Università
C’è progetto e progetto. Sullo stato del finanziamento della ricerca italiana
Il riconoscimento del premio Nobel per la fisica a Giorgio Parisi ha riportato la questione del finanziamento della ricerca italiana sulle prime pagine dei giornali. Ormai la situazione pietosa del finanziamento della ricerca è conoscenza comune e non occorre riportare qui le tante statistiche che ci mettono agli ultimi posti in Europa e non solo. Meno noti e probabilmente bisognosi di discussione sono invece i vari tentativi ministeriali di rispondere a questo problema. Qui ci concentreremo sulla questione del finanziamento della ricerca tramite progetti, lasciando da parte il problema del numero basso dei ricercatori e dei professori universitari italiani. (Basso da sempre, e significativamente abbassatosi dopo gli interventi di Letizia Moratti e Maria Stella Gelmini).
Capire come è strutturato il finanziamento dei progetti italiani è necessario anche per mettere nella giusta prospettiva il recente bando di finanziamenti (FIS – subito ribattezzato l’ERC italiano), ovvero un bando competitivo per finanziare progetti molto corposi in capo a singoli ricercatori. Con questa iniziativa il ministero si è ispirato allo schema europeo (ERC) che finanzia, generosamente, un numero molto ristretto di progetti considerati il meglio della ricerca in diversi campi. Il ministero ne ha copiato di fatto il carattere fondamentale: il concentrarsi su pochi progetti con finanziamenti considerevoli (in questo caso fino a un massimo di 1mln per i ricercatori junior e fino a un massimo di 1,5 mln per i ricercatori senior) in modo da dare a pochi le risorse sufficienti per competere a livello internazionale.
Non intendo qui contestare questa iniziativa e lo schema ripreso di per sé. Anzi credo che per molti aspetti sia una buona idea, se presa di per sé. È invece problematico il rapporto di questa iniziativa con la struttura generale del finanziamento della ricerca italiana perché introduce elementi distorsivi in un contesto già caratterizzato da problemi strutturali. Per capire perché questa iniziativa, pur di per sé apprezzabile, sia problematica bisogna capire come è stata sostenuta la ricerca universitaria negli ultimi anni.
Da un lato vi sono i finanziamenti ordinari per la ricerca, un magro fiumiciattolo disperso in rivoli dipartimentali, che sono nella disponibilità automatica del singolo per attività connesse alla ricerca. Quanti siano e a cosa servano dipende dalle discipline. Ma giusto per fare un esempio, nel mio caso si tratta di poche centinaia di euro all’anno per attività di varia natura (ad esempio, per la partecipazione alle conferenze o per il controllo linguistico degli scritti in inglese). Dall’altro lato, il ministero ha anno dopo anno variato la natura dei bandi competitivi per aggiudicare finanziamenti ai progetti più meritevoli. In questo senso il mantra è stato quello di dare finanziamenti dopo una valutazione competitiva della qualità dei progetti, riprendendo lo spirito di pratiche consuete a livello internazionale. Il principio è, ovviamente, sacrosanto, ma la sua applicazione è stata quantomeno irrazionale.
Il cardine del finanziamento dei progetti universitari negli ultimi decenni sono stati i PRIN (Progetti di ricerca di rilevante interesse nazionale) con cui il ministero ha incoraggiato la creazione di network di atenei per la collaborazione su una tematica comune. I PRIN degli ultimi anni hanno avuto una periodicità irregolare (2008, 2009, 2010-11, 2012, 2015, 2017, 2020) e una consistenza molto variabile di finanziamenti (tradizionalmente molto bassa, a parte la tornata del 2017). A latere di questi network di ricerca sono stati finanziati anche alcuni schemi concentrati più sui singoli ricercatori (Programma Rita Levi Montalcini, oppure i SIR). Questi schemi, creati e poi fatti morire nel giro di un bando solo, hanno avuto una vita ancora più estemporanea.
Per farla breve, il ministero ha variato molto la natura, la periodicità e il finanziamento dei progetti di collaborazione e ha finanziato solo saltuariamente quelli individuali, dei quali l’attuale FIS è solo l’ultima, ed estemporanea, manifestazione. Senza ipotizzare che questa erraticità sia parte dello spirito nazionale, bisogna constatare che si manifesta in molti ambiti in cui invece ci sarebbe bisogno di programmazione pluriennale. Infatti, oltre al problema del sottofinanziamento, la periodicità e consistenza irregolare del finanziamento è un enorme problema per la ricerca che ha naturalmente una natura pluriennale. Inoltre, bandi con cadenze irregolari hanno anche avuto svariati ritardi nell’aggiudicare i progetti. Ciò ha reso ancora più difficile programmare lo svolgimento normale delle attività o il reclutamento. Tutto questo crea effetti distorsivi di vario tipo. Visto che i bandi non hanno una cadenza regolare, all’apertura di un nuovo schema di finanziamento c’è una sorta di assalto alla diligenza da parte di tutti, per il timore (fondato) che non vi saranno più soldi per molti anni. È verosimile che succeda lo stesso per l’attuale FIS (ERC italiano): finanziamenti individuali molto ghiotti che non si sa se saranno riproposti in futuro.
