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Autobiografie del lavoro. Pietro Saitta ci racconta il burocratico universitario

24 Febbraio 2024

Con questo contributo di Pietro Saitta, professore ordinario di Sociologia del Diritto all’Università di Messina e autore tra gli altri dei saggi: Violenta speranza. Trap e riproduzione del panico morale (Ombre Corte, 2023), Populismo urbano. Autoritarismo e conflitto in una città del sud (Meltemi, 2022), Quota zero. Messina dopo il terremoto: la ricostruzione infinita (Donzelli, 2013), apriamo la serie sul lavoro alle autobiografie. Storie personali e politiche dal lavoro culturale, ma non solo. Qui Pietro Saitta racconta cosa significa oggi lavorare in un’Università in Italia, tra burocrazia e formazione, tra rapporti e relazioni spesso non poco complicate con colleghi e studenti.

Il mandato è quello di scrivere un pezzo sul lavoro nell’università. Ossia “spiegarlo a chi lo immagina attraverso paradigmi romantici e desueti”. Accetto. Anche se sto scrivendo un libro e sono concentrato. So già che nessuno vuole pubblicarlo, ma continuo a limarlo ugualmente con affetto. Noto anche che da qualche tempo mi chiedono di fare pezzi – capitoli per libri o articoli per rivista – dal carattere autobiografico. Dopo tutto, mi dico, ho scritto già un bel po’ su questo in precedenza. Anche se credo che nessuno legga niente, forse non è del tutto vero e per questo mi chiedono di insistere sul punto. Poi ripenso a quest’ultima cosa e mi dico che sì che è vero. Certo, qualcuno leggerà ancora. Ma quanti vuoi che siano e qual è, di riflesso, il senso di continuare a scrivere. Dopo – non so bene il perché – ripeto il gesto di ogni volta: apro un file e inizio a stendere un nuovo testo. Immagino che lavorare all’università sia molte cose. E tra queste ci sta la concatenazione di stati d’animo, interessi, obblighi, richieste improvvise e strane motivazioni a fare cose che non si fa più da tempo e che un po’ mancano. Oppure che non si comprendono più, ma che si fanno ugualmente, giungendo persino a risentire  un trasporto  improvviso per esse.  Un sentimento che non ti spieghi. Come se le righe che prendono lentamente forma sullo schermo dovessero aggiungere chissà cosa al mondo.
Non so quanti tra i miei colleghi condividono il senso di ciò che sto provando a  dire. Quanti, cioè, nel loro intimo, o magari senza confessarlo neanche a sé stessi, prendono a muoversi in un mondo che hanno molto amato e che riconoscono sempre meno. Ignoro, insomma, quanti tra loro si ritrovino a metà della loro carriera – magari persino ai vertici di essa – domandandosi se, dopo tutto, l’Università è sempre stata questa cosa. Se sono forse loro a essere cambiati, oppure se è il mondo ad avere scaricato l’Università e gli universitari, lasciandoli brancolare in una di quelle proverbiali crisi di senso che caratterizzano dopo tutto ogni generazione di intellettuali.

Tuttavia da sociologo credo anche di sapere che non esistono esperienze del mondo realmente uniche. Minoritarie, ma mai uniche. Semplicemente indicibili, spesso. Mi dico allora che probabilmente è vero: sto parlando di me, ma non soltanto di me. Mi tranquillizzo in questo modo e prendo a pensare che posso buttare giù queste righe sapendo di stare parlando forse non del lavoro all’università, ma di uno dei modi attraverso cui questo oggetto è vissuto e compreso.
Bene, un po’ l’ho già detto. Almeno per alcuni il lavoro universitario è, tra le tante cose, l’arte di muoversi tra richieste che piovono dal nulla attraverso un messaggio. Una storia di interessi pieni di interruzioni e di routine di cui a volte non si comprende più il senso e che ci si ostina a fare al meglio. Può essere, cioè, un’esperienza di lavoro come mille altre; che si confronta però con ambizioni, idealità, interessi, che costituiscono virtualmente il senso stesso di questo lavoro e che, però, si modificano e addirittura svaniscono come i tanti sé di una vita. E che, tuttavia, non ci si può permettere di fare scomparire nel nulla.

