Criminalità
Tolleranza e rispetto: le condizioni di coesistenza
In questi lugubri giorni, in cui l’intolleranza e il fanatismo violento colpiscono la satira (ma già precedentemente si era rischiato un attacco, sventato, al giornale danese all’origine di tutta la faccenda), vale la pena di fermarsi a riflettere sulla questione del rispetto.
Sì, si parla di fanatismo e di fedi, di assoluta libertà di espressione, anche per la satira corrosiva di Charlie Hebdo, in una società secolare e pluralista, attaccando (da destra e da sinistra) il “politicamente corretto” come se fosse un insulto o un grave torto. Non si è parlato invece di rispetto. Assumerò qui una posizione che potremmo anche chiamare di tolleranza relativa o limitata, in breve: rispetto. Spero di riuscire a motivarla, prima di rendere il mio omaggio ai morti.
Primo limite. Chiediamoci se questa libertà assoluta debba anche includere le manifestazioni di odio. La risposta dipende da un’assunzione che occorre esplicitare: le parole e, perché no?, anche le caricature e la satira, sono delle azioni o sono solo parole al vento? (sulla funzione “performativa” del linguaggio vedi qui).
Propendiamo per la prima ipotesi: esistono la calunnia, gli insulti, gli attacchi personali, le menzogne, i silenzi. Tutti atti di parole, tutti leciti. Salvo quando provocano delle conseguenze, dei danni ad altre persone. A questo punto, quasi tutti i sistemi giuridici (sacri e profani) prevedono punizioni e/o risarcimenti. Le caricature, gli articoli di un giornale, le barzellette, possono essere interpretati come atti. Lo sono. In quanto tali, come tutti gli atti liberi, devono avere dei confini, entro i quali si possono esercitare liberamente. Quali sono questi confini? E perché devono esserci dei limiti? I limiti sono la libertà altrui, il rispetto delle altre persone. Perché offendere qualcuno, se lo si può evitare? Se sai che provochi una persona, perché lo fai?
Charlie Hebdo ha lottato per una società libera, ma libera di attaccare anche in modo crudele altre persone, altri gruppi. Si può discutere se sia da accettarsi una tale libertà, e se non provochi invece danni alla convivenza civile.
Proviamo a sostenere che una libertà di questo tipo sia da rispettare quando attacca chi detiene il potere, chi ne abusa: i politici, i capi religiosi, gli intolleranti che si appellano alla tolleranza per esprimere il loro odio (dicendo, cioè, anche noi abbiano diritto di parola, e vogliamo poter dire che il diritto di parola deve essere cancellato).
In questo senso, molti giornalisti, molti umoristi e molti vignettisti hanno sempre rischiato il posto, la salute e la vita, quando si sono scontrati con il potere (per una satira degli attivisti siriani contro Assad vedi qui, anche se non sai l’arabo, e ricordando il disegnatore Ali Ferzat, malmenato per le sue vignette contro il regime, vedi qui, per una bellissima carrellata al riguardo, per chi sa il tedesco e/o il francese, si veda il documentario di Arte). Insomma, i tiranni non amano la satira e, come tutti sanno, neanche i politici nostrani (e non li nominiamo neanche, perché non vogliamo finire in liste di proscrizione).
Il secondo limite deriva in un certo senso dal primo, perché è proprio il fatto che le parole siano atti a indicare che, benché si sia liberi di dire qualsivoglia sciocchezza, non si è però obbligati a farlo. Ora, facciamo finta che ridicolizzare chi non detiene il potere sia un atto di violenza, non quindi un atto di resistenza, ma un abuso nei confronti di chi si trova in una situazione difficile. Allora deve intervenire il rispetto degli altri.
Riflettano i lettori se la satira contro gli italiani, magari vista su qualche giornale straniero, o contro gli zingari, o le vignette dei leghisti contro gli immigrati (ladri, assassini, stupratori seriali ecc.) facciano davvero ridere tutti. Se qualcuno di voi ha subito le conseguenze degli stereotipi sui quali lavora la satira, e magari, chiamiamo le cose con il loro nome, dei pregiudizi che vengono sfruttati, allora può capire perché, benché la violenza non sia legittima, alcune persone, irragionevoli, fanatiche, con una serie di problemi logici, etici, politici, culturali, sociali, economici ecc. ecc., si sentano in dovere di reagire, e perché le vittime di una tale umiliazione possano decidere di protestare.
La libertà di espressione è un bene da difendere, e la redazione di Charlie Hebdo non è stata difesa in modo adeguato. Ma il livello della discussione, il metodo con il quale viene condotta, può far fallire la coesistenza civile. Perché sopravviva, abbiamo bisogno che sia realizzata la condizione di possibilità stessa della coesistenza: chiamiamola tolleranza, ma precisando che non è un modello con pretese universalistiche, e nemmeno un modello di società tra gli altri; è invece una condizione necessaria della coesistenza, quella condizione, cioè, tolta la quale la coesistenza tra posizioni diverse diventa assolutamente impossibile (e lo scontro si fa mortale).
Allora torniamo all’essenza del rispetto: il politicamente corretto. È questa la condizione di possibilità di una società plurale. L’unica condizione che ci permette di evitare lo scontro. Possiamo esprimerlo con un divieto: evita di offendere con le parole (e con i disegni), se rischi di fare del male a qualcuno.
La satira presenta delle posizioni, pretende che siano vere, ma raramente fornisce degli argomenti a sostegno di esse. E una posizione dovrebbe essere motivata, se il nostro interlocutore ci chiede di farlo. Ma la satira non fornisce ragioni. Ci fa ridere, se riusciamo ancora a ridere dopo quello che è successo (io personalmente avrò bisogno di un po’ di tempo per tornare a ridere di qualche vignetta), ma perché lo fa? Come lo fa?
In quattro modi: a) perché ci presenta le cose in un modo in cui non le avevamo ancora viste (o non avevamo osato vederle); b) perché richiede uno sforzo dell’intelligenza, l’esercizio della nostra arguzie su un sapere condiviso (chi non è informato su quanto avviene in una società presa di mira dalla satira non è in grado di capirla, e quindi non riderà); c) perché ridicolizza chi ci fa paura (Monsieur le Président de la République, le gerarchie ecclesiastiche, i terroristi, ripudiati dallo stesso Maometto sulla sua nuvoletta, per citare alcuni famosi disegni pubblicati su Charlie Hebdo); infine, d), perché siamo complici di un atto di umiliazione nei confronti di una persona, di un gruppo impotente e perseguitato (gli ebrei, le donne, i “negri” ecc. ecc.).
Se noi abbiamo interpretato la satira di Charlie Hebdo secondo le modalità a, b, c, chi ha compiuto il massacro l’ha fatto sulla base della sola modalità d.
Il lettore a questo punto potrebbe presentare un’obiezione, che l’autore dell’articolo accoglierebbe senza se e senza ma: no, gli assassini non erano impotenti, non lo sono i fondamentalisti, e neanche i terroristi. Se sono paranoici che si sentono perseguitati dall’Occidente, e da qualche matita, sarebbe meglio che si decidessero a farsi curare, piuttosto che andare in giro a fare stragi contro persone disarmate. Che Maometto e Allah ci aiutino. E con loro, tutti i credenti.
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