Fumetti
Strappare lungo i bordi, il successo di una psicoanalasi generazionale
Il vasto successo della serie Strappare lungo i bordi appare inaspettato. Prima del Covid, Michele Rech sembrava destinato a restare un fumettista di nicchia, incapace di uscire dalla cornice degli ex giovani di sinistra. Invece, la serie televisiva ha ricevuto apprezzamenti unanimi.
Il suo punto di forza sta nel calarsi completamente nella realtà. Probabilmente, il bagno di verità in cui ci immerge Zerocalcare non si vedeva dai tempi di 8 e ½, l’assoluto capolavoro felliniano. Ovviamente, permangono distanze tra un ottimo prodotto come Strappare lungo i bordi e i capolavori del passato. Ad esempio, la serie sconta un finale poco coraggioso, come se temesse di chiudere la storia in modo confuso come in Neon Genesis Evangelion, l’anime giapponese che ha largamente influenzato l’autore di Rebibbia. Invece di cercare il colpo di genio, Zerocalcare riannoda i fili della storia e mantiene quanto fatto di buono fino a quel momento, senza aggiungere niente di più.
Anche grazie a questo finale strappalacrime, Michele Rech ha elaborato un prodotto digeribile per il grande pubblico, che mette in scena le nostre fobie, le nostre indecisioni, le nostre difficoltà di affrontare la vita e prendere una qualsiasi decisione. Mette in mostra il mal di vivere di noi millennial. I nostri genitori boomer hanno avuto meno problemi da punto di vista affettivo, emotivo e delle scelte di vita. Superata l’adolescenza, conoscevano i loro obiettivi, ovvero fare una famiglia, trovare un lavoro stabile, farsi una casa.
Per i boomer è stato molto più difficile svolgere le azioni quotidiane, viaggiare e uscire dal destino imposto alla nascita. La modernità degli anni ’90 ha stravolto tutto. La vita di noi millennial è diventata semplice nella pratica, ma intrigata nelle relazioni. Al tempo stesso, la generazione precedente ci ha insegnato quello che sapeva, ovvero che la vita ha un percorso delineato da seguire lentamente. Strappando delicatamente lungo i bordi, si poteva pian piano crearsi una propria personalità e un ruolo nella società. E poi, con internet, l’euro, Ryanair, l’Erasmus, la flessibilità del lavoro, avremmo avuto una vita esaltante.
Non è andata così. Molte innovazioni sono state utili, altre disastrose. Per quanto non baratterei la mia esistenza con quella dei miei genitori, si è ingigantito il dramma esistenziale causato dall’incapacità di farsi una vita, o di non sentirla abbastanza solida. Il lavoro è ormai totalmente precario e si accede sempre più tardi, prendere il mutuo è impossibile senza la firma dei genitori, lo stato sembra non esistere più, con sanità e istruzione ridotte all’osso, per non parlare del welfare.
Il senso di fragilità che lascia noi millennial inermi ad affrontare la vita è magnificamente e drammaticamente rappresentato dall’opera di Zerocalcare. Di questo siamo a lui grati. Al tempo stesso, fino a pochi anni fa, non sarebbe stato facile accettare una tale operazione di verità che psicoanalizza un’intera generazione, perché ci saremo vergognati ad ammettere tutto ciò. In generale, chi provava a riflettere sulla propria esistenza, appariva una piccola minoranza.
I canali Mediaset mostravano la gioia di vivere nel paese berlusconiano dei ruggenti anni duemila, quando una grandiosa anestesia esistenziale seppelliva i problemi in un mondo di soubrette e talent show. Negli anni successivi, è arrivato il mito delle startup, piccole aziende innovative di giovani rampanti, capaci di creare valore dal nulla.
La pandemia ha fatto esplodere la voglia di esprimere il proprio disagio, montata negli ultimi vent’anni. Nell’isolamento, è diventato normale parlare del proprio mal di vivere. Noi millennial abbiamo sfogato il vuoto esistenziale, dopo anni in cui avremmo dovuto vergognarci per non essere diventati tronisti, veline o startupper.
Al tempo stesso, la serie sembra essere apprezzata pure da altre generazioni e da personalità di destra. Forse, dopo anni passati a motivare i giovani predicando la facilità della vita, ora il sistema comprende che tutto ciò è stato controproducente? Negli anni scorsi, mentre imperversava il berlusconismo, tanti giovani non hanno saputo affrontare la transizione all’età adulta, diventando NEET che non studiano e non cercano lavoro. Ora, tanti di loro vivono con il reddito di cittadinanza.
Forse il sistema ritiene più semplice ammettere che la vita è dura e i giovani devono farci l’abitudine? La narrazione mainstream si è focalizzata sui giovani lamentosi e sempre insoddisfatti, quando invece dovrebbero rimboccarsi le maniche, magari accettando lavori al limite dello schiavismo pur di fare esperienza e avere successo. In questa narrazione, la sofferenza mostrata da Zerocalcare sarebbe utile, perché mostra quanto è dura la vita prima di arrivare alla consapevolezza di sè.
Se così fosse, tale narrazione si rivelerebbe incapace di comprendere la denuncia di Zerocalcare. Questa è potente proprio perché delinea splendidamente gli effetti esistenziali di un malessere che deriva da una società ingiusta e malata. Dovrà essere questa, prima o poi, nolente o volente, a cambiare.
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