Scrivere, per esempio, è proprio quell’attività che nell’Università del presente non si dovrebbe mai dismettere del tutto. Non è solo un fatto materialistico da cui dipendono scatti e avanzamenti. Ossia un po’ più di soldi in busta paga ogni due o tre anni; oppure la possibilità di raggiungere quelle soglie che permettono, insieme a mille altri elementi, di essere abilitati o promossi al livello superiore della carriera. Scrivere un saggio scientifico è quell’elemento che consente di ricordare al mondo che un docente esiste in quanto autore e non, unicamente, come insegnante. Ossia come presenza significativa per qualche decina o centinaia di studenti che lo incontreranno nel corso della loro vita universitaria. Scrivere, dunque, è quello che identifica agli occhi dei pari un professionista e una persona. Ciò, a maggior ragione, dentro un sistema che è fondamentalmente insensibile alla storia di ciascuno.
Per esempio un professore ordinario che non scrive, smetterà presto di potere essere un commissario di concorso. E lo sapranno tutti: il suo nome, infatti, sarà non più sorteggiabile ai fini della composizione di una commissione. E chi, per mille motivi, anche non deprecabili, confidasse sulla sua presenza, non potrà fare a meno di osservare che è un improduttivo e che non “ha le soglie”. Resterà sì un docente al massimo della carriera, ma non giocherà un ruolo significativo al di fuori del proprio dipartimento. E anche all’interno di quest’ultimo, la sua influenza sarà molto limitata. Molte altre funzioni interne gli saranno infatti negate. Qualcuno, al limite, potrà persino convocarlo e invitarlo confidenzialmente a riattivarsi perché il dipartimento di afferenza non può permettersi i costi di un improduttivo (tra le altre cose, infatti, i finanziamenti di un dipartimento, così come quelli di un ateneo, dipendono dalla “produttività scientifica” dei suoi membri).

Dunque per quanto ricca di titoli e significativa sia la storia scientifica di un docente – a prescindere dalla sua posizione nella carriera e dal suo essere di ruolo oppure precario (sia pure con le debite differenze di prospettiva e garanzie tra le due condizioni, è chiaro) – questa dev’essere continuamente rinnovata. Non ha una importanza assoluta in sé. Ciò che si è realizzato in passato è solo quello che è servito a conquistare ciò che si è ottenuto. Ma non servirà automaticamente a conseguire altri obiettivi. E questo, peraltro, lo sapranno tutti. Nel regime della trasparenza, infatti, una simile informazione non può essere nascosta. Se si fa richiesta per dei fondi di ateneo, una graduatoria mostrerà a quanti richiedenti siano stati concessi. E insieme al loro nome ci sarà un punteggio. Si potrà  vedere in tal modo che un nome ancora oscuro, corrispondente magari a quello di un ricercatore, ha acquisito negli ultimi anni un punteggio ben più alto di un ordinario del settore. E anche l’assenza di un nome dalla lista farà drizzare le antenne ad alcuni: il nome di tizio manca perché i fondi li aveva già ricevuti nella tornata precedente, oppure perché non ne aveva diritto (non aveva, cioè, pubblicato abbastanza)?
Il lavoro universitario contemporaneo, dunque, non è fatto di isolamento intellettuale, ma di spinte diversificate a fare ciò per cui si è pagati. Avrei dovuto dire sottopagati, in senso assoluto (come nel caso dei docenti a contratto oppure di altre figure precarie) oppure relativo (in gran parte dell’ Europa occidentale il salario è sensibilmente più alto quasi per tutti i ruoli), ma poco importa al momento. Quello che conta in questa fase della discussione è sottolineare invece come cambi la figura dell’intellettuale di professione. E quali frizioni vengano determinate da tali trasformazioni.

