Costume

Un’italianità troppo chiusa

30 Agosto 2019

Era l’ottobre 2017 e quello che è oggi il ministro per le politiche agricole, Gian Marco Centinaio della Lega, in una trasmissione televisiva e di fronte a una sua foto che lo ritraeva durante un pasto, si trovò a rispondere alla conduttrice che gli chiedeva se il piatto fosse couscous (in realtà era un’insalata di riso). La sua replica fu «Ma che schifo! Piuttosto che mangiare il couscous, faccio lo sciopero della fame»[1]. Un anno più tardi il leader del suo partito, Matteo Salvini, avrebbe puntato il dito contro i cosiddetti negozietti etnici accusandoli di essere «ritrovo di ubriaconi, spacciatori, casinisti» (qualche mese più tardi Salvini stesso invece sosterrà il permesso di vendita degli alcolici dopo le 3 nei locali notturni della cosiddetta movida). D’altra parte, il Carroccio a livello locale si era distinto già da anni nella sua lotta contro i kebab, per «arrestare il degrado» ma anche per «per tutelare le tipicità gastronomiche della nostra tradizione» (parole dell’ex capogruppo in Emilia-Romagna, Maurizio Parma).

L’ostilità gastronomica nei confronti dell’”etnico” è forse l’elemento più folkloristico di tutta una serie di chiusure di politici, ma anche di molti cittadini comuni, nei confronti delle diversità etniche, culturali e religiose (ad esempio, le varie battaglie su presepe e crocifisso, ma anche quelle ostili ai fedeli islamici, si veda il caso dell’asta vinta dall’associazione musulmana di Bergamo o la legislazione della regione Lombardia che ha inteso ostacolare la costruzione di nuove moschee) che metterebbero in qualche modo in pericolo la tradizione e le comunità italiane, se non anche la nostra sicurezza. Sì, molto probabilmente è vero che in alcuni centri di preghiera c’è il pericolo di radicalizzazione fondamentalista, ma viene difficile non notare l’utilizzo di un diverso criterio di giudizio nei confronti dei cosiddetti negozi etnici e dei locali notturni – criterio che considera solo i primi e non i secondi come pericolosi luoghi di spaccio e alcolismo. Questi elementi vanno ad aggiungersi anche a tutta una serie di dichiarazioni e di prese di posizione ostili a certi orientamenti sessuali e a certi provvedimenti legislativi come, ad esempio, il riconoscimento delle coppie di fatto.

Si tratta di episodi che, uniti a una certa visione politica in materia di immigrazione e di integrazione e al recente aumento dei consensi nei confronti di forze politiche nazionaliste o sovraniste o tradizionaliste, sembrano ognuno confermare i risultati generali di una ricerca dell’Open Society European Policy Institute pubblicata a febbraio 2019 e che tratta dell’atteggiamento degli italiani nei confronti dei valori della cosiddetta società aperta. Considerati senza metterli in competizione con altri valori o dichiarazioni di principio, quelli della società aperta trovano sostegno maggioritario (seppur con sfumature) tra gli italiani: secondo questa pubblicazione, il 95% ritiene abbastanza (41%) o assolutamente (54%) essenziale la libertà di parola, l’88% crede che sia importante la protezione dei diritti delle minoranze (per il 37% è assolutamente essenziale), l’81% sostiene la libertà di religione (per il 38% è assolutamente essenziale), e il 78% è favorevole a dare lo stesso trattamento ai nuovi arrivati (ma solo il 22% in maniera assoluta).

Secondo questo studio, però, gli italiani ritengono che anche altri valori o atteggiamenti siano di rilevanza per la società: il 50% ritiene importante che i non cristiani pratichino visibilmente la loro religione solo a casa loro o negli appositi luoghi di culto (il 19% con assolutezza), il 65% pensa che la cittadinanza sia da conferire solo a chi ha genitori italiani o a chi sia etnicamente italiano (il 27% considera che sia assolutamente importante), l’88% (e il 49% assolutamente) vuole che tutti vivano secondo i valori e le regole tipiche (intese non in senso legale) degli italiani; infine il 72% ritiene che sia giusto che arrivi in Italia il minor numero di immigrati possibile (il 40% pensa che sia di importanza assoluta).

Ora, che questi due insiemi di valori siano in contrasto l’uno con l’altro è tutto da dimostrare. Anzi, può ben darsi ci siano delle compatibilità (si può, ad esempio, essere favorevoli a regole rigide e a tempi lunghi per il riconoscimento della cittadinanza, e allo stesso tempo ritenere che le libertà di chi la cittadinanza non ce l’ha siano inviolabili e uguali a quelli di chi ha il passaporto italiano, e che anzi chi vuole venire in Italia sia il benvenuto e debba essere aiutato nell’ambito di un rigoroso percorso di formazione e integrazione). Il punto è che nel discorso politico comune viene solitamente rappresentata una competizione tra questi due insiemi, ritenuti (a torto o a ragione) alternativi.

Fatta eccezione per la libertà di espressione, che gli italiani sembrano a maggioranza privilegiare rispetto alla possibilità di offendere non solo i valori delle minoranze, ma anche i valori dei cattolici, lo studio mostra che, negli altri casi, messi di fronte a un’alternativa, gli italiani sembrano preferire quella “chiusa” rispetto a quella “aperta”. Ad esempio, quasi la metà della popolazione (44%) ritiene che la protezione dei diritti delle minoranze sia sacrificabile di fronte alla salvaguardia da parte dello stato degli interessi della maggioranza della popolazione, mentre solo per il 24% i diritti delle minoranze devono prevalere (per il 30% le due esigenze in competizione sono equivalenti). Sempre restando ai diritti delle minoranze, il 50% privilegia l’esigenza da parte dei cittadini di non sentirsi stranieri nel proprio paese, mentre il 20% ritiene quest’ultima secondaria. Inoltre, una maggioranza assoluta di persone considera più importanti che sia assicurato il benessere economico dei cittadini (64%) e la salvaguardia della coesione sociale (52%) nei confronti del fatto che i nuovi arrivati debbano essere trattati alla stessa maniera degli italiani. Solo il 10% e il 15%, rispettivamente, la pensano in maniera opposta.

