Società

Terzo settore: comunicare sotto attacco

9 Agosto 2019

Mafia capitale, migranti, Bibbiano… episodi diversi e scollegati ma con un capro espiatorio: il terzo settore. Perché, al fondo, per confezionare una fake news non serve neanche un contenuto, basta una correlazione fragile o indebita. Ma come vive il terzo settore questa situazione per certi versi inedita? Mai prima d’ora infatti era stato messo in discussione nel suo insieme e non come singole mele marce. Una posizione difficile che viene ulteriormente complicata considerando la natura delle attività svolte dai soggetti che ne fanno parte (imprese sociali, associazioni, fondazioni, ong, ecc.). Trattandosi di beni di interesse collettivo, la reputazione rappresenta una condizione cruciale per continuare ad operare. La meritorietà del proprio agire non può essere solo sancita per legge, ma ha bisogno di una base di consenso che, in verità non da oggi e non solo per effetto delle “campagne d’odio”, si sta assottigliando.

Che fare quindi? Una parte tace, un po’ smarrita, un po’ sperando che passi ‘a nuttata. Una parte alza i toni con il rischio di essere fagocitata nell’arena degli accusatori e rinchiusa nel ruolo – che a qualcuno potrebbe non dispiacere – di minoranza riottosa. Un’altra parte ancora tenta la via, lunga e faticosa, di fondare una nuova narrazione, non solo diversa dal mainstream oggi rappresentato dalle “bestie” che hanno ormai messo sotto scacco i mass media tradizionali, ma differente anche rispetto a quella fin qui utilizzata dallo stesso terzo settore.

Agire quest’ultima strategia richiede di saper comunicare una nuova visione rispetto a ciò che è di interesse collettivo. Una visione che (finalmente) non è più precostituita come opzione di valore da prendere o lasciare, ma che scaturisce dalla principale modalità operativa del terzo settore: i suoi progetti. Connettere comunicazione e progettazione, come evidenziato in una interessante summer school tenutasi a Trento qualche settimana fa, può rappresentare una modalità efficace per gestire l’andamento ormai sincrono tra elaborazione dei contenuti e raccolta dei feedback. Una catena di produzione del valore di un bene – la comunicazione – sempre più cruciale non perché è scarso ma, al contrario, è iperprodotto. Ormai la comunicazione è un continuum tra produzione di contenuti “nativi” e “originali” e il suo farsi come co-creazione simultanea che emerge dal blob di commenti, valutazioni, autopubblicazioni, rilanci, categorizzazioni, ecc.

In questo senso due elementi chiave possono consentire di stare dentro a questo processo senza correre il rischio di essere soverchiati da un flow sempre più impetuoso che esonda i formati tradizionali, i tempi di vita e di lavoro, i ruoli professionali.

Il primo consiste in una competenza hard a livello di data analysis. L’incapacità (o la scarsa capacità) di raccogliere e gestire i dati che si autogenerano dai comportamenti intrapresi dai diversi attori dell’infosfera digitale rappresenta un limite rispetto al quale i manifesti e le dichiarazioni d’intenti per una informazione “etica”, “consapevole”, “rigorosa”, “professionale”, rischiano di apparire come foglie di fico che mascherano in malo modo quella che è semplicemente inefficienza gestionale.

Il secondo elemento deriva dalla capacità, tutta culturale, di dotarsi di una mission trasformativa che vuole cioè realizzare cambiamenti positivi nel modo in cui le persone agiscono, le organizzazioni operano e le politiche regolano. In una parola una comunicazione ad impatto sociale capace di tracciare una sottile linea rossa che tiene insieme oggetti e toni narrativi diversi facendoli ricadere dentro il sano meccanismo del progettare. Il luogo per eccellenza dove si può verificare se le cose funzionano o meno e se quindi sono grado di produrre risultati che, cammin facendo, diventano significati condivisi. Un passaggio, quest’ultimo, tutt’altro che scontato e non solo per i nemici esterni (che a volta fanno tanto comodo), ma anche per cause interne. Cioè per una comunicazione e una progettazione sociale ricche di retorica e scarne di valutazione, limitando così quella capacità di apprendimento che consente di erodere posizioni alle “comunità del rancore” oggi dominanti.

In sintesi è da questa capacità di sottrarsi all’attacco dotandosi di una nuova narrazione orientata al cambiamento (anche interno) che può passare la fondazione di un nuovo terzo settore.

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