Costume
Tra il dire e il fare…
Il parterre dei riformisti italiani scopre che una politicante progressista notissima per le sue esternazioni fortissimamente liberal, tra una petizione femminista, una levata di scudi antirazzista ed una viva e vibrante indignazione sull’omofobia, nei ritagli di tempo non pagava il dovuto alla serva e sfruttava al meglio la portaborse – il che non impedirebbe, tuttavia, né alla politicante né al parterre in questione di indignarsi fino alle lacrime, qualora leggessero quello che sto scrivendo, per essermi io permesso di definire serva una serva e portaborse una portaborse. Certo è sempre esilarante beccare un ipocrita con le dita ficcate nel medesimo barattolo di marmellata che non aveva perso occasione di definire, con parole alte e dolenti, come sacro e assolutamente intoccabile da mano umana. E io, nel mio piccolo, mi sarei anche divertito. Solo che, in questo caso, la barzelletta è troppo scontata per far ridere. Semmai fa sbadigliare. Nessuna barzelletta è divertente se, fin dal principio, ne conosci la fine. Per poter, almeno, riuscire a sorridere, allora, non si deve guardare alla protagonista della storiella ma alla platea dei suoi correligionari che, in questo momento, è simmetricamente bipartita. Da una parte i tifosi ad oltranza: “La solita stampa becera e reazionaria che non perde occasione per buttare fango su una donna”; dall’altra quelli che cascano dal pero: “Poffarbacco e perdindirindina, questa non me l’aspettavo…”. Ma non ha nulla di sorprendente che ci sia qualcuno che è quello che è, visto che altro non può essere. Ma osservare come ci siano in giro processioni di credenti che testardamente continuano a trascurare la più evidente e trita delle verità, al prezzo di rendersi più ridicoli dei soggetti delle loro barzellette, questo, in effetti, può rivelarsi spassoso. La verità in questione è quella di cui il sottoscritto, da tempo, ha fatto un tormentone e che tuttavia appare, evidentemente, ai più come qualcosa di spaventosamente anomalo, complicato, esoterico. La massima che ho citato fin troppo spesso e che, se continua così, dovrò mettere in epigrafe: Der mensch ist was er is(s)t”, L’uomo – in questo caso “la donna” – è quello che è (quello che mangia). Non può essere – se non in casi che riguardano uomini e donne eccezionali e richiedono una tensione morale del tutto fuori dall’ordinario – altro da sé. Che una tale, lapalissiana, verità venga però protervamente, corrivamente, pervicacemente ignorata, può far sorridere ma, se si è davvero in grado di pensarlo a dovere, può anche essere illuminante. Il ribaltamento della realtà in rappresentazione, che caratterizza l’epoca nostra (che io, nel mio vocabolario personale, definisco “iperattuale”) è diventata la forma più straordinaria di copertura ideologica dello status quo che abbia mai visto la luce e preso forma. La finzione, qui, diventa reale e la realtà, pur in tutta la sua evidenza, scompare dietro quel paravento scenografico di fumi di scena. Ciò dà forma a quei paradossi che ormai costellano la nostra quotidianità e la cui potenza di fuoco è accresciuta esponenzialmente dal riuscire a non apparire tali; a rendersi del tutto impercettibili. Atti criminosi, miserabili e ipocriti non solo vengono, occasionalmente, spacciati e scambiati per gesti di bontà d’animo ma si attestano per tali in maniera definitiva e proverbiale: agli occhi di chi vi assiste, di chi li effettua e, in specie di chi ne subisce le conseguenze. La dismissione del concetto stesso di “classe sociale”, per esempio, ha messo in gioco un ugualitarismo del tutto privo di oggetto che, con meravigliosi risultati, appronta caramellose poltiglie spacciandole per sollecitudine comunitaria e senso civico. E’ verissimo che quel concetto è scomparso dietro una scenografia fatta di milionari che vanno in giro in motorino, si portano dietro il trolley e di slogan come “siamo tutti nella stessa barca”…Ma resta il fatto che nonostante l’ostracismo che colpisce d’ufficio chiunque si permetta ancora di usare quel concetto, le classi sociali, non solo sono più vive che mai, ma la diseguaglianza tra esse si accentua ogni giorno a dismisura. Il benestante è sempre più benestante, l’indigente sempre più indigente: è sotto gli occhi di tutti (ma in particolare sotto quelli dell’indigente, l’altro, quanto a questo, tende alla miopia). Ora, è proprio da questa paradossale discrepanza tra la realtà e la sua narrazione che consegue il silenzio degli “ultimi”. Non essendo più riconosciuti come tali (se non in forma di macchietta, in quanto “fannulloni”, “falliti” o “inetti”) essi non possono avere altra voce che quella prestatagli dai “primi”. Accade così che la, presunta, difesa di quegli “ultimi” ridotti a spettri di scena, sia oramai appannaggio di una meravigliosa schiera di Colombine in maschera rosa e Meneghini in maschera celeste, liberal progressisti indistinguibilmente benestanti e, a parte il sesso, indistinguibili tra loro. E da questo si perviene in modo algebrico alla grottesca ma inevitabile vicenda di una tribuna della plebe che non solo non ha, della plebe, la più pallida idea ma che, quando diventa improcrastinabile decidere, in termini, per così dire, gastronomici, tra i suoi appetiti e quelli di una plebea non può fare altro che quello che ha fatto. Perché, tanto per ripeterlo, l’uomo (la donna) è ciò che mangia, non ciò che dice di mangiare. E che poi possa anche aggiungere che “queste sono falsità”, fa parte integrante di quel paradosso. Rincara, in pratica, la dose. Perché mostra la totale incapacità di distinguere, come si diceva una volta, “tra il dire e il fare…”. Incapacità che non è dovuta certo ad una qualche forma di diabolica malvagità, e neppure ad un momentaneo obnubilamento della virtù civica – virtù civica, sia la sua che quella dei suoi correligionari, che, ne sono certo, uscirà rafforzata e vieppiù indignata dall’intera vicenda – ma solamente alla sua dieta (e alla sua sarta, al suo estetista, alla sua parrucchiera…).
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