A tal riguardo la prima osservazione è che nel quadro contemporaneo questa figura potrebbe essere più correttamente annoverabile tra quella delle professioni creative: ovvero di quelle professioni  che producono beni materiali o immateriali e che devono farlo a prescindere dai propri interessi e dalle proprie motivazioni intime. Certamente a limitare la validità di questa affermazione vi è il fatto che il salario del professore non dipende dalle committenze o dai progetti. Ma per quanto vi siano delle importanti differenze tra i settori disciplinari scientifico-tecnologici e quelli umanistici, è anche vero che dalla titolarità delle collaborazioni esterne e dei progetti finanziati dipende la possibilità data a un docente di ampliare il numero di collaboratori (dare lavoro a precari), produrre ricerca (articoli, brevetti o altri titoli ritenuti fondamentali), accrescere la propria reputazione (ossia il proprio “impatto”; sarebbe a dirsi il numero di citazioni e ciò che il suo nome evoca presso i pari e non solo) e acquisire influenza accademica (per esempio come commissario nei concorsi, dotato magari di un peso simbolico valido solo informalmente, ma comunque effettivo nelle conseguenze).

Come in tutti i processi organizzativi, a partire da una simile organizzazione tecnica del lavoro derivano conseguenze relative al sé, che non sono per questo unicamente soggettive. La prima conseguenza è l’intrappolamento dentro di un tema. Per quanto è probabile che quest’ultimo sia stato prescelto dal docente a un certo punto della propria carriera e che da esso siano derivati dei vantaggi – come per esempio la sua riconoscibilità presso i pari e non solo – è anche vero che le  passioni mutano. È possibile, cioè, che la noia a un certo punto faccia capolino. E con essa la voglia di cambiare completamente gli oggetti di studio. Se farlo è certamente possibile, è vero anche che il valore assegnato alla specializzazione e il coinvolgimento in reti  e progetti di ricerca, costringa i docenti – in alcuni settori molto più che in altri – a limitare le fughe. Un effetto intimo possibile, dunque, è la routinizzazione delle attività e degli interessi intellettuali. La sensazione, cioè, di stare sì contribuendo a un ampliamento delle conoscenze e alla realizzazione di un grande progetto di ordine superiore (almeno nei migliori dei casi); ma di farlo senza esperire più alcuna autentica eccitazione. Si tratta, cioè, della possibilità di intendere il lavoro intellettuale come rimasticatura. Una condizione che molti esperiscono, da cui possono trarsi dei vantaggi (il minore dei quali è quello di non essere considerati improduttivi) e con cui si viene a patti attraverso strategie psicologiche e di produzione di senso differenti.
Di certo vincere un finanziamento è per molti sempre eccitante. Il momento della pubblicazione dei progetti ammessi dà spesso luogo a un rituale fatto di telefonate e messaggi entusiasti tra persone collocate in regioni e paesi diversi, che da lì a poco malediranno – dopo averlo già fatto alcuni mesi prima – quella burocrazia che impone loro modi sempre diversi di rendicontare le spese, fare i bandi per gli assegni o i posti di ricercatore, oppure di correre per giungere puntuali alla consegna obbligatoria di un risultato previsto dal progetto. Ma intanto la notizia della vittoria viene annunciata dai fortunati sui social network. Quelle stesse reti e pagine web, del resto, che presto potranno servire per la disseminazione dei risultati scientifici e che tendono a trasformare la personalità pubblica dell’accademico/a in quella di un soggetto, appunto, molto social e alla lunga persino vanesio, impegnato a informare la propria comunità di riferimento di ogni viaggio, aeroporto, riunione, convegno e risultato minuscolo o maiuscolo – ma in generale molto ordinario e banale – che abbia a che fare con il suo progetto. Spesso una mole di questi ultimi, vinti e co-gestiti con grande fatica.

