Società

Torniamo presto a fare politica, o Charlie Hebdo sarà morto per sempre

10 Gennaio 2015

A Parigi giace per terra il corpo insanguinato e trafitto del ’68. Non i figli dei fiori, ma la componente irriverente, ludica, dissacrante graffiante e antiautoritaria. Non tutto l’illuminismo, da molti evocato come vera vittima dell’attacco, è stato questo: questa componente non aveva tra i suoi maggiori né Montesquieu, né Voltaire. E’ l’illuminismo radicale di seconda generazione che costituisce il fronte culturale a cui ricondurre una parte rilevante della cultura politica e del linguaggio di “Charlie Hebdo”). Vuol dire: D’Holbach, Condillac, Helvetius.

Ieri, dopo tre giorni, è finita. E’ il momento di uscire dall’emozione e dallo shock e provare a riflettere con calma e con freddezza su alcuni nodi che ci riguardano da mercoledì mattina. È stato detto da più parti che un aspetto di ciò che è avvenuto pone un problema alla cultura di noi occidentali. Io direi che una questione di politica su cui è bene che si crei una spaccatura in tutte le società politiche tanto occidentali come orientali.  Non credo in sé a un compatto Occidente, così come non mi pare esista un compatto Islam. In ogni caso qualsiasi correzione si voglia intraprendere essa avverrà solo se contemporaneamente si pare un processo interno al mondo islamico sulla base di un conflitto, politico e culturale.

E’ stato detto da molti hanno osservato da più parti politiche che la ferocia con cui il nucleo d’assalto ha eseguito la condanna a morte del poliziotto Ahmed Merabet, musulmano, indica che i terroristi non sono tutto l’Islam. Ahmed Merabet è stato ucciso perché era un poliziotto e dunque difendeva l’ordine e i luoghi considerati nemici irreducibili della propria parte.  Non so se chi ha ucciso ha avuto il tempo di realizzare che era un musulmano, a quanto si dice oggi credente. Ma averlo saputo dopo non è motivo di rammarico per chi ha ucciso, né per lui contraddittorio. Agli occhi di chi ha deciso di uccidere e ha ucciso, averlo saputo sarebbe stato ulteriore motivo di condanna. Ahmed Merabet in quanto poliziotto aveva giurato fedeltà alla Repubblica. In quella fedeltà sta anche il riconoscimento della laicità dello Stato, della separazione tra Chiesa e Stato, della laicità della scuola pubblica. Per chi lo ha ucciso era un “fratello” traditore e come tale un esempio da non imitare. Un ottimo bersaglio per rafforzare la propria egemonia sui simpatizzanti.

Una delle esperienze emozionali e culturali che hanno dato vita all’idea della libertà e del combattente per la libertà prima ancora del partigiano è quella del volontario che va alla guerra per solidarietà con chi combatte per la propria libertà. E’ il mito di Byron che nel 1825 va in Grecia e muore per la libertà dei greci, di Giuseppe Garibaldi, dei tanti che aderiscono alle brigate internazionali nella Spagna della guerra civile. Nel corso degli ultimi venti anni questo pratica ha subito una metamorfosi e si è trasformata nella figura del volontario umanitario che va sui fronti di guerra. Quella scelta non armata, solidale con chi spesso subisce la guerra, ma non la fa, certamente degna di rispetto, tuttavia non contrasta il nemico. E’ subordinata alla guerra, la tampona, la subisce, ma non la blocca. Al più costituisce una supplenza, ma non inverte né contrasta.  Non solo.

Quella esperienza che porta George Orwell a combattere in Spagna o anche i molti militanti americani a formare la Brigata Lincoln, ha ora assunto anche altre forme. E’ la pratica di chi ritiene che sui fronti di guerra “caldi” la libertà stia nelle armate di ISIS che rispondono all’occidentalizzazione e leggono l’Islam in armi come le avanguardie del “fuoco” guevasrista. Ci sono affascinati di questa guerra all’Occidente sia nell’ambito delle sinistre come delle destre che guardano con ammirazione all’Islam radicale e armato. Insieme stanno le frange dell’islam radicale in Europa, antimoderno che spesso adotta parole dell’anticapitalismo o dell’antiliberalismo. Tutti hanno comunque un tratto comune: elogiano la liberazione, hanno un sacro terrore della libertà, sono affascinati dalla dimensione della comunità settaria come guscio protettivo e pensano che la pratica della libertà produca emarginazione.

 A noi oggi incombe la necessità, l’obbligo morale, forse prima ancora della necessità, di difendere la libertà di opinione. E tuttavia nonostante sia fermamente convinto che si debba difendere la libertà di critica mi domando se “Charlie Hebdo” non abbia rappresentato un facile bersaglio, non perché non l’abbiamo protetto politicamente, ma perché alla fine era solo. “Charlie Hebdo” è stato lasciato solo in questi anni non solo, perché una parte consistente dell’opinione pubblica democratica non ha costruito per davvero una politica e una cultura della tolleranza che non adottasse lo sberleffo o la vignetta, comunque il linguaggio politically uncorrect.

La cultura socialista di inizio Novecento non era “L’Asino”, Guido Podrecca e Galantara. Era prevalentemente, Turati e la “Critica sociale”, Giacinto Menotti Serrati, Camillo Prampolini, Gaetano Salvemini, Rodolfo Mondolfo, Graziadei, l’Umanitaria o la cultura del sindacalismo riformista di Rinaldo Rigola. Il problema è stato, ed ancora è il seguente: la debolezza di una lettura politica e di una lotta intransigente al terrorismo senza per questo ridurre tutto alla satira. Questo blocco ha lasciato soli gli uomini e le donne di “Charlie Hebdo”.

Non solo. Se nel mondo islamico anche moderato l’attacco a “Charlie Hebdo” è stato percepito come una risposta all’offesa ricevuta. L’effetto è che a mente calda i terroristi in un’area anche molto lontana dal proprio terreno radicale sono stati percepiti i liberatori dalla gogna. Con un linguaggio caro a molte mafie: i difensori del proprio onore. La loro morte lascia inevasa la questione: dopo aver difeso il diritto alla satira c’è margine per pensare una critica radicale all’intolleranza e all’Islam radicale, rimanendo sul terreno del radicalismo politico e su quello del liberalismo democratico?

Diffido di chi mette tutto insieme perché la sovrapposizione di cose non fa chiarezza. Molti di quelli che oggi pubblicano le vignette di “Charlie Hebdo” non le hanno mai né pubblicate né sostenute perché erano e sono radicalmente in disaccordo con il loro contenuto, con lo spirito culturale che le ha prodotte, con quel 68 a cui partimmo. Questo non rende meno prioritario difendere il diritto di parola, ma rischia di creare un unanimismo che non fa chiarezza e, soprattutto, appunto non è politicamente produttivo, ma è solo contemporaneamente vittimario e intriso di rancore. E il rancore non produce politica democratica.  Noi democratici abbiamo bisogno di chiarezza politica e conseguentemente, di proporre e produrre azione politica. Uno dei presupposti perché questo possa avvenire risiede in ciò che culturalmente si comunica, nelle parole e nei segni che si usano, che si scelgono e si propongono in momenti come questi. Ne abbiamo disperatamente bisogno. Urgentemente.

 

 

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