Letteratura
Tredici lune: generazioni con lo zaino d’emergenza in spalla
“Ogni cosa è portentosa e labile”
Quando si cerca di riassumere un romanzo, si trova sempre una chiave necessariamente parziale, una sola cruna attraverso cui far passare i fili più o meno numerosi e ingarbugliati del racconto.
Tredici lune, esordio nella narrativa di Alessandro Gazoia, uscito di recente per Nottetempo, può essere definito un libro sugli effetti del primo lockdown, in cui l’io narrante Ale racconta all’indicativo presente il fluire di percezioni, pensieri, ossessioni e vita quotidiana fra l’inizio di marzo 2020 e l’estate. Oppure, si può mettere l’accento sulla storia d’amore con Elsa, la sua fidanzata che nelle prime pagine è venuta a trovarlo da Napoli, e finalmente fra loro si sta creando una quotidianità e una complicità che permettono quasi quasi di crederci, in questa storia: e poi l’affievolirsi di tutto nello scorrere di una lontananza forzata. O ancora, si può dare spazio al fatto che sotto sotto si parla di editoria perché sia Elsa che Ale lavorano in quel mondo e intorno a loro si avvicendano libri di sindaci e virologi da “ghostare”, scrittori mediocri con pretese mediocri preoccupati per i loro libri in uscita, libri da trasformare perché non diventino obsoleti mentre il mondo cambia alla velocità della luce.
La cruna forse più interessante va al di là dell’editoria, della storia d’amore e anche del covid: i quali, tutti e tre insieme ad altre possibili sottotracce, sono i fili che l’attraversano. Si tratta di un particolare rapporto con lo spazio e con il tempo che accomuna le generazioni dopo i boomers, un senso di precarietà esistenziale. Lo si vede, fin dall’inizio, nella relazione fra Elsa e Ale in cui allo stesso tempo Ale si prenderebbe da lei “anche il virus” e però, quando Elsa lascia a casa sua due maglioni, deve specificare: “non devo sovrainterpretare come al solito, lo ha fatto per chiudere meglio il trolley, me lo ha pure spiegato ed è un gesto che esiste nel momento, il suo significato si rivela e si realizza lì”. È quell’esistere nel momento che la pandemia amplifica. Se finora si erano fatti programmi, seppure a breve termine, nel tentativo di emulare le generazioni passate che di programmi ne facevano a vita (matrimoni, contratti indeterminati, case di proprietà, che forse un giorno si sarebbero rotti ma che in potenza erano per sempre) – ecco, se finora si era finto di guardare un po’ più lontano del mero presente, il lockdown ha fatto scivolare il velo.
Così Ale crea una confidenza metodica e gentile con il proprio qui e ora attraverso la cura della casa e la cura del corpo, e insieme prepara uno “zaino d’emergenza” perché, chi lo sa, forse domani si dovrà andare via, ci si dovrà difendere, si dovrà sopravvivere, perché tutto quello che c’è oggi non è detto ci sarà domani.
Così la relazione con Elsa ora può anche essere assoluta, ma la consapevolezza che domani potrebbe non esserci non lo lascia mai: e infatti, in questo modo di stare, “una storia d’amore (…) è una cospirazione”. Ciò che si vive può essere reale adesso ma illusorio domani: “ora ho imparato ad apprezzare proprio il fatto che ogni dialogo è un duello e una scena madre. Domani chissà” dice parlando del suo rapporto con Dostoevskij.
Di questo zeitgeist di provvisorietà, understatement e autoironia, fanno parte anche quell’editoria, rimasta in piedi perché è “così diversa rispetto alla percezione e missione ideale”, e l’atteggiamento con cui viene accolta la proposta di scrivere un libro di racconti comici: con un sorriso a testa china, fra diminutivi e “sminuitivi” (“Li fai brevi, una paginetta, due al massimo. Ti metti lì, un ritrattino, uno spicchio di vita al giorno”).
In quelle lunghe settimane sospese, in cui tanti aspetti latenti della realtà si son resi visibili, emergeva, preponderante, anche un bisogno di riconciliazione con la Natura, di cui si cominciava a sospettare di far parte, e insieme aleggiava un velo di speranza che proprio in quella sospensione stesse la possibilità di salvarsi, togliersi le briglie di uno stare al mondo insano. Il futuro che finora non si era mai immaginato (o meglio, prima in maniera vaga, per emulazione, ma sapendo infondo che si trattava di un’illusione, mentre ora si era reso manifestamente opaco) era ancora invisibile ma quasi quasi si credeva che a breve avrebbe potuto prendere una piega inaspettata, concreta, financo entusiasmante.
Ma quella speranza silenziosamente rivoluzionaria naufraga non appena passa il tempo del raccoglimento e della sospensione e si fa timidamente ritorno alla socialità e alla vita. Ale, come risvegliato, dice:
“Mio padre credeva che avrebbe visto una colonia su Marte prima del 2020. (…) La sua visione del futuro era sbagliata. Ognuno di noi ha qualche idea del futuro, anche chi è più consapevole delle difficoltà di immaginarlo (…) in qualche modo pensiamo la Terra fra venti trenta cinquant’anni (…). Io, io penso che la popolazione non esploderà ma saremo comunque più di dieci miliardi. La tecnologia la politica la coscienza collettiva non avranno risolto e neppure mitigato in modo decisivo il riscaldamento globale e le grandi migrazioni di massa saranno una realtà. Almeno un’altra grande pandemia ci avrà colpito. Io, io vedo e prevedo gruppi di persone molto abbienti che avranno costruito comunità assolutamente chiuse, resistenti con la forza a ogni invasione ed emergenza. (…) E se continuerà ad essere vero che è più facile immaginare la fine del mondo che la fine del capitalismo questo accadrà perché il capitalismo si attrezza già adesso per la fine del mondo. (…) non sarà arrivata nessuna singolarità, le intelligenze artificiali saranno formidabili e dominanti in molti campi ma non avranno scritto un nuovo Macbeth (…). Non saremo immortali, e nemmeno vicini ad esserlo (…). Molti hanno preso la crisi del coronavirus come una cesura epocale. (…) E invece si è presto confermata la resistenza della struttura.”
Così il romanzo prende la forma di una parabola discendente. Al centro c’è una generazione che sempre ha in spalla uno “zaino d’emergenza” e guarda solo al presente perché al futuro è meglio che non ci pensi. Alla fine Ale è su un treno – diretto verso Napoli a rivedere, forse, chissà, ma non facciamo troppe congetture, a rivedere Elsa.
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