Economia circolare
Una cooperativa sociale per cambiare Vicenza (e un po’ anche il mondo)
Sostenibilità, riuso, riciclo. Sono parole attualissime, grazie alla crescente attenzione verso l’ambiente e l’economia circolare. Ma al di là di slogan e buzzwords, in Italia ci sono realtà che questi principi li mettono in pratica da decenni. È il caso della Cooperativa sociale Insieme di Vicenza, nata nel 1979 e impegnata nella formazione di persone svantaggiate con percorsi di inserimento lavorativo all’interno delle sue stesse attività produttive. Attività che ruotano intorno a tre concetti fondamentali dell’economia circolare: preparazione per il riutilizzo, riuso e riciclo.
Com’è accaduto a molti, per la Cooperativa sociale Insieme l’anno del Covid-19 è stato difficile. Da una parte i cali delle entrate nei periodi di chiusura dei suoi negozi dell’usato; dall’altra gli operatori degli ecocentri, alle prese con cittadini esasperati dal lockdown, hanno persino dovuto seguire dei corsi anti-aggressione. Ma è stato anche un anno di cambiamenti e nuovi progetti, che sembra aver risvegliato una sincera consapevolezza del bisogno di sostenibilità, nel settore privato come nel pubblico. Gli Stati Generali ne hanno parlato con Marina Fornasier, 40 anni e presidente della cooperativa dal 2017.
Ci può spiegare cosa fa la Cooperativa?
È una cooperativa sociale di tipo B, quindi di inserimento lavorativo. Accogliamo persone svantaggiate in percorsi educativi nelle nostre attività produttive, che sono di ambito ambientale. Nello specifico ci occupiamo di prevenzione, gestione e riduzione dei rifiuti, in un’ottica di economia circolare. Tutto ciò che è recuperabile lo selezioniamo/igienizziamo/ripariamo, se necessario, e lo vendiamo nei nostri negozi oppure online, canale che abbiamo aperto proprio durante quest’anno di pandemia. Il resto lo smaltiamo.
Cosa si intende per persone svantaggiate?
La legge 381 del 1991 definisce soggetti svantaggiati le persone provenienti dal mondo del carcere, delle dipendenze, della psichiatria e della disabilità. Sono persone certificate dai servizi sociali con i quali collaboriamo per la strutturazione di percorsi specifici a seconda degli obiettivi che si devono raggiungere. Noi però lavoriamo anche con persone con fragilità nuove, che ancora non sono considerate svantaggiate ufficialmente, ma nella pratica lo sono. Ad esempio richiedenti asilo, disoccupati di una certa età, persone con dipendenze “nuove”, come lo shopping compulsivo. Insomma, tutte le nuove forme di fragilità che, pur non essendo riconosciute da nessuna legge, esistono.
A quante persone date lavoro?
Siamo una cinquantina di soci, una trentina di dipendenti e una ventina di volontari. Dopodiché, il numero di persone provenienti da situazioni di marginalità sociale, o che magari devono svolgere lavori di pubblica utilità come misura alternativa alla pena, varia, ma si aggira intorno a cento. Non offriamo contratti a tempo indeterminato alle persone con svantaggio: il nostro obiettivo è formare le persone e aiutarle a diventare il più autonome possibile e a poter rientrare nel mondo del lavoro “non protetto”, come lo chiamiamo noi, cioè senza più affiancamento. Per questo offriamo contratti di massimo quaranta mesi; spesso scherziamo dicendo “quando sono bravi li mandiamo via”.
Immagino che questo vi permetta anche di aiutare molte più persone.
Sì. Nei quaranta mesi di contratto ciascuno segue un percorso costituito anche da obiettivi e verifiche, e su misura, a seconda delle proprie attitudini e necessità. Avendo tante attività produttive è come se avessimo tante aziende in una, e questo ci permette di avere maggiore scelta nell’assegnare le persone a una mansione piuttosto che a un’altra a seconda della loro storia. Capita che si cominci con una mansione e si finisca con un’altra: tanto per dire, noi abbiamo anche un bar. Ebbene, chi arriva a lavorare lì ha fatto un grande percorso di crescita personale all’interno della cooperativa.
Quali sono le vostre attività produttive?
