il rapporto tra individuo e struttura. Scriviamo, e vogliamo che gli studenti ci leggano, perché pensiamo che nostro dovere è formare la prossima classe politica e intellettuale del Paese. Scriviamo per marcare la differenza tra chi ha studiato, quindi deve produrre analisi, e chi affronta gli stessi temi come chiacchiere da bar, riproducendo luoghi comuni.
Forse ci chiudiamo in noi stessi, “ci concentriamo”, come scrive Saitta, ci isoliamo dal mondo come se stessimo facendo il più grande sforzo che un essere umano può fare – e la cosa più necessaria alla sopravvivenza del Pianeta – per ego; alla fine, d’altronde, non siamo anche noi alla ricerca di un Isbn come quegli aspiranti scrittori che, rifiutati dalle case editrici, decidono di autoprodursi per vendere anche una sola copia della loro “opera”, magari a se stessi? Scriviamo perché apparteniamo a una “comunità scientifica” e il nostro compito è quello di fare salire di un gradino il livello di conoscenza su un determinato tema, aggiungendo qualcosa allo stato dell’arte da cui siamo partiti – Saitta evoca in questo senso una parola forse oggi desueta come “scuola”. Scriviamo per diventare “autori”, ovvero, come scrive sempre Saitta, per ricordare al mondo che “un docente esiste […] non unicamente come insegnante”, dunque per sopravvivere a noi stessi – cosa dà più piacere di sapere che un proprio testo “scientifico” è catalogato in una biblioteca e, se valido, continuerà ad essere letto in aeternum?
Ciò spiega perché alcuni tra noi associano ancora oggi, in barba ad ogni politica anvuriana, la scrittura alla produzione di monografie spesse, pesanti, faticose. Ciò spiega perché passiamo mesi a preoccuparci, nel praticare la scrittura, di come proteggere la privacy delle persone le cui pratiche di vita raccontiamo; e, di conseguenza, limiamo come artigiani le nostre pagine al fine di assicurarci che non vi siano ridondanze, cose già scritte, parole che non rispondono alla domanda di ricerca, tautologie. Per questo “puniamo” paternalisticamente quegli studenti che copiano, non ci accontentiamo di tesi compilative, vogliamo che il rispetto della grammatica e delle regole della saggistica sia maniacale.
Ora, però, abbandonando il romanticismo, mi domando: quelle poche persone che ci leggono vedono/percepiscono tale lavoro riflessivo e artigianale? Ma soprattutto, scriviamo veramente per questo? Ancora una volta, la mia impressione è che nessun abitante dei mondi fuori dall’Accademia, leggendo un nostro libro noti riesca a cogliere il nostro processo creativo. Ancora una volta, siamo noi gli unici che si raccontano ciò, pur sapendo quanto questo sia falso, o comunque riguardi ristrettissime minoranze di ricercatori-autori.
In molte università i fondi di ricerca dipendono non dalla qualità dei nostri scritti, ma dalla sola quantità. Dopo che l’ennesima commissione ha stabilito il peso percentile per ogni tipologia diversa di pubblicazione – quanto vale una monografia, quanto vale un articolo in volume, quanto vale un saggio in rivista etc. –, un’altra commissione calcolerà ogni anno quanto ha “prodotto” quel singolo accademico e, di conseguenza, assegnerà a lui dei soldi. Prima dell’ultima riforma universitaria, per esempio, in un mondo autoreferenziale e, di conseguenza, ricco di corridoi e chiacchiericcio, si vociferava che sarebbe stata l’intelligenza artificiale a decidere se dare o non dare l’abilitazione (necessaria per partecipare ai concorsi pubblici) attraverso un gioco algoritmico tutto basato sulla quantità e la ricorrenza di parole chiave. In molti atenei, e comprensibilmente viste le regole del gioco, sono stati denunciati diversi colleghi che immettevano nelle banche dati lo stesso “prodotto” – il nostro modo di chiamare quello che in letteratura viene chiamate “opera” o in musica “composizione” – due o tre volte, al fine di aumentare il numero complessivo.
