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Frontiere dell’academic blogging

1 Gennaio 2015

Sul terreno della comunicazione scientifica e della diffusione della conoscenza, il secondo decennio del Ventunesimo secolo è caratterizzato dall’emergere della pratica dell’academic blogging, ovvero dell’uso da parte dei professionisti della ricerca e degli alti studi degli spazi di pubblicazione online riservati alla scrittura personale al fine di divulgare sapere, di lanciare interpretazioni, di intervenire in dibattiti.

Anche la testata da cui sto scrivendo rappresenta un frutto di questa tendenza, visto che nasce dal tentativo di aggregare e di mettere in reazione autori di provata competenza, e testimonia che l’Italia non è affatto estranea al fenomeno. Il nostro è del resto il paese di Lavoce.infonoiseFromAmerikaROARsMedbunker, per citare solo alcuni titoli tra le varie tipologie di intervento sul web di specialisti del lavoro scientifico. A dettare il ritmo dello sviluppo del settore sono però le grandi piattaforme in lingua inglese, forti di un pubblico potenzialmente universale e di una robusta tradizione di magazine specializzati e di outreach activities da parte degli atenei.

Lo spostamento sul web del core della diffusione di pubblicazioni “storiche” come il britannico Times Higher Education e l’americano The Chronicle of Higher Education, e la nascita da una costola di quest’ultimo di Inside Higher Ed, sono stati accompagnati dalla proposta e dalla graduale espansione di spazi autoriali autogestiti di aggiornamento scientifico e di dibattito, affermatisi come veri e propri aggregatori in cui il contributo dei singoli era potenziato nell’impatto dal sostegno di un brand riconoscibile, dalla circolazione massiva dei prodotti altrui e dalla possibilità di inserirsi in un percorso collettivo di riflessione e di influenza reciproca. A questi risultati è seguito il tentativo di alcuni istituti di ricerca di proporre punti di aggregazione dell’attività di blogging del proprio personale e dei propri studenti. Non si è trattato solo di offrire un sistema con “copertura” istituzionale per scritture personali disorganiche (come invece si limitano per ora a fare, senza risultati di rilievo, alcuni atenei italiani), ma di varare veri e propri progetti di discussione a tema tarati sulla base della mission dell’istituzione. Particolare successo stanno incontrando, tra gli altri, gli spazi blog attivati dalla London School of Economics e suddivisi per area geografica o tematica.

Nel giro di pochi anni, insomma, gli osservatori si sono accorti che l’academic blogging ha sviluppato un’ecologia complessa. La sua funzione, infatti, appare ormai articolata su più terreni.

Sicuramente, la ragione principale per cui uno studioso si avventura nel mondo del blogging è la ricerca di una modalità di comunicazione dei risultati scientifici o della loro applicazione alla realtà quotidiana più rapida e diretta, rivolta a un pubblico più ampio di quello degli specialisti e capace di penetrare nella coscienza collettiva con una profondità impensabile per altre modalità di scrittura. Ora, attraverso i blog passa molto del contributo degli operatori professionali della ricerca scientifica al dibattito politologico ed economico, alla critica letteraria e artistica, all’aggiornamento sulle pubblicazioni di carattere saggistico, alla riflessione sulla funzione sociale delle scoperte scientifiche e mediche, al debunking di affermazioni scientificamente sospette o apertamente infondate. E questo, fa notare un analista di vaglia come Patrick Dunleavy, non sta semplicemente cambiando lo stile di redazione dei pezzi, col sempre più frequente ricorso da parte degli autori a un lessico accessibile, meno arroccato sul sottinteso tecnico e più attento a diluire i concetti nella prosa. Soprattutto nelle scienze sociali, dove la possibilità di far camminare le proprie idee sulle gambe delle persone rappresenta un elemento di particolare pregio per definire il ruolo e l'”utilità” sociale di uno studioso, il blogging sta incidendo anche sui contenuti del lavoro intellettuale. Le domande che ci si pone per la redazione dei post sono più accessibili al mainstream dell’opinione pubblica, il loro legame con l’attualità è più evidente, e i campi di specializzazione dell’autore hanno spesso minore influenza sulla scelta dei temi rispetto alla possibilità di offrire un contributo informato a un dibattito particolarmente vivace e interessante.

Al di là di questo, i blog relativi a discipline di ricerca stanno sviluppando altre funzioni. Prima di tutto, essi sono emersi come luogo privilegiato per la riflessione su modalità ed effetti della comunicazione scientifica e intellettuale. Il fatto di essere la “frontiera” della ricerca professionale nei confronti del mondo “esterno” pone in forma esplicita e quasi urgente a chi scrive sui blog il problema della veicolazione dei contenuti, dell’intreccio tra modalità di presentazione e di scrittura ed efficacia della diffusione di un tema, della comprensibilità, dei possibili usi della scrittura accademica. Non a caso proprio da discussioni online sono partite le più ficcanti denunce dell’uso improprio delle forme di espressione scientifica “ufficiale”, delle loro asperità e della loro scarsa diffusione al di fuori della “torre d’avorio” al fine di migliorare i curriculum senza effettivi contributi alla scienza. Appare quindi legittimo che una delle sezioni di maggior successo del panorama blog della LSE riguardi la diffusione e l’impatto delle scienze sociali, e abbia ospitato negli ultimi mesi numerosi contributi proprio relativi all’academic blogging, alla sua natura e alla sua utilità. In questo senso la domanda apparentemente ironica posta proprio sul sito LSE da un’esperta di scrittura accademica come Pat ThomsonWhy do bloggers blog so much about blogging?, non cerca tanto di denunciare la tendenza all’autoreferenzialità spesso imputata agli autori di spazi personali online, quanto di mettere in evidenza le potenzialità di una critica sciolta, immediata e non canalizzata in stili troppo rigidi per il miglioramento espressivo e il controllo formale delle pubblicazioni scientifiche.