Eppure, presi separatamente, tra i due insiemi di valori (società aperta e società chiusa), gli italiani sembrano preferire i primi ai secondi in base ai dati raccolti, con poche differenze in base all’età, al posizionamento politico, al genere e al livello di istruzione. Le uniche variazioni da rilevare sono l’inferiore appeal che ha la società chiusa tra i nati dal 1996 in poi, tra chi ha un’educazione elevata e tra chi si definisce di sinistra (rispetto a chi si ritiene di centro o di destra).

Riassumendo, sembra che noi italiani, almeno in linea di principio, siamo ben disposti nei confronti del rispetto delle libertà individuali sancite dalla Costituzione repubblicana da ormai 71 anni. D’altra parte, però, sembra che una maggioranza o una parte sostanziale della popolazione sia disposta a sacrificarle quasi tutti sull’altare del rispetto dei costumi, delle tradizioni e degli interessi della maggioranza, con una visione sostanzialmente negativa del fenomeno dell’immigrazione.

In conclusione, ci possono essere almeno due considerazioni da fare. La prima è la seguente: in un paese in cui da quasi un trentennio la cosiddetta “rivoluzione liberale” e i valori liberali in generale sono stati termini ampiamente utilizzati nelle campagne elettorali e nel dibattito pubblico nel suo complesso, sembra che, al posto di alcuni principi fondamentali del liberalismo, a molti stiano invece più a cuore, anche involontariamente, quelli del comunitarismo, cioè di quella corrente di pensiero che è una reazione anti-liberale che ritiene che «le istituzioni e le pratiche liberali tradizionali hanno contribuito, o almeno non sembrano all’altezza del compito di affrontare, fenomeni moderni come l’alienazione dal processo politico, l’avidità sfrenata, la solitudine, il crimine urbano e alti tassi di divorzio» (si veda la voce sulla Stanford Encyclopedia of Philosophy) e che si oppone «alla tesi che ciò che sta a fondamento dello Stato liberale non sia un’unica concezione etica condivisa, ma un insieme di regole procedurali e di principî che garantiscono ai soggetti pari possibilità di seguire e promuovere ciascuno la propria concezione della “vita buona”», tesi che viene vista come «una concezione della vita pubblica povera, inidonea a creare il senso di unione indispensabile a garantire la vitalità delle stesse istituzioni democratiche e a generare consenso intorno a politiche solidaristiche» (si veda la voce sull’Enciclopedia delle Scienze Sociali della Treccani). Da qui, la rivalutazione del gruppo di cui si fa parte, della famiglia tradizionale, della nazione, o anche di soluzioni di tipo socialista con la tendenza a far annegare l’individuo in un insieme più grande, a privilegiare i fini rispetto all’”io” e all’autonomia individuale.

La seconda considerazione invece riguarda la concorrenza dei valori. Allo stato attuale, chiunque voglia proporre il rispetto dei diritti individuali, dei valori dell’accoglienza e di quelli legati alle libertà delle minoranze come alternativa alla coesione sociale e nazionale, si troverebbe di fronte una montagna da scalare. Non è detto che non valga la pena scalarla, certo, ma è anche tutto da dimostrare che certi principi liberali fondamentali siano in contrasto con le esigenze (reali, presunte o apparenti) di sicurezza, di bisogno di sentirsi a casa, di benessere economico. Il compito di chi vuole contrastare un’idea di italianità chiusa è, forse, quello di pensare a un’italianità aperta e accogliente, cioè di portare avanti un discorso sociale e politico (e, nei limiti del possibile, conseguenti proposte programmatiche e di governo) che riescano a conciliare le varie esigenze, in cui la risposta a una cattiva e disorganizzata gestione dell’immigrazione in un contesto di stagnazione economica non sia il rifiuto tout court della stessa, ma, invece, una migliore, più efficace (nei risultati) e più efficiente (in termini di amministrazione e spesa finanziaria) gestione dell’immigrazione e dell’accoglienza. Non basta dire, in altre parole, che il couscous è buono (e lo è), o affermare in televisione che i contributi INPS pagati dagli immigrati sono superiori alle pensioni che ricevono. Bisogna agire concretamente e narrare al fine di creare una società dove il diverso in generale (cioè colui che non è “normale” perché non rientra nella “norma”, cioè nel caso che si presenta con maggiore frequenza statistica) non sia visto con ostilità, come potenziale pericolo, bensì come un altro uguale a noi che segue il suo percorso di vita e che può, in qualche modo e nel senso più ampio possibile, arricchirci – e ridefinirci, quindi, come una nazione aperta a ciò che gli altri possono offrirci e al loro stile di vita.

[1] Interessante invece notare la differente reazione dell’altro esponente di destra nella trasmissione, Ignazio La Russa, forse perché siciliano, o forse anche perché appartenente a una destra di una volta che subiva maggiormente il fascino del mondo arabo e della “quarta sponda”.


La foto di copertina è distribuita con Licenza Creative Commons Attribuzione – Non commerciale – Non opere derivate 2.0 Generico. L’autore della foto è Dom Dada.

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