Saitta sottolinea giustamente come ciò non dovrebbe destare scandalo, poiché tali comportamenti sono in realtà “frutto di un’organizzazione, che produce le condizioni della devianza e che anzi la incentiva fino a che il gioco viene scoperto”. In questa direzione, il sociologo elenca una serie di strategie, oggi anche banali, che vanno a comporre ciò che chiama la “frode accademica”: “Quel fenomeno, cioè, che consiste nella produzione – a firma di singoli oppure di gruppi variamente estesi di sodali – di decine e decine di articoli a testa nel corso di un anno. Oppure negli scambi di firme tra autori e gruppi di ricerca alleati per accrescere il proprio impatto (il numero di citazioni) e la quantità di articoli prodotti da ciascuno (senza avere praticamente contribuito, se non prestando reagenti o svolgendo funzioni analoghe). Così come nell’alterazione di immagini e dati per ricavare da una singola ricerca un amplio numero di pubblicazioni. Senza dimenticare la segmentazione artificiale di un corpo unico di ricerca in rivoli variegati, che non aiutano molto alla comprensione di un fenomeno, ma incrementano il numero di pubblicazioni individuali e collettive”.
Al fine di comprendere perché uno sguardo “desueto” e “romantico” sia più interno che esterno, va sottolineato il fatto che, anche quando proviamo noia e vorremmo occuparci di altri oggetti di ricerca rispetto a quelli che abbiamo studiato per anni – diverse elementi ci spingono a rinunciare. Sono tanti i colleghi e le colleghe che ho conosciuto che sono stati “rimproverati” perché hanno tentato di uscire dal proprio “orticello”. I settori scientifico-disciplinari, nonostante la retorica prodotta dallo stesso Ministero che ci governa sulla necessità di avere uno sguardo transdisciplinare, sono sempre più gabbie da cui è difficile uscire, e, soprattutto, sconsigliabile. Scrivere, di conseguenza, vuol dire innanzitutto selezionare quelle riviste che si occupano di quel determinato tema e batterlo fino a spremere ogni riga “creativa”. Scrivere vuol dire adattarsi al fatto che, nel tempo, quelli che un tempo erano “saggi” – come scriveva Benjamin? In che forma si esprimeva Adorno? – sono diventati format composti di cinque parole chiave, quattro paragrafi numerati, poche ma corpose note a margine, una ricca bibliografia, delle conclusioni che devono rimanere sostanzialmente aperte, tantissime citazioni, e una introduzione, a seguito di un sobrio abstract in lingua inglese che spieghi con parole “semplici” gli obiettivi dei nostri scritti.
La divisione in riviste di fascia A, B. C. etc.– e, ancora una volta, l’assegnazione di un peso relativo alla “categoria” in cui si decide di “gareggiare” – non ha fatto altro che, come sintetizza Saitta, intrappolarci “dentro di un tema”: “un effetto intimo possibile”, ricorda il sociologo, “è la routinizzazione delle attività e degli interessi intellettuali”.
Tali meccanismi, per Saitta, hanno ricadute pratiche non indifferenti. Quanti tra noi hanno provato quella sensazione che il sociologo ben riassume con queste parole: “[…] di stare sì contribuendo a un ampliamento delle conoscenze e alla realizzazione di un grande progetto di ordine superiore (almeno nei migliori dei casi); ma di farlo senza esperire più alcuna autentica eccitazione”? Un articolo sul “Sole 24 ore” di qualche anno fa dimostrava, per esempio, in termini percentuali, come, avanzando la carriera, noi accademici facciamo sempre più ricorso al “copia e incolla” invece che smettere di scrivere quando non abbiamo più nulla da dire. In questo oceano quantitativo e algoritmico, di conseguenza, quello che si disperde sul fondale è proprio la possibilità di poter scrivere un “classico”: “Sarà più facile essere uno tra i tantissimi, ugualmente competenti e titolati, che affollano un mondo professionale le cui politiche mirano a livellare verso l’alto la propria forza lavoro”, scrive Saitta. Non è necessario, allora, leggere Foucault o Barthes per capire come queste “regole” che ci siamo dati stanno contribuendo, anno dopo anno, alla morte dell’“autore”, o comunque dell’accademico, almeno per come questa figura nel corso del Novecento, con il processo d’istituzionalizzazione del sapere attraverso le discipline, noi stessi abbiamo continuato, ingannevolmente, a idealizzare. Saitta ricorda, con evidente sarcasmo, quelle telefonate rituali che ciascuno e ciascuna di noi ha fatto per avvisare i colleghi, o comunicare via social, circa la vittoria di una bando – da cui soldi, potere, possibilità di “allargamento” della propria cattedra. Difficilmente, invece, ci telefoniamo per condividere pensieri, recensioni negative – che non esistono praticamente più – di libri che abbiamo trovato inutili, conservativi, che non aggiungono nulla all’analisi.