Sono divise in tre categorie principali: riuso, preparazione per il riutilizzo e riciclo. Intercettiamo quanti più rifiuti e beni possibile attraverso diversi canali, che poi sono delle attività vere e proprie: la gestione di ecocentri, gli sgomberi civili e industriali, e le donazioni, perché in quanto onlus possiamo ricevere dei beni donati e rimetterli in commercio. Nelle prime due attività raccogliamo rifiuti, nella terza si tratta di beni. Dopodiché, rifiuti e beni confluiscono in due impianti di preparazione per il riutilizzo, dove avviene la trasformazione da rifiuto a bene. Infine c’è l’entrata nel mercato, per la quale abbiamo tre negozi dell’usato in provincia di Vicenza. Abbiamo anche dei canali di vendita all’ingrosso e di vendita online.
La trasformazione da rifiuto a bene è uno dei pilastri dell’economia circolare; punta a evitare che tutto ciò che per una persona non è più necessario finisca automaticamente in discarica.
Esatto, e infatti oggi la preparazione per il riutilizzo è la nuova frontiera, ed è una filiera che sta cercando di strutturare anche la direttiva europea sui rifiuti, inclusa nel Pacchetto sull’economia circolare. La particolarità della nostra cooperativa è che lo fa sin dal 1979, da quando è stata creata. Infatti abbiamo anche una procedura standard, la Provincia di Vicenza ci ha assegnato delle autorizzazioni specifiche. Vengono in visita da altre parti d’Italia e persino d’Europa proprio perché durante la sua esistenza questa cooperativa ha creato una filiera che oggi interessa a molti.
Certo, dal 1979 il mercato è cambiato parecchio…
Eccome. Venti o trent’anni fa quando si comprava una maglia, per esempio, costava più di oggi, ma era maggiore anche la qualità. E la si poteva vendere sul mercato dell’usato a un costo inferiore che in quello del nuovo, anche dopo le operazioni necessarie al riuso. A un certo punto invece sono cominciati ad arrivare enormi quantità di prodotti a costi e qualità molto, molto bassi, e quindi noi del mondo dell’usato ci riempiamo di materiali! Veniamo inondati di oggetti che però sono di qualità così bassa che il solo fatto di re-immetterli sul mercato dell’usato ha un costo maggiore del loro prezzo originale.
Cos’ha significato per voi lo scoppio dell’emergenza Covid-19?
All’inizio grande confusione e incertezza, come per tutti. Dovevamo capire se e come potevamo continuare a lavorare, come fare per proteggere i lavoratori. Anche perché la gestione dei rifiuti è stata considerata un’attività essenziale, quindi abbiamo potuto continuare a fare gli sgomberi e tenere aperti gli ecocentri. Anzi, siamo proprio stati inondati di materiale perché l’anno scorso la gente, chiusa in casa per il lockdown, approfittava per sistemare, buttare cose inutili, liberarsi di mobili vecchi, svuotare le cantine. Purtroppo è stato persino necessario un corso anti-aggressione per aiutare i colleghi a fronteggiare l’ondata di cittadini che arrivavano con i loro rifiuti e le loro tensioni.
Un corso anti-aggressione? Perché?
Vede, è stato un periodo allucinante per tutti, che ha portato a galla le fragilità di ciascuno. Noi abbiamo dovuto riorganizzare tutta la gestione degli ecocentri, e all’inizio non è stato affatto semplice, c’erano molti interrogativi. A parte evitare gli assembramenti, pensi ad esempio alla manipolazione dei rifiuti… gli operatori potevano toccare gli oggetti che la gente portava? Come? Quindi i conferitori doveva fare lunghe file davanti agli ecocentri, e nella mentalità di molte persone i rifiuti, e i luoghi in cui si portano i rifiuti, sono ai margini della società, di serie B. E così pure gli operatori che se ne occupano. Perciò la rabbia per le lunghe attese ha portato a vere e proprie aggressioni, con episodi davvero spiacevoli.
Incredibile.
Sì. Devo dire che gli operatori hanno svolto un compito davvero encomiabile, continuando a offrire un servizio fondamentale nonostante una situazione difficilissima. Nell’immaginario collettivo un infermiere è diventato un eroe, con questa emergenza. Ma è ben difficile immaginare un eroe in un ecocentro, un parcheggio pieno di rifiuti dove si va solo per liberarsi di ciò che non si vuole più dentro casa o in cantina. Penso che per un sociologo sarebbe davvero interessante studiare ciò che è successo nei luoghi dello smaltimento dei rifiuti durante i mesi duri del Covid-19. Anche perché gran parte degli operatori erano appunto persone che avevano già delle fragilità importanti prima dello scoppio dell’epidemia.
Avete dovuto chiudere i vostri negozi dell’usato?