Una fatica, peraltro, che non è affatto detto che si trasformi rapidamente in un passaggio di posizione, come, per esempio, quello da professore associato a ordinario. Si tratta di un’evenienza che, comprensibilmente, finisce frequentemente col generare risentimenti e indurre domande sul senso di questa grande fatica. Si tratta comunque di ripensamenti destinati in molti casi a restare un mero esercizio, dato che, non importa quanti progetti si siano coordinati, si è di fatto intrappolati. La concorrenza è spietata e i concorsi, oppure le abilitazioni, si giocheranno prevedibilmente sul numero di risultati ottenuti (importa poco adesso che non siano certo questi i soli elementi a contare). A ogni modo la risposta per molti consiste nel continuare a correre, un anno dopo l’altro, inseguendo il prossimo bando e placando la graduale perdita di senso con motivazioni espressive. Quelle, per esempio, che enfatizzano la bellezza del lavoro; la possibilità che fornisce di conoscere persone brillantissime; oppure quella di potere creare una scuola, promuovere dei giovani che vogliono affacciarsi a questa professione e via dicendo con formule analoghe.
Gli effetti di una simile organizzazione si percepiscono tuttavia anche su piani maggiormente oggettivi. E, a volte, anche un po’ oscuri. Per esempio quello assai banale – ma estremamente caro a giustizialisti e moralisti – della “frode” accademica. Quel fenomeno, cioè, che consiste nella produzione – a firma di singoli oppure di gruppi variamente estesi di sodali – di decine e decine di articoli a testa nel corso di un anno. Oppure negli scambi di firme tra autori e gruppi di ricerca alleati per accrescere il proprio impatto (il numero di citazioni) e la quantità di articoli prodotti da ciascuno (senza avere praticamente contribuito, se non prestando reagenti o svolgendo funzioni analoghe). Così come nell’alterazione di immagini e dati per ricavare da una singola ricerca un amplio numero di pubblicazioni. Senza dimenticare la segmentazione artificiale di un corpo unico di ricerca in rivoli variegati, che non aiutano molto alla comprensione di un fenomeno, ma incrementano il numero di pubblicazioni individuali e collettive.

Va comunque osservato che ciò che scandalizza il benpensante e l’osservatore medio esterno alla ricerca è in realtà il frutto di un’organizzazione, che produce le condizioni della devianza e che anzi la incentiva fino a che il gioco viene scoperto. Ma evidentemente mai veramente compreso, né da chi grida allo scandalo né da chi organizza le regole del gioco.
Inoltre se produrre a oltranza è la precondizione per esistere accademicamente così come per generare gli scandali, le strategie e i ritualismi a venire, esso è anche la condizione per la saturazione. Ossia per la determinazione di un altro circolo – insieme intimo e oggettivo – che consiste nel flusso infinito di pubblicazioni dal valore variegato. Testi ottimi, così come di valore medio e anche infimo, invadono dunque il mercato editoriale nazionale e internazionale regolarmente. Mentre l’uscita di un libro o un articolo per una prestigiosa casa editrice o per una rivista di alta fascia è un evento che viene ricercato con sforzi immani e salutato con estrema gioia, è frequente che questo contributo passi quasi del tutto inosservato. Se una porzione minuscola di questi lavori raccoglierà presto centinaia e anche migliaia di citazioni, gran parte di essi non ne otterrà che qualche unità o poche decine. Ciò a prescindere dalla loro qualità, che spesso sarà anche relativamente elevata. L’alta produttività della ricerca diventa così un eccesso di informazione, che renderà invisibili un gran numero di “prodotti”. Oppure che li renderà visibili per qualche istante; e magari anche collezionati e messi da parte. Ma, facilmente, anche mai letti e dimenticati. Oltre che resi obsoleti da una mole simile di testi, pronti a essere messi in circolazione a distanza di qualche mese.