Vi è una letteratura felice che ironizza su noi docenti che viaggiamo per partecipare a convegni. Andrebbe però aggiornata, perché mai come oggi anche questi – con i loro chair, i discussant, i panel, i paper, le call, il dibattito che non c’è mai, i power point onnipresenti etc. etc. – rispondono a format che ciascuno e ciascuna di noi si promette di decostruire non avendo però mai una idea precisa sul come sia possibile farlo – il dibattito sul ripensamento dei rituali di confronto tra accademici sembra sempre più simile e velleitario di quello sulla ricostruzione della Sinistra in Italia. In un recente articolo della rivista “Internazionale” si menzionava una statistica per cui i chirurghi verso i cinquant’anni raggiungono l’apice della propria carriera, diventano bravissimi nel loro settore specialistico, per poi, anno dopo anno, perdere in creatività. La soluzione sarebbe semplice, poiché basterebbe “aggiornarsi” quotidianamente, andando a vedere, per esempio come i colleghi e le colleghe affrontano con idee e strumenti diversi gli stessi problemi (ma chi, tra noi accademici, va mai a vedere come fanno lezioni i colleghi per impedire tale naturale processo di rincoglionimento?).
Chi ha tempo di leggere, sottolinea Saitta, quando ogni accademico è sempre più impegnato, come fosse un criceto, a fare il giro della propria gabbietta? – a meno che non voglia trasgredire le regole del gioco, pagandone le conseguenze in termini di carriera; ma d’altronde, chi, come ricorda ancora Saitta nel suo articolo, può permettersi di trasgredire tali paradigmi quando il “successo” è garantito proprio dall’integrazione al sistema accademico? Chi ha partecipato a bandi europei per sperare, in tempi di vacche magre, di vincere soldi, dunque potere, dunque possibilità di scrivere ancora di più, per esempio, sa benissimo che esistono “parole chiave” – Saitta elenca tra queste “Sostenibilità”, “Confini”, “Comunità energetiche”, “microplastiche”, ma potrebbe aggiornare l’elenco anno dopo anno – dentro cui qualunque scrittura deve sottostare se vuole vincere (che asimmetria c’è, viene da chiedersi, tra gli interessi del ricercatore, facilmente calpestabile, e quelli del “soggetto finanziatore”? Chi sono allora i veri “autori” fuori dalla nostra rappresentazione “romantica”?).
Ha ragione Saitta, ancora una volta, nel tracciare le conclusioni: “Semmai esistano ancora immaginari romantici sulla ricerca e l’accademia, si dovrebbe notare che questi sono mondi che non sono affatto sfuggiti alle trasformazioni del presente”. La mia conclusione, però, vuole essere un’altra, a partire da questa considerazione: leggendo queste parole, qualche lettore, infatti, potrebbe pensare che sia esistito, visto l’evidente ed esplicitato “taglio generazionale” delle mie parole, un tempo in cui l’Accademia era abitata da intellettuali; di conseguenza, romanticamente, potrebbe pensare che sia esistita un’Accademia migliore. Ritengo, proprio per non dare adito a nessun pensiero “romantico” – che poi è il fine e il motivo di dialogo con l’articolo di Saitta – che ciò, vero o non vero, non cambi di una virgola il discorso, e, per questo, faremmo meglio, a non discuterne.
Ciò che invece, a mio avviso, meriterebbe maggiore attenzione analitica è quello che sta succedendo, oggi, in molte università americane e non solo, dove soffia un vento di “protesta”. Credendo sempre più che qualunque cambiamento dall’interno sia impossibile, non dovremmo, come accademici, pregare affinché siano i nostri prossimi studenti e le nostre prossime studentesse a ripensare, e a spingerci di conseguenza a farlo anche a noi, il ruolo, il penso e la forma della figura dell’intellettuale rompendo un pensiero sempre più “unico” e permettendo a tutti noi, di conseguenza, di sfuggire alle trasformazioni nefaste che hanno toccato e modificato la grande parte dei lavori che riteniamo “creativi”?
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