Bologna
“Status”, la webserie che racconta la cooperazione in Albania
Che la propulsione di internet stia divorando qualsiasi idea di palinsesto televisivo è un’evidenza ormai troppo grande per essere negata: si sta scorgendo l’avanzata del web come principale canale capace di proporre prodotti d’intrattenimento tra i più completi e adattabili, riuscendo a plasmarsi piattaforma ormai ambita anche da tutti gli altri canali mediatici tradizionali, cinema compreso. Le fiction in particolare –e non si scopre certo ora – hanno segnato una nuova era, tant’è che le fauci del mercato ormai chiedono tagli cesellati per le esigenze “seriali” ormai altissime del cinefilo che bazzica sulla rete.
A tal proposito venerdì 28 novembre esordiranno su Mymovies.it le prime tre puntate di “Status”, prodotto da Milano Film festival e Banca Prossima, recente vincitore del bando ‘Are you series?’ (posti prenotabili a questo link: http://www.mymovies.it/film/2014/status/live/).
Realizzato con il budget non colossale di 60.000 euro, Status è un sentiero di dieci episodi da 10 minuti ciascuno attraverso il mondo della cooperazione allo sviluppo e delle ong all’estero. L’affresco filtra attraverso le dissacranti venture del profano Soccia, al secolo Fortuna Soccorso (interpretato da Edoardo Lomazzi), un pusher bolognese che tra l’improvvisazione e la vocazione si trova a seguire il percorso del cooperante in Albania. Il risultato della serie -che annovera nel cast anche Eleonora Giovanardi, Marco Manfredi, Eglantina Ceno, Filippo Pagotto – è lo sguardo anomalo su un universo sempre molto professionale, che raramente lascia spazio a comportamenti fuori dalle righe o a tagli di narrazione troppo leggeri e goliardici.
Vorremmo dunque capire che sapore ha l’attesa del debutto e approfittarne per parlare un po’ con Davide Labanti, regista bolognese ideatore e autore del progetto insieme a Margherita Ferri e Renato Giugliano.
Leggevo Renato (Giugliano) in un’intervista lo scorso giugno parlare della nascita di Status, affermando che è «ispirato dalla serialità americana». Ora chiedo a te, Davide: quanto c’è di autoctono?
Beh, diciamo che l’ispirazione è quella, per preferenze narrative. Abbiamo voluto distaccarci dal solito cliché italiano della narrazione verticale, preferendo appunto l’agilità orizzontale delle serie tv anglosassoni. Poi ovviamente ci sono elementi presi dalle nostre esperienze di ‘ragazzoni italiani’: Soccia ad esempio non è solo un pusher ma anche un ottimo cuoco. Credo che l’integrazione – e dunque la distinzione- dei tratti culturali in una trama come questa sia fondamentale. Per dire, in un episodio faccio passare un’espressione bolognese usata nel mio gruppo di amici per un’espressione tipicamente italiana – sorride.
Quindi c’è un mix di culture cinematografiche, o meglio “serietelevisive”?
Sì diciamo che questa al di là del prodotto è stata un’esperienza molto importante dal punto di vista del confronto, con noi stessi e col mondo. Viaggiare, girare riprese all’estero, avere a che fare con attori stranieri, ad esempio. Anche questa è cooperazione, no?
Tu parli di narrativa “verticale” e “orizzontale”. Ci puoi spiegare meglio?
La narrazione verticale è quella che ti racconta di un tipo che a inizio puntata, ad esempio, rompe l’automobile. Ecco, secondo questo criterio la narrazione si svilupperà tutta attorno a questo avvenimento in un gioco azione-reazione, di solito sbrogliando poi la matassa a fine puntata. Questo modo di narrare è predominante in Italia e in Europa, almeno per quanto riguarda le fiction. Nel tipo di narrazione orizzontale invece c’è il racconto di un tale che la mattina prende l’auto e parte, senza che però questo possa per forza rappresentare l’innesco. Gli avvenimenti infatti non si scatenano attorno a un singolo colpo di scena, ma si dipanano lungo il percorso che il protagonista fa, percorso che di solito chiude il cerchio all’ultima puntata. Ecco diciamo che questo metodo ci consente di sviluppare meglio i personaggi e di riuscire a dare coinvolgimento al pubblico. La sinergia tra questa scelta e quella del protagonista dall’occhio canzonatorio è quella che poi permetterà alla serie di essere accessibile, e speriamo apprezzabile, a tutti.