In fin dei conti – non è chiaro se come vezzo o come momento di verità – è frequente sentirsi dire da un accademico che non legge nulla. Non ne avrebbe tempo, tra lezioni (tenute spesso in eccesso rispetto al monte ore), rendicontazioni e impegni burocratici vari, come per esempio il coordinamento di un corso di studi o di una qualunque commissione dipartimentale. Riesce a leggere – racconta spesso questo soggetto – solo velocemente, allorché deve scrivere qualcosa egli stesso. Lo farebbe insomma alla bisogna, per citare qualcosa che sia pertinente quando gli serve. E se lui/lei non ha tempo, sappiamo bene che quasi nessun altro – che non sia un dottorando o qualche entusiasta superstite – avrà tempo di leggere ciò che è stato scritto con linguaggio gergale e a proposito di cose fondamentalmente assai specialistiche, se non noiose. E che resterà visibile solo per qualche mese prima di essere archiviato.
Un effetto marginale di questa situazione è che presto si dovrà venire a patti col fatto che difficilmente si diverrà, se non dei classici, dei nomi particolarmente significativi della propria disciplina. Sarà più facile essere uno tra i tantissimi, ugualmente competenti e titolati, che affollano un mondo professionale le cui politiche mirano a livellare verso l’alto la propria forza lavoro. A latere, volando questa volta più alti, faremmo meglio a tralasciare la domanda per cui è ancora possibile che qualcosa diventi un classico e possa durare più di qualche semestre come espressione in auge, da inserire in un progetto o un saggio per farlo suonare aggiornato e ben inserito dentro il dibattito internazionale.
Un dibattito, peraltro, entro cui difficilmente si penetrerà dalla porta principale in modo indipendente dalla propria affiliazione. Ciò che il ricercatore imparerà, infatti, è che non importa quanto buono sia il proprio contributo personale. A contare, nella sua possibilità di acquisire un autentico peso, saranno senz’altro la fama e la reputazione dell’università a cui esso/a appartiene. Infatti il “classismo” accademico – fatto di sedi, lingue e canali editoriali – difficilmente promuoverà al rango di autore di riferimento chi proviene dai margini immaginari, ma insieme assai reali, dell’università.

In conclusione, semmai esistano ancora immaginari romantici sulla ricerca e l’accademia, si dovrebbe notare che questi sono mondi che non sono affatto sfuggiti alle trasformazioni del presente. Sono spazi che – alla stregua di altri – sono stati incapaci di opporsi ai processi e sono perciò venuti segmentandosi per molti aspetti, relativi alle gerarchie disciplinari, ai ruoli e ai contenuti. Sono inoltre spazi effimeri, come lo è quasi tutto ciò che umano. Ma che oggi lo sono diventati maggiormente, in ragione della difficoltà a lasciare qualcosa di sé che sopravviva al flusso di produzioni sempre nuove, sempre più estetiche e, in fondo, anche superflue. È inoltre un mondo performativo e materiale, in cui a contare è più facilmente l’integrazione in un discorso, che la sovversione dei paradigmi. Ciò, in particolare, se lo si fa dai margini.  A contare, per lo meno in prima battuta, è l’integrazione del prodotto dentro un discorso generato dall’alto attraverso i suoi bandi. “Sicurezza”, “Confini”, “Comunità energetiche”, “Sostenibilità”, “microplastiche” etc., sono le parole chiave predeterminate entro cui un progetto di ricerca dovrà muoversi. I confini di ciò che è meritevole di essere conosciuto sono dunque segnati. Non rispecchiano gli interessi del ricercatore, ma quelli del soggetto finanziatore. Che è spesso sì un soggetto pubblico, ma con nemici (per esempio l’immigrazione), finalità non necessariamente pubbliche (leggasi la sinergia con l’impresa privata) e narrazioni (l’assedio da parte di entità criminali).  A prescindere dall’abilità con cui, nei fatti, si riuscirà successivamente a fare convergere lo studio verso interessi più congeniali a chi lo dirige o vi partecipa, nei fatti assistiamo alla morte dell’Autore – ossia dell’accademico – così come lo si è venuto a idealizzare nel corso dei secoli. Certo, non si tratta di una fine recente. Ma mai come oggi questa appare drammaticamente tangibile nel quotidiano.
Pietro Saitta, Professore ordinario di Sociologia, Università di Messina

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