Sì, durante i periodi di chiusura obbligatoria per gli esercizi commerciali non essenziali. Quello è stato un colpo duro, infatti il bilancio 2020 sarà negativo. Avremmo potuto ridurre le perdite lasciando delle persone a casa, ma abbiamo scelto di ricorrere il meno possibile alla cassa integrazione. Lo scopo della cooperativa è tutelare i propri lavoratori, i soci, i dipendenti. E insieme agli affetti e alle relazioni personali, il lavoro è assolutamente fondamentale per trovare un equilibrio, le persone ne hanno bisogno. Da qui la scelta. Invece abbiamo investito sul continuare a far lavorare le persone e sull’immaginare i nostri prossimi tre anni, anche in considerazione di questa pandemia.
Cioè? Avete cominciato qualche nuova attività durante quest’anno?
Da una parte abbiamo sviluppato il ramo delle vendite online. Dall’altra, ovviamente, noi paghiamo per tutto ciò che smaltiamo anziché rivendere o inviare al riciclo. Perciò abbiamo cercato nuovi modi per produrre nuovi beni da vestiti, mobili e quant’altro che non riusciamo a vendere, magari perché non è più di moda oppure perché è quel tipo di prodotto che ormai costa meno da nuovo piuttosto che da usato. In pratica abbiamo fatto uno studio sui nostri scarti per capire come rigenerarli trovando nuove modalità di riciclo oppure riutilizzandoli in forme nuove.
Un esempio?
Per esempio il progetto che abbiamo chiamato New is over, che per ora riguarda solo gli indumenti ma che abbiamo in mente di ampliare anche ad altri tipi di oggetti. È un progetto che impiega solo scarti, e noi di scarti tessili abbiamo davvero enormi quantità. Sono quasi tutti materiali sintetici, roba che di solito va dritta in discarica: le percentuali di riciclo degli scarti tessili sono bassissime a livello mondiale. I tessuti sintetici, quelli multi materiali di cui non si riescono a separare le fibre, sono difficilissimi da riciclare. Allora abbiamo messo in piedi un laboratorio sartoriale che ha prodotto la sua prima collezione di abiti realizzati unicamente con pile vecchi, utilizzando solo i nostri scarti tessili. L’idea è di proseguire, abbiamo aperto un piccolo sito ad hoc e un profilo Instagram, e stiamo vendendo online, appoggiandoci a piattaforme già esistenti.
È ottimista riguardo il futuro?
Sì, se le cose vanno come devono andare.
Cioè?
Per noi, oltre alla cooperazione sociale, i tre attori del cambiamento sono il pubblico, le aziende e le persone. Insieme tutti questi attori potrebbero fare grandi cose, e quest’ultimo anno sembra aver innescato dei cambiamenti positivi. Ad esempio se da una parte, negli ecocentri, è venuto fuori il peggio di certe persone, dall’altra le vendite dei nostri negozi dell’usato sono aumentate, quando abbiamo potuto aprirli. È arrivata più gente: hanno cominciato i giovanissimi, che poi hanno portato le loro famiglie. Delle fasce di mercato si stanno spostando dai negozi di nuovo a quelli dell’usato; vuoi per le difficoltà economiche, vuoi per un aumento della sensibilità verso i temi della sostenibilità e dell’economia circolare, sempre più persone cominciano a rispondere a questo modello.
Questo è un segnale positivo.
Sì, ma ora deve succedere lo stesso anche tra le aziende e nella pubblica amministrazione. Qualcosa inizia a muoversi. Quest’anno, ad esempio, ci sono state delle aziende che hanno cercato delle nuove e autentiche forme di collaborazione con noi, sia dal punto di vista sociale che ambientale. Prima invece ci capitava di vedere puro green o social washing.
E il pubblico?
Anche il settore pubblico, dopo l’arrivo del Covid, ha cominciato a chiamarci per chiedere proposte su come sia meglio aprire un ecocentro o seguire i percorsi di inserimento lavorativo in questi tempi difficili. Come succede sempre durante le crisi, con l’emergenza Covid ci si è tornati a guardare in faccia. Mi sentirò ottimista se questi segnali avranno un’evoluzione di qualità, e se tutti si rimetteranno in discussione nei loro rapporti. Se il pubblico comincia a pagare le competenze che gli offre la cooperazione, ad esempio, se le aziende cominciano a collaborare con la cooperazione alla pari, e se i cittadini scendono in campo con il loro potere di consumatori responsabili. I rischi che questa evoluzione non abbia luogo esistono, e sono tanti. Da parte nostra stiamo cercando di fare tutto il possibile perché avvenga.
Foto in copertina: gentile concessione di Andrea Rosset
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