La serialità è una buona strategia per tenersi il pubblico incollato per molto. Secondo te c’è un limite oltre il quale si rischia di fallire la missione, o sei di quelli che più si trascina e meglio è?
Io credo che la serialità sia un ottimo modo per guadagnarsi i favori e le lusinghe dello spettatore, se fatta secondo un certo criterio. Trovo ad esempio molto ingegnosa la strategia di “True Detective”, quella di lasciar passare un intervallo relativamente grande dopo una serie di poche puntate, attaccando il pubblico all’immaginazione dell’uscita della seconda: così ha senso, e aumenta il coinvolgimento. Se inizi a fare tre, quattro, sette, quindici serie di fila, a parer mio, prima o poi qualcosa si rompe, e lì inizi a perdere i pezzi per strada.
Come è nato il personaggio di Soccia?
Beh, Soccia nasce dall’esigenza di dare una conformità più ‘digeribile’ alla narrazione. Mi spiego meglio: nella mia carriera non mi sono mai interessato né di cooperazione e né di web series. L’idea è nata da Renato Giugliano e dalla sua voglia di raccontare un universo a cui è sempre stato legato: lui da qualche anno appunto collabora con CEFA Onlus, la Ong a cui ci siamo ispirati per la storia e che ci ha dato un grande supporto durante la lavorazione. Si è presentata l’occasione di questo bando al MFF che aveva come tema il No profit. Io Renato e Margherita non volevamo correre il rischio di creare qualcosa di troppo serio e di già visto, proprio perché la nicchia è quella tra il documentario e la fiction: Fortunato (Soccia) nasce per questo, è una tipologia di personaggio dinamico, la sua occhiata dissacrante da profano alleggerisce un tema che altrimenti avrebbe preso una deriva eccessivamente “tecnica” e seriosa.
Visto il tema trattato, che è molto attuale, desidererei chiederti se per caso avete anche velleità di documentaristi. Nel senso: secondo te una finzione può far emergere la verità del contesto in cui è calata, o è destinata a rimanere finzione?
Questa è una domanda complessa e posso risponderti solo per quello che è il mio punto di vista: nella mia testa ho pensato sempre alla narrazione come priorità. Come mi stile personale non sono un regista che inquadra il soggiorno del protagonista per raccontarne la personalità. Il rischio altrimenti è quello di seppellire la storia sotto immagini forzate, ma questo è davvero un punto di vista dettato dallo stile di ciascun regista: è vero anche l’esatto contrario per tanti ottimi registi di fama internazionale, per intenderci. A mio gusto il punto di partenza deve essere il personaggio, la sua psicologia. Credo che una sceneggiatura scritta bene non abbia mai bisogno di forzature per inquadrare il teatro di scena, perché è la storia stessa che te lo racconta.
E nel caso di “Status”, allora, come lo racconta?
Ci siamo imposti appunto di non dare quel taglio eccessivamente emotivo, anche perché in questo ambito è piuttosto facile cadere nella retorica. Avremmo per intenderci potuto descrivere il classico cooperante che salva i bambini con il sorriso stampato e con l’amore che zampilla da tutti i pori, e credo appunto che quello non sarebbe stato il ritratto più adatto sia per la narrazione che per il contesto. Il cooperante è un mestiere, come il medico, come l’avvocato. Ci può stare che uno si svegli la mattina dicendo “che palle”, perché l’ambiente lavorativo è così, d’altronde: è tutto un punto di vista interno. Su questo punto eravamo tutti e tre allineati fin dall’inizio e questa era la base per partire. Niente discorsi politici. Secondo me chi vedrà la serie si farà le sue idee ben precise, come se fosse stato anche lui per un giorno a lavorare in una Onlus in Albania, insieme a Soccia. E chissà, magari attraversando lo stesso percorso spirituale di cambiamento del personaggio.
Ora non ci resta che accontentarsi del trailer, e aspettare di seguire la strada indicata dal Soccia, il 28 novembre, con le prime tre puntate.
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