Il perché si creino questi ammassi e colli di bottiglia dipende da errori nella programmazione e dallo scarso finanziamento, ma anche da una stortura ideologica che è doveroso segnalare. Nei primi anni 2000 si era creata una vulgata giornalistica secondo la quale il problema della ricerca in Italia fossero i mitici finanziamenti a pioggia, tanto osteggiati da una pubblicistica conservatrice ammantata di un liberismo à la carte. Secondo questo refrain la ricerca italiana non poteva competere con quella internazionale perché dava poco a tutti quanti, mentre la strada giusta sarebbe stata dare il giusto solo ai più meritevoli. E il modo migliore per riconoscere i meritevoli erano i bandi competitivi sulla scia delle best practices europee. Questa idea è diventata un mantra ideologico perché ha preso alcuni principi sacrosanti ma li ha applicati in maniera distorta. Riprendendo la lettera (ma verrebbe da dire non lo spirito) degli schemi europei, negli ultimi anni c’è stata la tendenza a finanziare solo progetti mediamente grossi di network e adesso di ricercatori singoli (gli ERC italiani) tagliando il finanziamento ordinario. Ma come è noto a tutti quelli che fanno ricerca per davvero, i grandi progetti sono solo una parte (la più visibile ma non necessariamente la più indispensabile) di una serie di collaborazioni, sperimentazioni, assunzioni, scambi che hanno una natura molto più ordinaria e continua. Per garantire il funzionamento di questo livello della ricerca i grandi progetti non servono. Anzi, semmai è vero il contrario: affinché abbiano senso i grandi progetti (che servono per svolgere alcuni tipi di ricerca che richiedono molti soldi e molte persone che lavorano assieme contemporaneamente) è necessario che vi siano molte attività ordinarie ben finanziate e funzionanti. Questo è tanto più vero se si considerano le implicazioni pratiche dei grandi progetti. Richiedono personale dedicato per l’amministrazione e la rendicontazione finanziaria, oltre, ovviamente, a molto tempo dedicato dai ricercatori nella stesura del progetto e nella gestione.
Infine, l’idea che solo grossi progetti vengano incentivati è fuorviante anche dal punto di vista tematico. Probabilmente sono inevitabili in diverse discipline scientifiche viste le apparecchiature necessarie per la ricerca odierne. Ma sono distorsivi per discipline umanistiche e sociali. Di quest’ultime non si parla molto dato il loro impatto relativamente minore nelle grandi sfide scientifiche contemporanee. Ma è doveroso chiedersi perché vengano incentivati i progetti grossi anche in letteratura, storia, pedagogia o filosofia (il mio ambito). Assumendo che, come è inevitabile, i finanziamenti per queste (e altre) discipline siano minori rispetto alla fisica, alla biologia, alla medicina, etc., se vengono incentivati progetti grossi, il risultato sarà che saranno finanziati pochissimi progetti nelle discipline umanistiche e sociali. E dovendo essere necessariamente grossi per apparire adatti a questo tipo di bandi, dovranno scimmiottare le pratiche di altre discipline. In molti casi, invece, per le discipline umanistiche e sociali sarebbero sufficienti finanziamenti molto minori ma regolari e distribuiti su più progetti. La realtà attuale è invece un finanziamento ordinario troppo basso per fare diverse cose. Non è possibile pensare a schemi di finanziamento intermedi, né le poche centinaia di euro annue di cui sopra, né i mega progetti da 1mln di euro? Una distribuzione di fondi più limitata ma più continua e su progetti più piccoli permetterebbe anche ai ricercatori di avere ragionevoli aspettative, senza la certezza, di poter sviluppare continuamente il proprio lavoro senza dover attendere bandi lunghi e complessi. Non so se questo significherebbe tornare ai tanto vituperati finanziamenti a pioggia. So solo che i grandi progetti, senza finanziamenti a pioggia, rischiano di essere cattedrali nel deserto.
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