Inoltre, come è stato messo bene in evidenza su The Chronicle da Kellie Bartlett, i blog sono diventati lo strumento principale per dibattere con libertà e freschezza sulle politiche accademiche e sulla vita professionale e sociale all’interno degli atenei e del mondo della ricerca. Attraverso lo scambio di impressioni in tempo reale sugli spazi web personali le politiche della ricerca delle varie regioni del mondo sono state studiate, dissezionate e comparate con una intensità senza precedenti; i rapporti di potere e di responsabilità tra le varie figure di studiosi sono stati analizzati e messi spesso in profonda discussione, grazie a una piattaforma di confronto refrattaria a riprodurre in modo esatto le logiche e i comportamenti dei luoghi di lavoro; il precariato accademico internazionale si è riconosciuto in una condizione comune e ha iniziato a sviluppare una propria identità.

Questa ricchezza espressiva dello strumento-blog rappresenta per molti versi anche un punto debole. I contenuti dei post, secondo il loro orientamento o i loro riferimenti, possono infatti rivolgersi a pubblici profondamente diversi, ed essere solo in parte adeguati al lettore “generalista”, soprattutto quando la riflessione sulla professionalità accademica o sulla circolazione del sapere assume caratteri “esoterici”, risultando difficilmente comprensibile ai non addetti ai lavori e trasformandosi quasi in uno scambio tra “iniziati”. Così, interventi in cui ormai si intrecciano sempre più spesso esposizioni divulgative di risultati disciplinari, considerazioni personali sulle proprie condizioni di lavoro e frecciate polemiche a lavori altrui possono avere difficoltà a trovare un pubblico di riferimento adeguato alla ricezione.

Anche la rapidità nella circolazione massiva delle idee, vero punto di forza che ha portato molti autori a cimentarsi nell’academic blogging, si traduce in rapidità della loro “consumazione”. Post letti (o quantomeno condivisi in base al titolo e alla breve presentazione sui social network) da decine di migliaia di persone in pochi giorni spariscono altrettanto velocemente dalla coscienza collettiva, soppiantati da altri spunti d’interesse nel torrenziale flusso di informazioni che caratterizza il nostro tempo.

Infine, l’assoluta libertà d’azione concessa da un medium meno controllato delle pubblicazioni scientifiche “formali” o degli interventi in convegni e meeting ristretti si mostra un’arma a doppio taglio per la credibilità dei blogger accademici e intellettuali. Cosa pensare di uno studioso di prestigio, magari un economista attivo negli USA, che usa strumentalmente la sua reputazione di studioso rigoroso per intervenire con posticcia autorevolezza su temi dei quali, chiaramente, non padroneggia i rudimenti minimi per produrre un’opinione fondata, ad esempio l’efficacia didattica dei programmi di formazione secondaria?

Queste ragioni sono sufficienti per dire con Rohan Maitzen che la produzione di blog non è un’alternativa efficace alla produzione scientifica in sedi più controllate e destinate, per la loro presenza in circuiti bibliografici consolidati e pienamente inseriti nella pratica operativa degli studiosi, a una vita decisamente più lunga. Allo stesso modo, del resto, la semplice aggregazione di spazi di scrittura personale in piattaforme di diffusione non sostituisce sic et simpliciter il lavoro di redazione per la “costruzione” e il controllo delle notizie giornalistiche.

Ma, proprio come accade nel giornalismo, così nell’universo della comunicazione del sapere avanzato il blogging non è solo un divertissement fine a se stesso, ma sta acquisendo un ruolo di sistema. Uno studio della World Bank mostra che trattare su un post di un articolo pubblicato su una rivista scholarly produce un incremento nell’ordine di decine di volte delle visualizzazioni totalizzate da quest’ultimo. Evidentemente, il riferimento in un luogo non convenzionale permette a ricerche potenzialmente interessanti a una platea più ampia di raggiungere lettori prima neppure consapevoli della loro esistenza. E il riferimento alla stessa platea di lettori istruiti e informati, ma non coinvolti nel dibattito scientifico in prima persona, può rendere il post di un blog il luogo idoneo per azzardare ipotesi di lavoro ancora abbozzate e insoddisfacenti (e quindi inaccettabili in sedi più controllate), e per raffinarle alla luce di osservazioni non scontate e libere da pregiudizi. Questo senza contare il fatto che le case editrici hanno ormai colto i vantaggi di una pubblicazione rapida, ad elevata diffusione, e spesso più brillante e “graffiante” per la libertà di scrittura concessa dal mezzo, per la diffusione di recensioni e presentazioni di nuove pubblicazioni monografiche.

 La natura e l’effettiva utilità di funzionalità come queste, che emergono dalla pratica della scrittura scientifica online sono ancora difficili da cogliere e da considerare nello stilare il profilo di uno studioso. Si tratta tuttavia di una questione che interessa sempre di più e che può essere destinata a modificare in modo sostanziale la professionalità accademica. Sta a dimostrarlo, del resto, il crescente successo di metodologie di rilevazione dell’impatto “non convenzionale” delle ricerche, come quelle proposte negli ultimi anni dai progetti per la misurazione delle cosiddette Altmetrics.

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